Riflessioni sulla Resurrezione  –  di Carla D’Agostino Ungaretti

Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dai morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Cor 15, 12 – 14).

E’ risorto: or come a morte / La sua preda fu ritolta? / Come ha vinto l’atre porte, / Come è salvo un’altra volta / Quei che giacque in forza altrui? / Io giuro per Colui / Che da’ morti il suscitò”. (A. Manzoni, La Risurrezione).

di Carla D’Agostino Ungaretti

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Una volta di più dobbiamo ringraziare il Signore perché anche quest’anno ci ha fatto il dono di sentire e vivere nella nostra quotidianità, soprattutto nel cuore e nella mente, il grande Mistero della Sua Risurrezione, fonte inesauribile di speranza per l’uomo, evento cardine che sorregge la nostra Fede, senza il quale il Cristianesimo non sarebbe altro che una bella e commovente dottrina consolatoria, una delle poche (in verità) che hanno attraversato nei secoli la storia umana e sono poi sparite lasciando il tempo che avevano trovato. Se Gesù non fosse risorto, Egli non sarebbe adorato da duemila anni, ma solo ammirato, venerato, imitato e commemorato come un grande Maestro, come sono stati Confucio, Gandhi o Lao Tze, non certo come il Cristo, il Figlio di Dio, il Messia, il Salvatore. E tutto ciò in virtù di quell’evento inaudito, scandaloso, paradossale, per il quale non possono trovarsi sufficienti attributi che lo definiscano, evento non soggetto ad alcuna verifica scientifica, che tuttavia ha rivoluzionato il corso della storia  e si riassume nelle tre parole del Kèrygma, sostantivo che il vocabolario greco – italiano di Lorenzo Rocci, fedele compagno quotidiano di tanti studenti liceali della mia generazione, traduce con “proclamazione, intimazione per mezzo di araldo” e che nel  Nuovo Testamento ha assunto il significato di “predicazione, annuncio”. Vale a dire: GESU’ E’ RISORTO!

Se studiamo una storia comparata delle religioni alla ricerca di qualche santone o guru o maestro ispirato che abbia ipotizzato la possibilità di una risurrezione dai morti, rimarremmo delusi. Nessuno si è spinto a profetizzare un ritorno alla vita dopo la morte, né per sé, né tanto meno per i propri adepti e meno ancora ad annunciare che sia stato un Dio a morire: gli Dei non muoiono, e quindi neppure risorgono, perché questa eventualità è umanamente al di fuori di qualunque possibilità di immaginazione. Quindi le loro teorie, i loro insegnamenti, anche se ammirevoli, hanno un valore e un significato soltanto umani, possono solo insegnare a vivere un po’ meglio, ammesso che ne siano capaci. Niente di tutto ciò per il Cristianesimo.

Il Cristo non è stato rianimato da una morte apparente, non è tornato alla coscienza da uno stato comatoso; è tornato alla vita completa e reale, anche se molto diversa da quella che noi conosciamo perché gloriosa, ossia non più soggetta alla morte né ai condizionamenti dello spazio, del tempo o degli ostacoli materiali, come muri e porte sbarrate. Per dirla con parole semplici, è tornato a vivere “in carne e ossa”, come disse Lui stesso agli stupefatti discepoli (Lc 24, 39) e quei fortunati testimoni hanno potuto vederlo, ascoltarlo, abbracciarlo prima di cadere ai suoi piedi per adorarLo, godendo un momento di ciò che godremo tutti un giorno quando potremo vedere Dio “faccia a faccia”.

Sicuramente questa realtà è difficile da capire per la nostra limitata intelligenza umana; infatti molti, incapaci di accettare il Mistero, la respingono. Possiamo ipotizzare o immaginare la rianimazione da uno stato che era stato diagnosticato (erroneamente) di coma profondo, da quello definito irreversibile, ma come si può umanamente concepire la riattivazione e addirittura il potenziamento delle funzioni vitali, della mente e dell’intelligenza a tre giorni dalla loro totale cessazione? Ciò che è cessato secondo le leggi di natura, è cessato e basta. Ci manca qualsiasi termine di confronto, non esiste possibile esperienza e non solo per il popolo materialista, nichilista e relativista del XXI secolo, perché lo stupore e lo scandalo per quel Kèrygma lo provarono anche i contemporanei di Gesù. Non tutti “credettero”, a conferma del fatto (per dirla con Pascal) che Dio ci ha lasciato liberi di credere o di non credere, ci ha dato abbastanza luce per credere e abbastanza penombra per dubitare, come avvenne ad alcuni di quei discepoli che andarono in Galilea sul monte che il Risorto aveva loro fissato (Mt 28, 16 – 17). E questa difficoltà di convincere tutti la sperimentò lo stesso S. Paolo nell’Areopago di Atene, il supremo tribunale delle cause religiose, come riferisce Luca negli Atti degli Apostoli (17, 32 – 33).

Questo famoso episodio è certamente storico perché è avvalorato da quello che gli esegeti hanno chiamato “il criterio della discontinuità”, ossia la necessità profondamente avvertita dagli Evangelisti di riferire comunque un fatto che, di per sé, sarebbe imbarazzante per il protagonista, ma che non può essere taciuto perché si è realmente verificato e tacerlo sarebbe indice di disonestà intellettuale. Di questi episodi riferiti col “criterio della discontinuità” se ne trovano molti nel Nuovo Testamento a conferma della sua storicità.

Paolo – giunto ad Atene, la capitale della cultura del tempo, per annunciare la Morte e la Risurrezione del Cristo – sa di trovarsi di fronte un pubblico istruito e smaliziato che da tempo ha abbandonato la fede nel mito per cercare la Verità nella filosofia e allora adotta il metodo dialettico della captatio benevolentiae: ammira l’altare del Dio ignoto e cita versi di poeti greci.  Ma “quando (gli Ateniesi) lo sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dissero (educatamente): “Ti sentiremo su questo un’altra volta”. Così Paolo uscì da quella riunione”, facendo la figura del patetico stravagante se non addirittura del mentecatto. Ma quel suo intervento davanti ai sapienti Ateniesi non fu del tutto inutile perché Dio, sempre per citare Pascal, scrive diritto anche su righe storte. Stavolta accadde il contrario di quanto era avvenuto sul monte della Galilea: mentre allora alcuni dubitarono, ora “alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi, membro dell’Areopago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro” (At 17, 34).

Qualcosa di simile doveva essere avvenuto anche a Corinto, città anch’essa intellettuale e cosmopolita. I Corinzi, anche quelli convertiti, forse avevano qualche difficoltà ad accettare l’idea della resurrezione del corpo, perché erano imbevuti di filosofia platonica che, a differenza della concezione ebraica, accettava l’immortalità dell’anima, ma non certo che potesse tornare in vita anche il corpo, mentre per il popolo di Israele l’uomo era un’unità inscindibile di corpo e anima, di spirito e di materia[1]. Allora per convincere quei fratelli dell’irrinunciabile Verità del Kérygma, Paolo scrive loro, con ogni probabilità nell’anno 56, quelle lapidarie parole  che sono alla base della professione di Fede cristiana e del Credo che recitiamo durante la S. Messa: “Vi ho trasmesso, dunque, quello che ho anch’io ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è resuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici … Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto[2]. Io infatti sono l’infimo degli apostoli … perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana … Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto” (1 Cor 15, 3 ss). Quindi, fa capire Paolo, è inutile professarsi cristiani (e si è ancora nei peccati) se non si crede che Cristo è risorto e insiste, qui e altrove, su “quel che ha ricevuto” per sottolineare con forza che non ha inventato lui la Resurrezione, perché il Kèrygma era già annunciato da molti anni, smentendo così lui stesso la teoria accettata da molti, tra i quali gli Ebrei, secondo cui sarebbe stato lo stesso Paolo a fondare il Cristianesimo e non Gesù.

Dopo duemila anni da quegli eventi la situazione della Fede non è poi cambiata molto. In questo nostro tempo così travagliato spiritualmente, io penso che non si debba perdere occasione per meditare sulle parole di S. Paolo che ho riportato in epigrafe e su tutto il Cap. 15 della Prima Lettera ai Corinzi, e non solo a Pasqua, ma anche ogni domenica, quando sull’altare si rinnova il Sacrificio della Croce. E’ cristiano non chi crede all’esistenza storica di Gesù e ne accetta il messaggio, ma chi crede fermamente in quell’evento che supera la nostra ragione e il nostro intelletto sentendosene coinvolto personalmente in ogni momento della sua vita ed essendo capace di darne testimonianza davanti al mondo, correndo anche il rischio di essere deriso, come avvenne a Paolo, o perseguitato, come avviene ancora oggi in tanti paesi del mondo, addirittura (se necessario) usque ad effusionem sanguinis.

Qualche settimana fa, in un salotto di vecchi amici, si parlava della Pasqua imminente e qualcuno rivolse a un cattolico adulto, nostro amico di gioventù, una domanda semplicissima e terribile allo stesso tempo: “Ma tu ci credi davvero alla risurrezione di Cristo?”. L’interpellato – evidentemente preso alla sprovvista, ma desideroso di fare la sua figura di persona colta e al passo con i tempi – rispose: “Sì, ma …”, iniziando una dotta dissertazione sul significato che la scienza e la filosofia moderne sono disposte a riconoscere all’evento pasquale. Io non rimasi lì ad ascoltarlo, perché avevo capito subito che non ne valeva la pena, dato che quel “ma” avversativo rivelava una risposta piena di influssi protestanti, come adesso è di moda. Infatti al mondo protestante non interessa la storicità della vicenda del Cristo e che Egli sia veramente risorto: il teologo Rudolf Bultmann, fondatore del metodo della “storia delle forme” e “smitizzatore” dei Vangeli, da buon riformato luterano riteneva decisivo per la fede non che Gesù sia storicamente resuscitato, ma che lo sia per noi solo esistenzialmente perché, come predicava Lutero, ciò che conta non è la ragione, ma solo la fede.

Invece io, cattolica bambina dalla fede più materialistica che spiritualistica, non avrei avuto bisogno di arrampicarmi sui vetri per rispondere a quella domanda. Se essa fosse stata rivolta a me avrei risposto con un altrettanto semplice e terribile monosillabo: SI’. Non occorre spiegare perché la domanda e, di conseguenza, la mia risposta fossero semplici, ma esse erano anche, a mio giudizio, terribili e questo esige la spiegazione che adesso tenterò di dare.

Il Nuovo Testamento non descrive il verificarsi della Resurrezione perché Dio, rispettando la nostra libertà di credere o di non credere, volle che essa si svolgesse senza testimoni, ma permise che molte altre persone – più di cinquecento, secondo S. Paolo, il quale precisa che la maggior parte di essi era ancora in vita (e quindi poteva essere interpellata) e poi lui stesso (1 Cor. 15, 6) – vedessero il Risorto, lo toccassero, lo sentissero parlare e addirittura mangiassero con Lui. Sia i Vangeli che gli Atti degli Apostoli insistono sulla materialità dell’esperienza che ebbero coloro il cui cuore si dimostrò maggiormente disponibile ad aprirsi al Mistero. Non tutti, a causa della limitatezza umana, ebbero l’immediata percezione di trovarsi di fronte a quello stesso Gesù che avevano visto morire crocifisso, ma Dio andò loro incontro con la Sua Grazia per illuminarli[3]. Agli Apostoli, ancora sconvolti per ciò che era accaduto sul Golgota e convinti di vedere un fantasma, il Risorto disse: “Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che ho io” (Lc 24, 39) e mangiò con loro del pesce arrosto. Maria di Màgdala dovette essere chiamata per nome da Gesù per cadere ai Suoi piedi e adorarlo (Gv 20, 16 ss); i discepoli di Emmaus dovettero vederlo spezzare il pane per avere la conferma di “sentirsi ardere il cuore nel petto … mentre spiegava le Scritture” (Lc 24, 32); il diffidente Tommaso dovette addirittura mettere il dito nella piaga ancora aperta del costato di Gesù Risorto (Gv 20, 27) per prorompere nella più bella professione di Fede di tutto il Nuovo Testamento. Come potevano i poveretti credere a un fatto così inaudito senza l’aiuto di Dio?

Saranno frutto del “criterio di discontinuità” adottato dagli Evangelisti e di cui parlavo poc’anzi, anche questi episodi di difficoltà a raggiungere la Fede Pasquale? Ovviamente io non so rispondere, però mi piace pensare che le parole che Gesù rivolge ai Suoi testimoni dopo averli toccati con la Sua Grazia (“Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti”, Lc 24, 25); “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”, Gv 20, 29) non siano certo espressione di riprovazione o di severo giudizio per la loro iniziale incredulità, ma un dolce rimprovero pieno di amore e di comprensione per loro.

Alcuni, soprattutto in ambiente protestante, sostengono che la prova della Resurrezione sia l’avvenuta scoperta della tomba vuota. Io, cattolica bambina, non sono del tutto d’accordo: quella non mi sembra una prova decisiva e lo dimostra il fatto che la salma avrebbe potuto benissimo essere trafugata dai discepoli – come temevano gli stessi membri del Sinedrio nell’episodio riferito dal solo Matteo (27, 62 ss) – i quali avrebbero potuto benissimo infrangere i sigilli eludendo la sorveglianza delle guardie. Però devo riconoscere che se il sepolcro vuoto non suscitò immediatamente la Fede in Maria di Màgdala, se non la suscitò immediatamente in Pietro (Gv 20, 1 ss), se non la suscitò nei discepoli di Emmaus (Lc  24, 24), la suscitò tuttavia in Giovanni, “l’altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro e vide e credette” (Gv 20, 1 ss). Allora? Esistono molte interpretazioni, sia esegetiche che teologiche in merito al significato da attribuire alla scoperta del sepolcro vuoto, ma io non mi addentrerò in esse perché non sono né un’esegeta né una teologa, ma solo una cattolica bambina, accanita lettrice della Bibbia. Le mie limitate capacità, se mi impongono di fermarmi qui senza tentare spiegazioni razionalistiche di questa vexata quaestio, non mi impediscono certo di meditare a lungo sulla Resurrezione e sulla nascita della Fede Pasquale.

La scoperta del sepolcro vuoto non è una prova della Resurrezione, ma solo un indizio o un segno, tanto è vero che questa notizia, presa da sola, suscitò solo perplessità, dubbi e congetture sfavorevoli, inducendo gli autori dei Vangeli apocrifi ad amplificarla fino al grottesco, come ha fatto il Vangelo di Pietro. Mi sembra invece evidente che lo choc provocato da un cadavere tornato in vita è stato tale che gli autori dei successivi libri del Nuovo Testamento non sentirono più la necessità di parlare del sepolcro vuoto, divenuto argomento trascurabile e del tutto privo di importanza ai fini del Kèrygma. Ciò che invece fa testo è il discorso di Pietro, la sera di Pentecoste: “Gesù di Nazareth … dopo che secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato sciogliendolo dalle angosce della morte … questo Gesù Dio lo ha risuscitato … e noi tutti ne siamo testimoni …” (At 2, 22 ss).

Per quanto mi riguarda è, come dicevo poc’anzi, la materialità della Rivelazione del Risorto, unitamente alla Grazia dello Spirito, che mi fanno rispondere SI’ senza se e senza ma alla domanda di cui parlavo prima. Credo così di aver chiarito perché ritengo che sia la domanda che la mia risposta siano terribili: perché chi risponde quel SI’ deciso e incondizionato si assume una responsabilità enorme sia davanti a Dio che davanti agli uomini, quella della coerenza con la Parola del Signore in ogni momento della sua vita, in famiglia, nello stato matrimoniale come nella vita consacrata, nel mondo del lavoro, nelle scelte politiche, di fronte alla morte. Chi si professa cristiano non può ammettere il divorzio, l’aborto, l’eutanasia “in certi casi, né può sostenere col suo voto partiti o candidati che li ammettano. Siamo capaci di questa coerenza? Io stessa, peccatrice come tutti e anche peggiore, riconosco di aver avuto molti cedimenti nella mia vita, ma questo è tutt’altro discorso che mi porterebbe molto lontano dalla mèta che mi sono prefissa ora, mentre scrivo.

Vorrei concludere questa mia umile riflessione con qualche considerazione personale. Devo dire, senza voler giudicare nessuno, che il quoziente di fede pasquale che vedo intorno a me è molto esiguo. I “Sì, ma …” aumentano ovunque. Conosco molti cattolici che ogni domenica si accostano fervorosamente alla S. Comunione e poi non esitano a dichiararsi dubbiosi, se non proprio scettici, su alcuni pilastri del Cattolicesimo, come lo stato sempre verginale della Madonna, e più genericamente del Cristianesimo come la reale e materiale Resurrezione di Cristo. Certo, costoro non corrono rischi di alcun genere nel nostro mondo moderno anzi, riveriti e osannati come grandi e autorevoli interpreti dell’ecumenismo del nostro tempo, sono spesso invitati dai parroci a tenere conferenze e guidare dibattiti nelle comunità parrocchiali, aumentando così i “Sì, ma…” dei fedeli. Allora io, cattolica molto bambina, vorrei invitare questi miei fratelli a rientrare ogni tanto in se stessi, deponendo il loro Ego e lasciando che nella loro anima agisca quello Spirito Santo che hanno ricevuto con i Sacramenti del Battesimo e della Confermazione, oppure ad avere il coraggio (meritevole anch’esso secondo me di stima umana) di rinnegare pubblicamente il Cristianesimo, altrimenti dimostrano chiaramente di voler seguire contemporaneamente due padroni, Dio e il mondo[4].

La Pasqua è l’evento cardine, ma è certamente anche la festa più scorretta politicamente, quella che veramente sfida la ragione umana e la sua superba presunzione, sempre più convinta di poter padroneggiare gli eventi con gli strumenti della razionalità e della scienza. Infatti la Pasqua negli ultimi decenni ha perso sempre più terreno nei festeggiamenti rispetto al Natale. Questa sì che è la festa più “corretta” nel mondo globalizzato! La nascita di un povero e perseguitato Bambino, costretto a fare il suo primo sonno tra la paglia nella mangiatoia di una stalla, scaldato solo dal respiro di un bue e di un asinello, intenerisce tutti i popoli della terra, tanto è vero che anche i paesi più lontani dal Cristianesimo, come quelli a maggioranza buddista, induista o scintoista, non hanno alcuna difficoltà a festeggiare il Natale, soprattutto quando si sono accorti dei lauti guadagni che esso consente. Ma la Pasqua è ben altra cosa! SURREXIT DOMINUS VERE, ALLELUJA!

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[1] In verità c’è un passo del profeta Ezechiele (37, 12 – 14), inserito dal Messale Romano nella liturgia della V Domenica di Quaresima, che sembra alludere alla Resurrezione in senso messianico: “Dice il Signore Dio: Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe … Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete … “. Invece il teologo cattolico Herbert Vorgrimler (Storia dell’inferno, Odoya 2010, pag. 76) nega che il profeta si riferisca alla Resurrezione in senso cristiano perché a questa certezza si arriverà solo con il Libro dei Maccabei. Non essendo un’esegeta, io non mi pronuncio in proposito.

[2] La Bibbia di Gerusalemme spiega questo strano paragone come allusione al carattere anormale, violento, “chirurgico” della vocazione di Paolo che sembra non fare alcuna differenza tra l’apparizione sulla via di Damasco e le apparizioni di Gesù dalla Resurrezione all’Ascensione.

[3] Il che, a mio giudizio, significa che la conquista della Fede non è mai esclusivo merito dell’uomo, ma necessita della Grazia dello Spirito che Dio non farà mai mancare a chi Glielo chiede con cuore sincero.

[4] Mi è capitato proprio questo, tempo fa nella mia Parrocchia. Invitai pubblicamente l’oratore, considerate le idee che aveva appena manifestato, a dichiarare in quella sede di non essere più cristiano. Fui accusata di integralismo. Forse nacque allora l’antipatia che il mio parroco nutre per me.

4 commenti su “Riflessioni sulla Resurrezione  –  di Carla D’Agostino Ungaretti”

  1. Condivido questi pensieri perché mi appartengono.Penso di essere anch’io una cattolica bambina.Orgogliosamente cattolica in quanto mi è toccato di vivere in questo tempo desolatamente arido!

  2. Bellissimo articolo, da conservare. Grazie. Due osservazioni a complemento. La prima. Giovanni “vide e credette” perché, a differenza di Pietro, entrò nel sepolcro e vide i “teli” (othonìa, il doppio lenzuolo) e il sudario posti in una posizione innaturale (vi è esegesi recente molto illuminante su questo passo che è stato mal tradotto): ossia probabilmente vide la Sindone ancora “chiusa” ma vuota, come è stato molto ben immaginato nella scena finale della “Passione” di Mel Gibson. Seconda osservazione: il discorso petrino citato dall’Autrice contiene anche la giusta reprimenda per il popolo ebraico, che rifiutò il Cristo e lo fece condannare a morte. Oggi questo si è completamente dimenticato e non si prega più per la loro conversione.

  3. Carla D'Agostino Ungaretti

    Mi permetto di aggiungere una postilla alla mia riflessione, ispirata dalla “Incredulità di Tommaso” del Caravaggio che Riscossa Cristiana ha ggiunto alla mia epigrafe. Gesù, risuscitato alla vita gloriosa nella carne e nel sangue, rivela la “materialità” di questo Mistero dal gesto con cui si scopre il torace e e con l’altra mano afferra la mano sinistra di Tommaso per fargli inserire il dito nella piaga ancora aperta del Suo costato. Quest’opera rivela, a mio giudizio, una profonda Fede nella Resurrezione di Cristo, nel senso “carnale” e “materiale” che io ho sottolineato. Sono sicura che il povero Michelangelo Merisi, dalla vita travagliata, infelice e spesso peccaminosa, abbia acquisito molti meriti agli occhi di Dio proprio per la professione di Fede che ha manifestato in questo dipinto e come il Buon Ladrone, anch’egli povero disgraziato dalla vita piena di delitti, ora sia salvo. Grazie per avermi letto.

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