ROLANDO RIVI: SEMINARISTA MARTIRE PER LA TALARE – di Don Marcello Stanzione

di Don Marcello Stanzione

 

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Molto presto Rolando Rivi, il giovane seminarista ucciso in modo barbaro dai partigiani nel 1945, diventerà beato. Nel maggio scorso, con un giudizio unanime e in tempi rapidi, i teologi censori della Congregazione delle cause dei santi del Vaticano hanno riconosciuto il martirio di questo adolescente di quattordici anni, testimone dell’incondizionato amore che provava per Gesù.

La storia di Ronaldo Rivi si inquadra in uno dei capitoli più odiosi della nostra storia, quello della guerra civile tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’immediato dopoguerra. Il giovane seminarista è da aggiungere ai centotrenta sacerdoti uccisi in odio alla fede cattolica dai partigiani comunisti, soltanto perché la talare che indossavano li faceva considerare loro nemici. Ma chi era Rolando Rivi? “Diventerà un mascalzone o un santo”, diceva la sua nonna, quando da  bambino lo vedeva dividersi tra l’eccessiva esuberanza e le preghiere recitate con una devozione che lasciava stupiti per la sua giovanissima età. Era nato il 7 gennaio 1931 a San Valentino di Castellarano, un paese in provincia di Reggio Emilia, primogenito di Roberto e Albertina Rivi, due contadini molto devoti che gli trasmisero l’amore per il Signore e per le preghiere. A undici anni, subito dopo la Cresima, sentì improvvisa la chiamata del Signore: “Voglio farmi prete per salvare tante anime. Poi partirò missionario per fare conoscere Gesù lontano”, disse ai genitori che assecondarono la sua vocazione, e all’inizio del 1942, lo mandarono nel Seminario di Marola, a Carpineti, in provincia di Reggio Emilia, per frequentare le scuole medie e per iniziare gli studi che un giorno lo avrebbero fatto diventare prete. In seminario indossò con orgoglio l’abito talare.

Per secoli la lunga veste nera che arrivava ai talloni ( perciò si chiama talare) è stata la più chiara indicazione di coloro che fin da ragazzi avevano intenzione di consacrarsi al Signore e al servizio della Chiesa. Per Rolando la talare era il segno di appartenere a Cristo e alla Chiesa e non se ne separò sino alla morte, portandola anche quando l’Italia era divisa da un odio fratricida diffuso dai comunisti che consideravano i sacerdoti nemici da uccidere.  Ma il suo sogno di diventare prete si spezzò nel 1944 quando i tedeschi occuparono il seminario di Marola e tutti i ragazzi dovettero tornare nelle loro case e continuare gli studi da soli. Così fece anche Rolando Rivi che rientrò a San Valentino e continuò a indossare la talare. “Rolando, non portarla ora. E’ più sicuro se vai in giro per il paese con gli abiti civili”, gli consigliavano i genitori preoccupati per le continue scorribande nelle loro campagne di tedeschi, fascisti e partigiani. Ma il ragazzo non li ascoltava mai: “Studio da prete e la tonaca è il segno che io sono di Gesù”, rispondeva con determinazione, dividendosi sempre tra la chiesa, la casa e un boschetto dove andava a studiare.

Fece così anche il 10 aprile 1945, ma quel giorno Rolando Rivi non tornò: quando, non vedendolo arrivare, i genitori andarono a cercarlo, trovarono a terra i libri e un biglietto: “Non cercatelo, viene un momento con noi partigiani”. Si misero a cercarlo dovunque. Quattro giorni dopo un partigiano che aveva assistito alle ultime ore di vita del ragazzo, tentando di opporsi alla sua fine, confessò che cosa era accaduto: Rolando Rivi era stato sequestrato, torturato e ucciso a Piana di Monchio, sull’Appennino modenese. Era successo il 13 aprile 1945, quando Rolando Rivi aveva appena quattordici anni e tre mesi. Fu ritrovato, su indicazione del partigiano comunista pentito, il giorno dopo da suo padre e da quel momento divenne il simbolo dell’amore per Dio.

Sono trascorsi quasi settant’anni da allora ma sulla sua tomba all’interno dell’antica Pieve di San Valentino, a Castellarano, ancora oggi , ogni giorno, decine di persone vanno a pregarlo e domandargli una grazia. I miracoli per sua intercessione sono già avvenuti, ma quello che lo porterà alla beatificazione è il suo martirio, perché per la Chiesa il miracolo  più grande è dare se stessi al Signore. Comunque in un’epoca storica in cui tantissimi sacerdoti vanno vestiti in borghese e quei pochi che portano ancora la talare sono pure malvisti all’interno della Chiesa… è molto interessante quello che il 17 febbraio 2013 ha scritto sul Corriere della Sera il grande giornalista cattolico Vittorio Messori riguardo all’abito del prete dove ribadisce con chiarezza che chi rifiuta l’abito religioso nega il sacerdozio sacrale: “A proposito di clero, di disciplina, di quella che fu un tempo la virtù dell’obbedienza: prendiamo un aspetto che sembra  minore – quello dell’abito ecclesiastico – ma che ha in realtà un significato esemplare. Il nuoco Codice di diritto canonico, riscritto secondo le indicazioni del Vaticano II, recita, al canone 284: “I chierici secolari portino un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale del luogo”. E, per i membri di ordini e congregazioni, prescrive al 669: “I religiosi portino l’abito dell’istituto, fatto a norma del diritto proprio , quale segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà”. Il Concilio stesso aveva ammonito di non abbandonare questo “segno” di consacrazione sul quale, tra l’altro, Giovanni XXIII era rigorosissimo, imponendo al suo clero, nel Sinodo Romano che precedette il Vaticano II, la sola talare nera dai molti bottoni e vietando il clergyman. Ebbene: prima Paolo VI, poi Giovanni Paolo II, infine Benedetto XVI hanno moltiplicato le esortazioni , gli inviti, gli ordini, i rimbrotti, ma il risultato è sempre l’armata Brancaleone dei sacerdoti (vescovi, non di rado, compresi) abbigliati ciascuno secondo l’estro proprio. Dal completo da manager, al giubbotto da metalmeccanico, sino agli stracci ben studiati da clochard – filosofo: comunque, sempre indistinguibili dai laici. La raccomandazione di un Concilio Ecumenico e le ripetute disposizioni disciplinari di quattro Papi non sono riuscite ad ottenere alcun ascolto, spesso neppure dalla gerarchia episcopale. La questione sembra secondaria, ma non lo è: dietro il rifiuto dell’abito religioso vi è una teologia,. Vi è la negazione protestante di un sacerdozio “sacrale” che distingua il prete dal credente comune; vi è il rigetto della prospettiva cattolica che, col sacramento dell’ordine, rende un battezzato “diverso”, “a parte”. Il sacerdote non come testimone del Sacro, non come “atleta di Dio” (l’immagine è di san Paolo) in lotta per la salvezza dell’anima propria e dei fratelli contro le Potenze del male, bensì uomo come gli altri, distinto semmai dal maggiore impegno sociopolitico”.

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