Settant’anni fa l’ultima battaglia del Regio Esercito: Gela 9 – 12 luglio 1943 – di Miles

di Miles

Prima parte

Un popolo di vili e traditori.  L’immagine consolidata sul comportamento del Regio Esercito di fronte all’invasione angloamericana della Sicilia (dal 10 luglio al 17 agosto del 1943), è quella di un rapido ed inglorioso squagliamento collettivo.  A combattere sarebbero rimasti solo i tedeschi.  Quest’immagine è riprodotta acriticamente anche da Elena Aga Rossi, autrice del finora più accreditato studio sull’8 settembre, frutto di minuziose ricerche d’archivio nella migliore tradizione della scuola di Renzo De Felice[1].  Lo stereotipo, riferito in particolare ai soldati siciliani, si ritrova anche in un raccontino  di Leonardo Sciascia, pubblicato in una sílloge di suoi inediti da Adelphi nel maggio del 2010 (Corriere della Sera, 30.4.2010, p. 27).  Sciascia descrive l’arrivo degli americani nel suo paese natale in termini quasi hollywoodiani, mettendo in ridicolo i fascisti locali nella figura di uno di loro inneggiante entusiasticamente ai vincitori.  Della grande tragedia dell’Italia intera, Stato e Nazione, che crollava in Sicilia non sembra capir nulla, tutto preso dal meschino e rancoroso piacere di gustarsi la fine del fascismo, provocata non dagli antifascisti (totalmente irrilevanti nel Paese) ma dal crollo militare.  Gli intellettuali antifascisti alla Sciascia non hanno ancora capito che l’unico modo decoroso di uscire dalla sciagurata guerra consisteva nel perderla bene; vale a dire: sacrificandoci tutti il più possibile per salvare l’onore militare della Nazione, ormai irreparabilmente sconfitta.  Narrando poi dell’aereo americano “a due code” che ad intervalli passava sul paese mitragliando e impedendo i p38lavori agricoli, egli lo chiama “B 29”.  Doveva trattarsi invece del P 38 “Lightning”, micidiale caccia e caccia-bombardiere bimotore americano, incubo dei nostri soldati e civili, per i suoi continui attacchi a bassa quota.  Il B 29 era un quadrimotore da bombardamento strategico, quello che poi tirò le bombe atomiche sul Giappone. In Italia operò in prevalenza il quadrimotore B 24 “Liberator”.  Il sopravvalutato Sciascia apparteneva alla tradizione di incoltura radicata in molti intellettuali italiani, per ciò che riguarda le cose e la storia militari.

      Sono cinque secoli che l’etichetta di “vili e traditori” ci perseguita, dal tempo di quelle Guerre d’Italia che, nella prima metà del Cinquecento, videro il crollo del sistema indipendente dei piccoli Stati italiani, schiacciati militarmente dalle potenti monarchie nazionali europee del tempo, in lotta accanita per la conquista dell’intero nostro Paese.   Secondo Jean-Jacques Rousseau, la nostra debolezza militare era il risultato delle mollezze rinascimentali:  “l’ascesa dei Medici ed il ristabilimento delle Lettere hanno provocato nuovamente e forse per sempre la caduta di quella reputazione guerriera che l’Italia sembrava aver recuperato da qualche secolo”[2].  Da qualche secolo: dall’Alto Medioevo alla prima metà del Quattrocento. Pensiamo alle valorose fanterie comunali italiane; alle tante vittorie delle flotte delle Repubbliche Marinare, senza dimenticare quelle allestite dai Papi; agli eserciti dei condottieri, per nulla inferiori ai loro omologhi stranieri.

lbrsngllCostumi troppo molli di tutto un popolo o colpa delle classi dirigenti dei vari Stati italiani, colte e civili ma politicamente miopi ed egoiste, incapaci di unirsi di fronte all’invasione straniera, in modo da poterne almeno limitare i danni?  Ma è vero che in Sicilia, nel 1943, lo stereotipo negativo ha avuto un’ulteriore, clamorosa conferma, nonostante l’esistenza (anche se recente) dello Stato nazionale?  Un bel libro del Senatore Andrea Augello dimostra di no.  Nonostante gli sbandamenti e i collassi, parte consistente dei nostri soldati e comandanti fece il proprio dovere sino all’ultimo, anche dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943), contro un nemico enormemente superiore in unità ben addestrate e mezzi[3].  Le vergognose rese improvvise, senza combattere, di Pantelleria ed Augusta, piazzeforti della Regia Marina, furono dovute al collasso nervoso dei due ammiragli comandanti, non partirono dal basso.  Non è giusto generalizzarle per un giudizio collettivo di condanna[4].  È vero che Pantelleria subì apocalittici bombardamenti aerei (che però scalfirono poco le difese, quasi tutte in bunker) mentre ad Augusta si profilava una battaglia di grossi calibri con le corazzate britanniche, battaglia che avrebbe probabilmente spianato la città, oltre che la base.  Tuttavia i mezzi (e l’acqua potabile) per resistere efficacemente per diversi giorni c’erano ancora, in tutte e due le piazzeforti.  Nessuno pensava ad arrendersi, la decisione dei comandanti fu un fulmine a ciel sereno.  Sul singolare comportamento di questi due ammiragli pesano a tutt’oggi non risolti interrogativi.  Nell’alta ufficialità della Regia Marina c’erano sempre state forti componenti antifasciste e diversi suoi membri erano sposati a donne straniere, in particolare inglesi[5].

 

A Gela ebbe luogo una grande battaglia tra l’Asse e gli americani.   Il libro del sen. Augello contiene un accurato studio della “battaglia di Gela”, che impegnò per tre giorni, dalla notte del 9 luglio alla mattina del 12 luglio del 1943, italiani e tedeschi contro l’invasore americano.  Il fatto d’armi di Gela è ricostruito analiticamente, grazie anche alla disponibilità di nuovi documenti (reperibili su internet) resi pubblici dagli archivi americani, sino a rappresentare singoli episodi con nomi e cognomi, secondo i canoni di una microstoriografia diffusa soprattutto nei paesi anglosassoni per ciò che riguarda la storia militare.  L’opera si avvale, pertanto, in modo proficuo anche delle fonti locali, memorialistiche e di testimonianza orale, seguendo un metodo oggi incoraggiato anche dalla storiografia maggiore.

Di questa battaglia si è sempre parlato, per ciò che riguarda il contributo italiano, in termini a dir poco sprezzanti.  La vulgata dei vincitori menziona, infatti, solamente pericolosi contrattacchi eseguiti da potenti forze tedesche (che poi non erano affatto così potenti), mentre irride alle divisioni costiere italiane che “vagavano per la campagna” invece di combattere.  Unica parziale eccezione, a mia conoscenza, lo storico militare britannico Eric Morris che, pur tra inesattezze e cadute di tono, riconosce che  a Gela furono soprattutto gli italiani a creare problemi agli americani il primo giorno dello sbarco[6].  Il 10 luglio di quest’anno (2013), l’allora ambasciatore statunitense in Italia, Mr. David Thorne, si recò in pompa magna proprio a Gela, per celebrare il 70° anniversario dell’invasione della Sicilia:  per ricordare che Gela è stata la prima città europea ad esser “liberata dalla dittatura nazifascista”.  Siamo sempre al “passato che non passa”, per dirla con l’eminente storico tedesco Ernst Nolte.

 Gela fu l’ultima battaglia del Regio Esercito.     Eppure proprio a Gela, il Regio Esercito, unitamente ai tedeschi, combattè per tre giorni la sua ultima e bisogna pur dire valorosa battaglia, facendo la sua brava parte nel mettere in seria difficoltà gli americani, che rischiarono una sconfitta clamorosa.  Di questo è naturalmente vietato parlare nel clima politico malsano dell’Italia odierna, afflitta da un antifascismo ufficiale perennemente fazioso ed antipatriottico.  Dico “l’ultima battaglia” di quell’esercito, di origine sabauda e risorgimentale, che si era in sostanza identificato con l’Italia dell’Unità e le sue vittorie, dalla Grande Guerra alla Conquista dell’Etiopia alla Guerra di Spagna ; ultima, perché poi sopravvenne il crollo dell’8 settembre, dovuto soprattutto all’incapacità e alla viltà di alcuni fra i capi, e gli eserciti italiani diventarono  d u e  ed anzi  t r e .  I “Gruppi di combattimento” del Regio Esercito che, tra difficoltà di ogni genere e sempre male armati, combatterono valorosamente alle dipendenze degli Alleati nella Campagna d’Italia, furono ad un certo punto costretti dalla necessità a riequipaggiarsi con divise ed armamento leggero britannici.  Erano  l’esercito italiano che tentava faticosamente di rinascere ed il Fato crudele li costringeva in una divisa straniera.  Ugualmente tentava faticosamente di rinascere a Nord, nelle formazioni ed uniformi della R.S.I., le cui unità mai sentirono in quelle del Regno del Sud il vero nemico, pur trovandosi per tragico accidente storico dall’altra parte della barricata.  Il vero nemico, oltre al partigiano sabotatore e terrorista, quello che colpiva a tradimento e ammazzava i prigionieri, era lo straniero occupante.  E gli Alleati erano a pieno titolo stranieri invasori, come i tedeschi.  I due piccoli eserciti non si trovarono mai di fronte[7].  E non è un paradosso affermare che da una parte e dall’altra, al di là delle contrapposte ideologie politiche ufficiali, si battevano come potevano per mantenere nelle difficilissime circostanze l’unità e l’integrità della Patria.  Ad essi si deve aggiungere il  t e r z o  piccolo esercito, quello rappresentato da formazioni partigiane non comuniste, i cosiddetti autonomi.  Penso ad esempio alla famosa brigata Osoppo, che operò in Friuli, alla ligure Cichero e ad altre; voglio dire a quelle i cui comandanti, come l’eroico Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, ucciso alle Fosse Ardeatine, non si consideravano “partigiani” bensì “patrioti” (“non chiamateci partigiani, chiamateci patrioti”).  Essi cercavano di attaccare in prevalenza i tedeschi e in modo da non coinvolgere la popolazione in rappresaglie, per quanto possibile.  E comunque combattevano contro i fascisti repubblicani cercando in generale di applicare un criterio militare, non terroristico.  Le forze partigiane comuniste, invece, combattevano contro l’Italia (come dimostra la loro sudditanza nei confronti dei partigiani comunisti jugoslavi, con le loro megalomani ed ingiuste pretese espansionistiche nei nostri confronti).  Ai comunisti, fatte salve eccezioni individuali, era del tutto indifferente l’unità e l’integrità della Patria, che anzi assurdamente negavano come realtà, ideale e valore, così come imponeva la loro utopistica e sanguinaria ideologia.  Miravano ad instaurare uno Stato comunista sul modello della Russia sovietica. A tal fine deviarono la Resistenza dal suo naturale obiettivo, lo straniero invasore, indirizzandola il più possibile verso la guerra civile, contro i fascisti ma anche contro gli altri partigiani ed il cosiddetto “nemico di classe”.  E applicarono su larga scala i metodi spietati del più cinico terrorismo, incuranti delle rappresaglie  che ciò inevitabilmente provocava, anche nei confronti della popolazione (attuate quest’ultime  dai nazisti).

I comunisti furono poi, come è noto, gli artefici principali dei massacri e delle uccisioni dei fascisti sconfitti (dagli eserciti alleati), iniziatisi nelle “radiose giornate” dell’Aprile 1945 e proseguiti per mesi.

 Ristabilire la verità, anche in nome di un sano patriottismo.  Dolorose vicende come l’invasione alleata della Sicilia vengono periodicamente riproposte nell’ottica deformante del Politicamente Corretto.  Nasce allora il desiderio di ristabilire pubblicamente la verità e difendere la dignità e la memoria di chi ha combattuto e dato la vita per la Patria, facendo il proprio dovere sino all’ultimo ed in condizioni di disperata, persino umiliante inferiorità di mezzi.  Non è giusto che quei combattenti e quei caduti del tragico luglio 1943 siano vilipesi o dimenticati. Il loro sacrificio  ci ricorda che i regimi politici passano mentre la Patria resta.   R e s t a   perché ci sono stati quelli che, per difenderla (poiché essa è la nostra terra, la nostra casa, la nostra famiglia, il popolo del quale facciamo parte per nascita) si sono battuti e sono morti, dimostrando di possedere il vero senso del dovere e dell’onore.  Il libro del senatore Augello non è né “nazionalista” né “nostalgico” né tantomeno “antifascista”.   Presenta una sobria postfazione della senatrice Anna Finocchiaro, la quale ne pregia la “microstoriografia”, tra l’altro, per “aver restituito alla città di Gela l’identità di tanti valorosi cittadini che non trovarono in quegli avvenimenti neppure l’onore di una sepoltura ufficiale” (p. 171).  Centinaia di corpi di caduti (anche americani) non sono mai stati riesumati, la piana di Gela è “un gigantesco sacrario, ignorato da tutti” (p. 153).   Il libro vuole innanzitutto  ristabilire i fatti, giustamente convinto che sono i fatti a dimostrare la falsità dello stereotipo umiliante secondo il quale “gli italiani non combattono”.  Quando poi combattono non lo si deve ricordare, evidentemente.

Dalla foto della piazza del Duomo di Gela dopo la battaglia, che la rivista americana Life  all’epoca pubblicò, si vedevano solo i caduti italiani perché quelli americani erano stati rimossi (op. cit., inserto fotografico).  A Gela si combatté strada per strada.  La propaganda alleata celebrò lo sbarco come “una passeggiata militare, ostacolata solo da qualche coriaceo carro Tigre tedesco, mentre masse d’italiani festanti correvano loro incontro” (p. 11).  Folle festanti ci furono inizialmente a Palermo e in altre località, con l’attiva partecipazione (si disse) della Mafia, notoriamente utilizzata dagli americani per indebolire il fronte interno e per compiti di spionaggio e sabotaggio[8].  Quelle folle ci danno ancor oggi una ben triste immagine del nostro recente passato.  Tuttavia, bisogna considerare che esse rappresentavano il sentire momentaneo e non unanime di una popolazione che, in generale, si mantenne sulle sue, eccezion fatta per i circoli antifascisti, i profittatori, gli affaristi, i mafiosi gravitanti attorno al Governo militare alleato di occupazione.  Il fatto è che le condizioni di vita dei siciliani erano diventate insostenibili dopo mesi di crudeli bombardamenti. La Sicilia e la punta della Calabria furono letteralmente arate dall’aviazione alleata, che provocò il collasso della vita civile e la carestia già prima dell’invasione.  In Sicilia i caccia alleati inaugurarono quel tiro al bersaglio contro esseri umani, animali e cose che sarebbe durato per tutta la Campagna d’Italia.  Ripetuti furono i mitragliamenti a bassa quota sulle colonne di civili inermi in fuga dalle zone di combattimento.  Furono anche impiegate “piastrelle incendiarie al fosforo” contro boschi e coltivazioni[9].  In questo quadro, l’occupazione da parte di un nemico dotato di larghi mezzi e risorse e in cui c’erano anche numerosi soldati siculo-americani, diventava il male minore: significava la fine dei bombardamenti, delle vittime, della fame, del caos e della sporcizia, l’inizio di un ritorno ad una vita normale.

Ma è tempo, afferma il sen. Augello, di “restituire l’onore al Regio Esercito, che in Sicilia combatté con coraggio contro forze superiori, subendo tuttavia l’immeritata onta di essere bollato dal marchio della viltà e della diserzione di massa”(p. 7).   Diserzioni limitate ci furono sin dall’inizio dell’invasione ed ebbero un’impennata dopo la caduta di Mussolini, con l’esito finale della Campagna ormai scontato, in particolare ad opera di elementi siciliani, ai quali gli americani (ormai a Palermo) avevano cominciato a promettere la libertà se si fossero arresi.  È comunque errato considerare disertori tutti i numerosi dispersi:  un numero imprecisato (ma sicuramente consistente) fu vittima dei bombardamenti aerei e navali.  Va ricordato che un proiettile dell’artiglieria navale, attorno all’epicentro della sua esplosione, volatilizzava letteralmente i disgraziati soldati coinvolti:  non ne restava nulla, come se si fossero dissolti nell’aria[10].  Altri soldati, tagliati fuori dall’avanzata del nemico nei primi giorni, furono nascosti dalla popolazione. Noi italiani siamo sempre pronti a flagellarci a sangue per i nostri difetti.  Ma va ricordato, sostiene il sen. Augello, che i cedimenti della nostra truppa non furono peggiori di quelli registrati in circostanze simili presso altri eserciti.  Nell’esercito francese del 1940, la fanteria,  praticamente senza difesa di fronte agli attacchi combinati dei carri e dei caccia-bombardieri tedeschi, si diede più volte alla fuga.  La cosa si ripeté, in forma ancora più ampia, all’inizio della Campagna di Russia dalla parte sovietica, quando, in circostanze simili, si liquefecero intere divisioni mentre altre combattevano sino all’annientamento. Interi e bene armati reparti americani al battesimo del fuoco in Tunisia si dissolsero come neve al sole di fronte ai carri guidati da Rommel e fu la loro aviazione a salvarli, inchiodando al suolo le truppe dell’Asse. Collassi e scarso spirito combattivo ci furono anche tra gli stessi tedeschi (in Normandia, p.e., nella ritirata dalla sacca di Falaise. Anche qui le fanterie – come in Sicilia – erano venute a trovarsi in balìa dell’artiglieria e dell’arma aerea alleata e tagliate fuori ad opera  delle forze corazzate nemiche)[11].

Ma nella fase finale della Campagna di Tunisia gli italiani, che erano diventati una solida armata sotto il comando del maresciallo Messe, si batterono meglio dei tedeschi e si arresero due giorni dopo di loro, il 13 maggio 1943, cosa che non viene mai ricordata.  Fu una vera sfortuna non esser riusciti a riportarne in Sicilia almeno una parte.  Le diserzioni e le “assenze non autorizzate” furono relativamente numerose anche tra gli Alleati, durante la Campagna d’Italia: una campagna odiatissima dai soldati, costretti a passare due lunghi e freddissimi inverni sull’inospitale dorsale appenninica, affrontando per di più sanguinosi combattimenti.  Essi disprezzavano apertamente gli italiani immiseriti ed affamati, che liquidavano come un popolaccio di gente sporca e infida, di ladri e “segnorine”; che gli aveva stolidamente dichiarato guerra obbligandoli a combatterla e quindi a star lì, nel fango, nella neve e spesso afflitti dalle malattie o nelle pidocchiose e devastate retrovie.  Ma in Italia ci sono ancora quelli che credono al ridicolo mito  dei “ragazzoni americani” cui dobbiamo gratitudine per esser venuti qui a rischiare la pelle al fine di liberarci dai nazifascisti ed insegnarci la democrazia[12].

La brutalità degli americani nei primi giorni dell’invasione.  Manca, lamenta l’autore, una vera ricostruzione della battaglia e “non esiste nemmeno una stima credibile dei caduti”(p. 7).  Inoltre, mancava fino ad ora la percezione pubblica della “straordinaria brutalità” dimostrata dalle truppe americane nei giorni dello sbarco ed immediatamente successivi (p. 7).  Furono perpetrate sevizie ed uccisioni (anche a decine per volta) di prigionieri italiani e tedeschi arresisi dopo regolare combattimento.  Si stimano 73 casi accertati e sette denunciati da testimoni (p. 141). Protagonisti paracadutisti ed elementi delle truppe d’assalto (rangers) delle divisioni di fanteria, in particolare  della famigerata 45ª divisione. Naturalmente, su queste atrocità le nostre autorità e i nostri “intellettuali organici” hanno sempre tenuto la bocca chiusa, anche dopo la fine della “guerra fredda”: sono stati articoli di giornali italiani a farle emergere, sulla scorta di dichiarazioni di uno storico italo-americano, nel 2004.  Il sen. Augello sembra stupirsi della ferina aggressività dei soldati americani della prima ondata, imbottiti di benzedrina e di odio per il nemico. Ma sembra che il generale Patton in persona, loro comandante in capo, li avesse incitati a non fare prigionieri nel raggio di circa “duecento metri” dal punto nel quale si trovava  ogni soldato americano in azione di combattimento.  Ovvio che ogni militare USA si sentisse autorizzato a sparare su qualsiasi cosa si muovesse in quel raggio[13].  Così furono uccisi anche centinaia di civili, di ambo i sessi e di ogni età.  Gli invasori, non ancora “liberatori”, ci svelavano il volto peggiore della guerra. Sarebbero diventati “liberatori” dopo la dichiarazione di guerra di Badoglio alla Germania, il 13 ottobre 1943.  Inoltre, aggiungo, gli italiani (considerati una razza inferiore) dovevano pur pagare il dovuto prezzo per le loro inconsulte ambizioni “imperiali” ed esser rimessi al posto che loro compete, secondo le Potenze, ossia ben in basso nella scala gerarchica delle nazioni; dovevano pur scontare la sconsiderata pretesa di aver voluto mettersi al livello delle grandi Potenze, dal 1918 in poi, creando loro anche troppi fastidi. Bisognava impartire una lezione esemplare, da non dimenticare (e difatti le classi dirigenti dell’Italia postfascista non l’hanno dimenticata, salvo rare eccezioni, mettendola in pratica sino ad oggi, come fa fede la vicenda dolorosa dei nostri due innocenti marò del S. Marco, catturati a tradimento dagli indiani e tenuti praticamente in ostaggio in dispregio di ogni norma, senza che il nostro governo abbia  mai trovato il coraggio di assumere l’atteggiamento duro e intransigente che l’incresciosa vicenda imponeva).  Nel 1943, i britannici ci detestavano ancor più degli americani:  come ha notato uno storico straniero, bloccandoli assieme ai tedeschi per tre anni in Nordafrica, dove avevamo fatto bravamente la nostra parte sino all’ultimo nonostante l’inferiore armamento, gli avevamo fatto perdere l’Estremo Oriente, perla dell’Impero.  Nel suo messaggio alle truppe prima dell’attacco alla Sicilia, il gen. Montgomery aveva proclamato ai soldati :  “L’Impero italiano è stato distrutto, adesso procederemo con la madre patria”[14].

(fine della prima parte – segue)
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[1]             E. AGA ROSSI, Una nazione allo sbando.  L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Il Mulino, Bologna, 2003, nuova ediz. ampl., pp. 64-70.

[2]             J.-J. ROUSSEAU, Discours sur les sciences et les arts, 1750, in ID., Oeuvres complètes, ed. de la Pléiade, Parigi, vol. III, pp. 6-57; p. 23.

[3]             A. AUGELLO, Uccidi gli italiani. Gela 1943. La battaglia dimenticata, Postfazione di A. Finocchiaro, Mursia, Milano, 2009. Unica pecca del libro, la mancanza di cartine esplicative.  L’esclamazione: “Uccidi gli italiani!” era il grido di battaglia dei paracadutisti britannici durante l’invasione (p. 56).  Ricordo, tuttavia, che, combattendo contro i tedeschi, essi gridavano: “Uccidi i tedeschi!”.  I legionari romani quando attaccavano gridavano ugualmente:  “Feri! Feri!”:  colpisci, ferisci, uccidi, ammazza (da fério, feríre).

[4]             AUGELLO, op. cit., pp. 21-22; 23.   La battaglia di Gela era già nota dalle classiche opere del col. Faldella e del prof. Santoni sulla Campagna di Sicilia, e, per un pubblico più vasto, dal ben documentato libro di S. ATTANASIO, Sicilia senza Italia. Luglio-Agosto 1943, Mursia, Milano 1976.  Negli ultimi anni due altri lavori (dei quali mi sono ampiamente servito) hanno contribuito a chiarire ulteriormente le cose:  P. L. VILLARI, “Husky”  10 Luglio 1943.  I militari italiani e la difesa della Sicilia, IBN  Editore, 2006, Roma e  F. CARLONI, Gela 1943.  Le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia, Mursia, Milano 2012.

[5]             VILLARI, op. cit., p. 33, con le fonti ivi citate.

[6]             E. MORRIS, La guerra inutile.  La Campagna d’Italia 1943-1945 (1993), tr. it. di R. Rambelli, Longanesi, Milano, 1993, pp. 87-95.  Tra le dicerie infondate riprese c’è quella di presunte torture ed uccisioni di prigionieri alleati da parte degli italiani (op. cit., p. 76).  Sul punto:  AUGELLO, op. cit., p. 108.

[7]             “Racconta Giorgio Almirante nella sua Autobiografia di un fucilatore (Edizione del Borghese, Milano 1974, p. 105) che un ufficiale  della R.S.I. comunicò a Mussolini che, sul fronte di Cassino, i bersaglieri si erano coperti di gloria.  Mussolini, ex bersagliere, esultò per la notizia ma l’ufficiale gli fece notare che si trattava di bersaglieri dell’esercito del sud.  “Lo so benissimo – rispose Mussolini – ma si tratta di bersaglieri italiani e io ne sono felice!” (A. LEONI, Il paradiso devastato.  Storia militare della Campagna d’Italia (1943-1945), Edizioni Ares, Milano, 2013, p. 179).

[8]             Per la provata collusione tra comandi militari statunitensi e l’organizzazione mafiosa superstite in Sicilia dopo la repressione “fascista” della stessa, vedi:  ATTANASIO, op. cit., pp. 187-205;  VILLARI, op. cit., pp. 13-30.  Quest’ultimo autore si occupa anche dei contatti ante-sbarco di esponenti del separatismo siciliano e dell’aristocrazia filoinglese ed antifascista, alla quale apparteneva il fondatore del Partito Popolare, Don Luigi Sturzo, barone di Altobrando, in esilio in America da anni.  I mafiosi svolsero, a quanto sembra, opera di disgregazione morale presso le truppe, con ragionamenti del tipo:  “la guerra è perduta ed ogni sacrificio è inutile”; “fuiri è virgogna ma è salvamentu di vita”.  Nelle zone della Sicilia occidentale di mafia radicata, “gli americani vennero accolti un po’ dappertutto dagli applausi di piccole folle sapientemente orchestrate dagli uomini della Onorata Società”.  Il gangster Vito Genovese divenne l’uomo di fiducia del Governatore americano della Sicilia, il sinistro Charles Poletti: “Genovese rilasciava salvacondotti, permessi, patenti, ordini di sequestro, attestati di benemerenza.  Si fece perfino epuratore!” (ATTANASIO, op. cit., pp. 194-195).  Secondo alcuni storici, l’effettiva portata dell’attività spionistica e disfattista dei mafiosi è stata abbastanza modesta.  Grave invece la loro infiltrazione nell’amministrazione locale, della quale gli occupanti sciolsero tutti i consigli comunali, per rinnovarli con persone di loro fiducia (ivi, p. 186).  I mafiosi rientrati dai penitenziari e dalle galere ottennero la patente di “antifascisti” e riuscirono ad esser nominati sindaci, commissari, amministratori (ivi, p. 195).

[9]             AUGELLO, op. cit., p. 37 ss.  Vedi anche:  ATTANASIO, op. cit., p. 29.  Il “collasso della vita civile”  ci fu anche a Napoli, colpita con più di 100 bombardamenti prima della sua “liberazione”.  In Sicilia  fu stabilito un duro regime d’occupazione, che si attenuò dopo la capitolazione italiana e a causa delle esigenze elettorali di Roosevelt, anche se prevaricazioni, ruberie e spoliazioni continuarono, soprattuto nella parte orientale, occupata dai britannici.  C’è giustamente una storiografia sul “sacco d’Italia” perpetrato dai tedeschi; ne manca ancora una (per comprensibili motivi) su quello perpetrato al Sud e al Centro dagli Alleati, in particolare da francesi e britannici.  In Calabria, questi ultimi si portarono via boschi interi (Testimonianza del generale U. DE LORENZIS, Dal primo all’ultimo.  Ricordi di guerra 1939-1945, Longanesi, Milano, 1971, p. 308).  Per le grandi e sistematiche ruberie organizzate in modo persino sfacciato dal Comando francese, vedi:  MORRIS, op. cit., pp. 396-398.

[10]           VILLARI, op. cit., p. 109, con la testimonianza oculare riportata: dei serventi di un pezzo italiano colpito in pieno da un proiettile da 152 mm., “non si trovarono più nemmeno i lacci delle scarpe!”.

[11]           Op. cit., cap. VI, p. 122.  Va ricordato che:  “su 250mila militari presenti nell’isola, fra armi e servizi, vi furono più di 116mila prigionieri, ma è anche vero che più di 40mila soldati italiani risultarono morti o dispersi:  un dato che deve far riflettere sia sulla presunta incapacità di battersi degli italiani, sia su quanto fosse micidiale la potenza di fuoco anglo-americana”(A. LEONI, Il Paradiso devastato. Storia militare della campagna d’Italia. 1943-1945, cit., p. 73).  L’impressione è che un numero consistente di “dispersi” e/o “disertori” sia caduto sotto i bombardamenti nemici.  Ai “servizi” c’erano più di 60.000 uomini, 5000 presso i tedeschi.  Il numero di quelli  in grado di battersi in modo efficace era comunque ridotto, forse non superava i 30mila.  Avevamo perso quantità enormi di materiale e quasi tutte le migliori unità, in Russia e in Nordafrica.

[12]           Per le diserzioni fra i britannici:  E. MORRIS, op. cit., pp. 522-523.

[13]           AUGELLO, op. cit., p. 56; 135-137.  Sul “grilletto facile” americano anche nei confronti di prigionieri e civili, vedi:  CARLONI,  op. cit., pp.  59-68; 84-87.

[14]           Citato in J. SWAAB, Field of fire. Diary of a Gunner Officer, Sutton, Phoenix Hill, 2005, p. 73:  “The Italian empire has been exterminated and now we shall deal with the home country”.  Si tratta del diario di un ufficiale della famosa 51ª Highland, divisione di fanteria britannica, della cui artiglieria l’autore si trovò ad esser ufficiale.  Tra i britannici, furono soprattutto i canadesi a distinguersi nelle uccisioni di prigionieri e nella brutalità contro i civili (S. ATTANASIO, op. cit., p. 163 ss.).  Il citato Morris si sofferma sull’antipatia degli Alleati nei nostri confronti, in particolare degli inglesi, sentimento che avrebbe  considerevolmente influenzato la loro politica italiana (op. cit., pp. 119-120).  Non si trattava, quindi, solo di Realpolitik, che richiedeva l’eliminazione dell’Italia come potenza e anche come nazione coesa ed unitaria, al fine di poter dominare senza problemi il bacino del Mediterraneo, di fondamentale importanza strategica.

4 commenti su “Settant’anni fa l’ultima battaglia del Regio Esercito: Gela 9 – 12 luglio 1943 – di Miles”

  1. Cesaremaria Glori

    Dobbiamo ricordare che la Mafia agì, nel maggio 1860, per agevolare Garibaldi e i suoi volontari. Non risulta, invece, che la Mafia avesse rapporti diretti con le autorità britanniche che controllavano, con una avveduta e puntuale regia, le operazioni di Garibaldi e di Cavour. I britannici mantenevano le relazioni soltanto con i capi aristocratici cui le bande mafiose facevano riferimento. Forse ai britannici ripugnava avere contatti diretti con gente del genere, al contrario degli americani che, forse, vi erano stati costretti dalla convivenza forzata nel loro Paese. Non credo che sinora sia stata scritta una storia della Mafia che prenda in esame tutta la sua attività e i suoi rapporti con l’esterno. Potrebbe gettare una luce nuova e spiegare una parte non marginale della storia nazionale. Una storia che non ha ancora messo in risalto quanto la monarchia borbonica fosse stata la più convinta e risoluta assertrice della indipendenza e dell’onore italiano e delle tradizioni autenticamente italiche. E’ soprattutto per queste sue peculiarità nazionali che la posero in opposizione con le forze rivoluzionarie interne ed esterne alla nazione che su di essa è stato gettato il discredito della vulgata storiografica asservita al pensiero illuminista e giacobino. Auguriamoci che qualche giovane ricercatore possa rendere giustizia a questa dinastia che seppe perdere con onore e che non si macchiò di codardia.

  2. la ripresa dell’Italia non può avvenire senza riscatto della memoria storica, oggi alterata e infangata dagli storici anti italiani – il pregevole articolo di Miles (e i saggi di Augello e di Lo Iacno) sono importanti contributi alla rinascita della cultura nazionale

  3. Luigi Maria Ventola

    Articolo di grande respiro, mai letto niente di simile e molto apprezzato da me ma il mio intervento è volto verso quella ignobile figura di soldato marrano e vigliacco di nome montgomery, criticato perfino dai suoi alleati americani per la sua codardia e perfidia. Una figura meschina che attaccava esclusivamente quando era in possesso di forze e di cannoni superiori dieci ad uno rispetto alle forze “nemiche”. Gran brutto figuro ma purtroppo i nemici non si possono scegliere.

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