Settant’anni fa l’ultima battaglia del Regio Esercito: Gela 9 – 12 luglio 1943 (seconda e ultima parte) – di Miles

di Miles

 

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dvsgrgIl grande squilibrio delle forze.  La forza d’ invasione si era divisa l’isola in due zone di sbarco:  la punta Sud-est (capo Passero) per l’VIII armata britannica, per risalire da qui verso Catania e Messina; di seguito, verso Ovest, tutta la costa della zona centrale (nell’ordine, da Est a Ovest, Scoglitti, Gela, Licata) per la VII armata americana.  Gela, posta su basse alture prospicenti il mare, aveva alle spalle una vasta piana ondulata (la Piana di Gela). La forza d’invasione era addirittura superiore a quella impiegata poi in Normandia.  Avevamo di fronte 280 navi da guerra, 2590 da trasporto e 1800 mezzi da sbarco (p. 38).  Anche il dominio alleato del cielo era totale (a 900 aerei dell’Asse di ogni tipo e solo in parte operativi, se ne contrapponevano ben 4400 alleati, quasi tutti moderni, dei quali solo 400 furono abbattuti, in gran parte dai tedeschi.  Il nostro Macchi 205 “Veltro” era l’unico caccia in grado di competere con le centinaia di  Spitfires e P 38, ma ne avevamo solo qualche decina).  I soldati alleati della prima ondata erano 181.000 contro 180.000 italiani e 28.000 tedeschi, che poi ricevettero non numerosi rinforzi.  Due sole le divisioni corazzate tedesche, per un totale di 155 carri (tra i quali pochi i potentissimi Tigre, peraltro poco mobili sull’accidentato terreno siciliano). Circa 80 antiquati carri leggeri per gli italiani.  Di fronte ben 600 carri alleati, quasi tutti moderni, tra i quali molti i poderosi Sherman americani. L’unico nostro controcarro in grado di distruggere uno Sherman era l’ottimo semovente da 90 mm., del quale schieravamo però solo 24 pezzi.  Nell’armamento individuale e di squadra l’inferiorità era anche notevole.  Possedevamo anche noi un buon mitra (il famoso M.A.B. o Moschetto Automatico Beretta).  Però era stato distribuito in quantità ridottissime. Anche gli altri eserciti avevano come arma d’ordinanza il fucile a colpo singolo (semiautomatico per i soli americani).  Tuttavia avevano distribuito anche consistenti aliquote di mitra e pistole mitragliatrici, molto efficaci nei combattimenti ravvicinati, numerosi nella prima fase dello sbarco.  Dopo il crollo dell’8 settembre, i tedeschi avrebbero trovato migliaia di M.A.B. imballati nelle casse, nei magazzini del Regio Esercito (p. 43).  Per i nostri burocrati militari il mitra era evidentemente arma per sole truppe d’élite, inadatto alla fanteria!  O forse mancavano le munizioni?  I tedeschi inventariarono anche 790 tra carri e semoventi, molti dei quali sicuramente superiori a quelli antiquati impiegati in Sicilia.  Sabotaggio, allora? O disorganizzazione?  In realtà non avevamo più equipaggi ben addestrati dopo le ultime perdite subite, in Tunisia.  La famosa divisione Ariete, distrutta ad El Alamein, si stava ricostituendo da tempo presso Roma, con i suoi modesti ma ancor validi M 13, i carri medi dell’arma corazzata italiana, ben più efficaci degli R35.  A Monterotondo, il 9 settembre avrebbe bloccato la marcia tedesca verso la città, assieme alla divisione motorizzata di fanteria Re.  Ciò dimostra che era già in grado di combattere:  perché non era stata mandata per tempo in Sicilia?  Anche le artiglierie schierate in Sicilia erano in gran parte di tipo antiquato, perché il parco era stato ridotto enormemente dalle perdite su tanti fronti.  I tedeschi trovarono comunque nei depositi ben 9.986 cannoni di tutti i tipi.

Dalle quattro divisioni “mobili” di fanteria del Regio Esercito, Livorno, Napoli, Aosta, Assietta dislocate in Sicilia (100.000 uomini circa calcolando anche reparti autonomi ed unità della Milizia fascista, ma dal valore bellico disuguale) bisogna tener distinte le cinque  divisioni (circa 7000 uomini l’una, in teoria) e le tre brigate denominate “costiere”. Costituite in prevalenza da siciliani non più giovanissimi, scalcinate nelle uniformi, modestamente armate e sommariamente addestrate come fanteria leggera, i suoi componenti, spesso del luogo, si assentavano a volte per i lavori agricoli o andavano di pattuglia con parenti ed amici.  Una sorta di milizia popolare di fatto, con famiglie al seguito, che faceva semplicemente inorridire i tedeschi (pp. 53-55).  Le loro artiglierie erano in gran parte antiquate. Il compito di questi “straccioni”(p. 59), tra i quali serpeggiava la malaria, era quello della sorveglianza costiera e della difesa di postazioni lungo la costa, solo in parte fortificate.  Dovevano limitarsi a rallentare lo sbarco “per consentire un adeguato contrattacco proveniente dall’entroterra” (p. 47).  Bisogna chiedersi: che significava “rallentare lo sbarco”?  Forse inchiodare il nemico sulle spiagge per alcune ore?  Per riuscirci, non avrebbero dovuto disporre di difese molto più forti, scaglionate in profondità?  Per tentare di “rallentare” davvero uno sbarco come quello angloamericano avrebbero dovuto in pratica immolarsi tutti sul posto di combattimento e senza garanzia alcuna di riuscirci.  Se questa era la situazione in cui erano state messe queste truppe, chiaramente inadeguate al loro arduo compito, c’è da meravigliarsi non tanto della fuga dei singoli e/o di alcuni reparti ma piuttosto del fatto che non pochi abbiano effettivamente combattuto, alcuni sino all’annientamento!  E contro un nemico che, oltre a bombardare le zone di sbarco con tutti i calibri di una possente flotta, le saturò con razzi da 127 mm., lanciati con nutrite salve in rapida successione per il tempo totale di quattro minuti da unità navali approntate ad hoc, che ne allocavano  mille ciascuna.

“La vista di quei mostri in azione è qualcosa di indescrivibile.  Si sente un sibilo ruggente simile a quello di una dozzina di treni espressi, e scie di fuoco puntano sui bersagli.  Le salve successive colpiscono più all’interno mentre l’unità avanza alla velocità di tre nodi, fino a quando i razzi si esauriscono.  Il fragore assordante di centinaia di esplosioni simultanee quando i razzi fanno detonare i campi minati e cancellano le difese, sommerge ogni altro suono.  Gli italiani delle postazioni lungo la spiaggia dovettero pensare che fosse arrivato il giorno del giudizio universale; in realtà era soltanto un anticipo della punizione per l’avventatezza con cui Mussolini aveva dichiarato guerra tre anni prima”[1].

 

lbrsngllIl mito della Liberazione  Viva la sincerità: ci invasero per “punirci” non per “liberarci”.  Era giusto così:  c’est la guerre, come dicono i francesi.  Ovvero: Vae Victis.  Il mito della “liberazione” fu costruito dopo la nostra capitolazione, per ragioni squisitamente politiche e di propaganda.  Il contenuto vero della “liberazione” per gli Alleati fu sempre costituito dalla “punizione”, che si attuò finalmente nel durissimo Trattato di Pace del 1947, contro il quale bisogna ricordare le nobili parole di Benedetto Croce, che in senato votò contro la sua approvazione. Se ben mi ricordo, votò contro anche il famoso antifascista intransigente Leo Valiani, ebreo fiumano di sentimenti italiani, uno dei capi del Partito d’Azione. Dopo che, su loro insistenza, Badoglio ebbe dichiarato guerra ai tedeschi, gli Alleati ci accettarono come “co-belligeranti” ossia come nemici che, in quanto in guerra con il loro ex-alleato, si trovavano a combattere dalla loro stessa parte.  Vedi un po’ i casi della vita. Ma questo “combattere insieme” (cum aliquo bellare, belligerare, co-belligerante) non ci elevava al rango di “alleati”.  Restavamo nemici che si erano arresi incondizionatamente, con la differenza, rispetto a prima, che ora gli Alleati ci assistevano (a loro discrezione) nella guerra contro il comune nemico.  Quindi: giuridicamente non eravamo loro alleati e non eravamo passati dalla loro parte.  Di fatto, cos’eravamo?  Dei nemici arresisi cui loro elemosinavano qualche aiuto per costituire “gruppi di combattimento” modestamente armati, sparpagliati in mezzo alle loro armate;  dei nemici assistiti militarmente (e psicologicamente appena tollerati) nella lotta contro un comune nemico, nemmeno degli associati nella guerra.  Così ci siamo fatti la fama di traditori, che sono passati col vincitore, quando invece il vincitore non ci ha mai voluto come alleati, tenendoci invece a bagnomaria come “co-belligeranti” e alla fine trattandoci come nemici, pienamente sconfitti, quali per esso eravamo sempre rimasti.  È vero che gli Alleati nello stesso tempo ci illudevano perfidamente dicendoci che, se avessimo combattuto bene, sarebbero state riconsiderate le dure clausole dell’Armistizio.  Cosa che non avvenne.  Avevamo, allora, combattuto “male”?  Il fatto è che un armamento pari al loro per combattere “bene” non l’avemmo mai.  E quando l’avemmo, come nella battaglia d’Argenta (20-23 aprile 1945), un battaglione di  duecento paracadutisti italiani con divise ed armamento americani fece vedere per tre giorni i sorci verdi ai tedeschi, nelle immediate retrovie del loro fronte, preparandone lo sfondamento. Italiani, questi paracadutisti perché gli Alleati non volevano rischiare i loro uomini in un’azione così pericolosa.  Ma questo restò un episodio, del tutto ininfluente[2].

Tornando all’invasione della Sicilia, il lettore deve sapere, per inciso, che i giapponesi avevano presto imparato a loro spese che era impossibile tentare di “ritardare” sulle spiagge gli sbarchi degli americani.  Non si poteva resistere all’uragano di fuoco che li precedeva.  In genere li aspettavano un poco  all’interno, abbarbicati ad intricati sistemi di difesa in gran parte sotterranei, dove però, dopo feroci combattimenti, molti di loro finivano col perire carbonizzati dai lanciafiamme dei marines. Evidentemente, l’impiego delle divisioni costiere fu concepito quando ancora non si aveva nozione della potenza di fuoco della quale erano capaci gli anglosassoni né dell’esistenza dei famosi mezzi da sbarco costituiti dalle chiatte a motore con il portellone che si apriva sul davanti.  Evitando i porti e le loro fortificazioni, questi natanti scaricavano direttamente e velocemente sulle spiagge una quantità enorme di uomini e mezzi, e fruendo sempre di una poderosa protezione aeronavale.

La strategia del generale Guzzoni.  Data comunque l’intuibile grande disparità delle forze, e la scarsità di valide forze di difesa (anche i tedeschi erano poco numerosi), questa sembrava l’unica strategia possibile, elaborata dal generale Alfredo Guzzoni, nostro valido comandante:  se non si voleva ritirarsi subito verso l’interno, fortificandosi sulle montagne, cedendo però di fatto la Sicilia occidentale al nemico, bisognava tentare di colpirlo subito dopo lo sbarco, mentre era nella delicata fase del dispiegamento (p. 47).  Non c’era scelta, anche se le artiglierie delle difese costiere avevano una gittata di soli 7 km (le navi nemiche sparavano da 15 km di distanza ed oltre) mentre le difese sulle spiagge erano incomplete.  Erano minati tratti di spiaggia ma non le acque antistanti.  I molti piccoli bunker costruiti, anche a regola d’arte e ben situati, non erano protetti tutt’intorno da filo spinato o altri strumenti per impedire al nemico di prenderli alle spalle, come poi effettivamente avvenne, sterminando i difensori con lanci di granate (anche al fosforo) attraverso le feritoie. Mancavano i materiali, dall’inizio dei bombardamenti in Sicilia non arrivava più niente. E tuttavia, nota lo storico militare Fabrizio Carloni, al quale si devono alcuni tra i rilievi appena riportati, a Gela la strategia di Guzzoni stava per riuscire.  I rangers della 1ª divisione di fanteria americana (diventata poi famosa come “Grande Uno Rosso” o “Big Red One”) ci misero circa cinque ore di duri combattimenti ad impadronirsi di Gela, cittadina prospiciente la spiaggia, subendo perdite consistenti anche se mai dichiarate (alle 8,02 del mattino la stazione radio di Gela lanciò l’ultimo messaggio:  “Siamo circondati”; l’ultimo cannone rimasto indenne sparò sul nemico fino all’inizio del pomeriggio e i suoi serventi caddero quasi tutti sul pezzo, come quelli del resto della batteria, nel frattempo distrutta)[3].  Allora:  “I fanti costieri italiani si batterono bene a Gela e, se avessero potuto contare su un dispositivo difensivo meglio organizzato, avrebbero dato probabilmente modo alle riserve mobili alla mano e a quelle strategiche di ributtare gli americani a mare”[4].   Affermazioni che colpiscono.  Forse azzardate?  Vediamo. La riserva mobile ossia il Gruppo Mobile E stanziato a Niscemi, località a circa 15 km in linea d’aria da Gela.  Uno degli otto costituiti da Guzzoni, formato da 12 superati carri francesi R35 (Renault, preda di guerra, passatici dai tedeschi, tra i pochi disponibili per le ragioni spiegate sopra), da un gruppo anticarro da 47 mm., gruppi di artiglieria, fanteria, bersaglieri motociclisti, si mise in marcia alle 5,30 del mattino, due ore e quindici minuti dall’inizio dello sbarco, e “alle 7 era al passaggio a livello di Gela”. Ma era stato scoperto dai ricognitori nemici, abbattuti poi dai tedeschi, e investito dalle poderose bordate partite dalle navi, che l’avevano assottigliato e in parte disperso, nonché dal fuoco dei rangers ormai alla periferia di Gela, che aveva distrutto i piccoli semoventi.  Dei cinque R35 che giunsero alla periferia di Gela senza la fanteria di appoggio dispersa dal fuoco delle navi, due vi si slanciarono dentro schiacciando i rudimentali sbarramenti stradali opposti in fretta dal nemico.  La loro meta era la spiaggia.  Pur lenti com’erano, seminarono il panico tra i soldati americani, privi di anticarro, che si rifugiavano nelle stradine laterali e nelle case, sparacchiano ai due carri anche da qualche tetto.  Sembra che alcuni di loro, avvicinandosi il mezzo del tenente Navari al comando USA appena stabilito nell’albergo Trinacria, “si siano precipitati attraverso la discesa del Bastione verso la spiaggia gridando ai camerati incontrati via via per strada: ‘Come on, come on…Germans’”[5].   Il primo carro fu immobilizzato alla fine dal colpo di un  bazooka fatto venire velocemente su dalla spiaggia; l’altro si fermò per collasso del motore a 300 metri dalla spiaggia.  L’unico superstite del primo, il carrista Antonio Ricci, fu preso prigioniero; l’unico superstite del secondo, il tenente Angelo Navari, fu falciato dagli americani mentre tentava di uscire dal carro, secondo alcuni testimoni con la pistola in pugno.  Ora:  se una migliore organizzazione difensiva (sicuramente alla nostra portata) avesse consentito ai fanti costieri di bloccare i rangers sulla spiaggia per quelle cinque ore, il gruppo mobile, anche dimezzato dal fuoco navale, avrebbe potuto investire i nemici con alcuni carri e semoventi direttamente sulla spiaggia, creando loro enormi problemi, ancora disorganizzati com’erano, senza carri armati e con pochissimi anticarro.  E dietro il Gruppo mobile si stava già muovendo la riserva strategica cioè la Livorno. La tesi di Carloni non appare quindi azzardata.

 

La battaglia delle divisioni costiere.   A Gela c’era il 429° battaglione costiero, al comando del maggiore Rubellino.  Durante la tempestosa notte del 9 luglio furono lanciati paracadutisti americani (della poi famosa 82ª divisione) nella piana circostante al fine di scompaginare le nostre difese.  “Il vento soffia a 50 km/h e la contraerea italiana non concede requie [abbatté otto aerei e ne danneggiò venti], i piloti dei Dakota s’innervosiscono, non vedono l’ora di mollare la missione e sbagliano quasi tutte le zone di lancio.  Nelle campagne siciliane piovono americani, dispersi in un’area di almeno 120 chilometri quadrati.  I soldati delle divisioni costiere e i Carabinieri vanno a caccia di paracadutisti nella notte.  L’intera operazione si frammenta in una serie di episodi isolati.  Sul piano militare l’attacco è un fallimento […].  Le perdite sono elevate, sia in termini di vite umane che di prigionieri.  A Scicli gli italiani catturano o mettono fuori combattimento più di cento paracadutisti “[6].  Una parte dei paracadutisti si riorganizzò, mettendo a segno dei colpi di mano che crearono “una certa confusione tra i comandi italiani, ma è esagerato affermare che abbiano addirittura determinato un collasso delle difese [come sostiene la storiografia anglosassone].  Se lo scopo dei lanci è prevenire la possibilità di un contrattacco e impedire le comunicazioni tra le diverse linee di difesa, bisogna dire con chiarezza che nessuno di questi obiettivi viene raggiunto.  Inoltre anche tra gli Alleati il caos è totale […] Altri lanci finiscono sui centri abitati dove a volte gli italiani si abbandonano a un feroce tiro a segno” (pp. 60-61).  Alla “caccia al paracadutista” parteciparono anche volontari civili armati.  Molti aerei furono abbattuti per errore dal “fuoco amico” della flotta.

Il 429° costiero, composto da circa 400 uomini, dovette alla fine ritirarsi a tre km. dall’abitato dopo duri combattimenti, lasciando sul campo quasi il cinquanta per cento degli effettivi:  17 ufficiali e 180 soldati.  Le batterie costiere,  pur con la loro limitata portata, spararono sempre sui mezzi da sbarco, per essere poi rapidamente distrutte (assieme alle fotoelettriche, che avevano inquadrato più volte la flotta nemica) dal micidiale fuoco di controbatteria delle navi nemiche.  Alcuni mezzi da sbarco furono affondati, pieni di soldati (15 per ogni mezzo).  Dell’affondamento di uno, senza superstiti tranne il pilota, c’è la testimonianza diretta di un ex combattente americano. I reduci americani ricordavano la rete di traccianti azzurre delle mitragliatrici e il fuoco dei mortai che li investiva dalla riva.    A  Scoglitti ci furono duri combattimenti contro la 45ª divisione americana, fronteggiata dal 178° reggimento costiero. Pur rimasto quasi privo di artiglieria, combatté sino all’annientamento di diverse sue postazioni, assieme a Carabinieri e Guardia di Finanza.  Nessuno si arrese.  Nell’assalto al suo ultimo posto di blocco, gli americani perdettero circa trenta soldati (pp. 66-70).  “Le perdite complessive americane durante la notte dello sbarco [comprese quelle dei paracadutisti] non sono mai state rese note.  L’unico dato disponibile riguarda i caduti nella sola zona di L i c a t a dove peraltro i combattimenti furono meno cruenti rispetto a Gela e Scoglitti. A Licata caddero 173 americani, 123 italiani, 40 tedeschi” (p. 71).  A Licata, zona di sbarco della 3ª divisione di fanteria americana, la resistenza fu debole.  Gli americani hanno reso noto i dati delle perdite solo dove la resistenza incontrata è stata fiacca.

Questo silenzio da parte americana (e britannica) impedisce una valutazione esatta delle prestazioni della nostra difesa costiera.  Anche nella zona di sbarco britannica, diversi reparti delle divisioni costiere si batterono valorosamente, per non dire eroicamente, mentre altri si davano alla fuga o  venivano inceneriti dal bombardamento aero-navale.  “Quando la resistenza del caposaldo di Fontane Bianche fu finalmente schiantata, gli inglesi autorizzarono il cappellano militare degli italiani a seppellire i caduti.  Il sacerdote contò sul terreno 105 morti britannici e 14 italiani.  Fra questi ultimi c’era il comandante del settore sottotenente Bertolini”[7].  I resti delle divisioni costiere e dei gruppi mobili parteciparono sino all’ultimo, con quello che restava delle quattro divisioni mobili italiane, alla battaglia difensiva finale nella piana di Catania, sostenuta per forza di cose principalmente dai tedeschi; battaglia che durò tre settimane, nella quale si distinsero tra gli altri i superstiti gruppi di artiglieria delle nostre divisioni mobili, e che si concluse con l’ordinata evacuazione in Calabria di tutto ciò che restava delle truppe dell’Asse, pur premute costantemente da terra e dall’aria : 39.569 soldati tedeschi, dei quali 4.444 feriti; 62.000 soldati italiani; circa 10.000 automezzi; 47 carri armati tedeschi; 136 cannoni; 18.000 tn. di munizioni, carburanti etc. e  persino 12 muli[8].

Gli italo-tedeschi ad un passo dalla vittoria, a Gela.  Il primo contrattacco, come si è detto, fu quello del Gruppo Mobile E, che doveva agire di concerto con la Hermann Goering, divisione di granatieri corazzati (l’equivalente dei nostri bersaglieri, che sono la fanteria motorizzata di accompagnamento dei carri armati) in fase di completamento, del tutto inesperta, dotata di un centinaio di carri, tra i quali  sette  Tigre.  Per vari motivi, la divisione giunse in ritardo sulla scena.

Nella prima mattina  del 10, gli italiani attaccarono allora da soli con il suddetto Gruppo Mobile.  Fallito  quest’attacco, si ebbe subito dopo il primo della Livorno, l’unica nostra divisione di fanteria che fosse motorizzata (bersaglieri), la nostra migliore unità; un battaglione della quale prima avanzò, poi dovette retrocedere sulle posizioni di partenza, investito dal fuoco delle navi.  Alle due del pomeriggio apparve finalmente la Hermann Goering.  Dopo un inizio stentato, i Tigre travolgono (alle 16) le posizioni americane, catturando un intero battaglione.  Tra il mare e i Tedeschi c’è ora un solo battaglione americano, che appare subito in difficoltà.  Ma il “contrattacco disperato” di una sua compagnia semina inaspettatamente il panico nella fanteria tedesca in appoggio ai carri, che si dà ad una fuga disordinata.  Così la grande opportunità viene perduta per l’Asse[9].  Fatale la mancanza di una riserva mobile, da gettare nella mischia nel momento decisivo; riserva che avrebbe potuto esser costituita dai 75 carri dell’altra divisione corazzata, la Sizilien, che Kesselring, contro il parere di Guzzoni, aveva voluto schierare più a Ovest, per coprire Palermo.

Il giorno dopo, l’11, continua il sen. Augello, si ebbe “la grande battaglia”, dalle 6.30 del mattino alle 7 del mattino successivo (pp. 108-121), con la “carica suicida” dei bersaglieri della Livorno (Carloni).  La Livorno, per quanto continuamente bersagliata (unitamente ai tedeschi) dal cielo e dal mare, schierata su due colonne, con l’appoggio di artiglieria divisionale e mortai, travolse all’arma bianca le due successive linee di difesa apprestate dai rangers, catturando prigionieri “e molte armi automatiche abbandonate sul campo”, per attestarsi provata alle prime case di Gela, “a meno di 2 km. dalla spiaggia”.  Contemporaneamente, andò all’attacco la Hermann Goering, anch’essa su due colonne. Una colonna, con 21 carri medi, mise in fuga un battaglione di fanteria americano, che ripiegò in disordine “verso la strada costiera”.   L’altra colonna, invece, assunse un inspiegabile atteggiamento difensivo di fronte alla collinetta di Biazzo, presidiata da due battaglioni americani, segnando il passo (erano poco più di un migliaio di uomini, con una batteria da 75).  Attaccando con decisione, avrebbe potuto sicuramente passare, aggirando così l’intera 45ª divisione USA, “con conseguenze disastrose per il nemico”.  Nel frattempo, la prima colonna della Hermann Goering sfonda l’ultima linea americana e giunge a 1500 metri dalla spiaggia, che appare in quel tratto del tutto libera.  “Contemporaneamente la Livorno combatte tra le prime case di Gela.  Se solo ci fosse un reggimento di granatieri corazzati di riserva o se almeno arrivasse la colonna della Hermann Goering bloccata a Biazzo, la battaglia finirebbe in poche ore, con un’incredibile sconfitta americana.  Ma non ci sono riserve, solo truppe stanche, che hanno subito ed inflitto perdite notevoli” (p. 114).

A questo punto interviene in modo ancora più massiccio di prima (e forse decisivo) il bombardamento navale americano (3296 proiettili nell’arco della mattinata, p. 116). Le forze dell’Asse subiscono ulteriori perdite e vengono letteralmente inchiodate al terreno, mentre gli americani sono asserragliati in Gela e tra le dune di parte della spiaggia.  Verso mezzogiorno, la situazione si sblocca a favore di questi ultimi. Comincia a sopraggiungere da Licata la 3ª divisione corazzata USA  al completo.  Questa divisione era stata trattenuta per qualche ora dall’attacco di un gruppo tedesco e di una  modesta forza italiana costituita da elementi della 207ª divisione costiera, da un battaglione di bersaglieri, da reparti della Aosta e della Assietta.  La forza italiana si era battuta valorosamente, restando praticamente distrutta (p. 116-117).  Le truppe dell’Asse devono ora subire la massiccia controffensiva nemica e si ritirano ordinatamente, combattendo.  La lotta cessa alle 7 del mattino successivo.  Gli italiani ebbero alla fine circa duemila prigionieri.  “La Livorno, riorganizzata in quattro gruppi tattici, continuerà a battersi con poco più di 2000 effettivi [rispetto agli 11.000 circa iniziali] fino alla fine della campagna di Sicilia” (p. 121).

Elevate le perdite, da entrambe le parti. Enormi quelle italiane. “L’alba del 12 luglio illumina un campo di battaglia che non dovrebbe essere dimenticato:  2000 soldati e 214 ufficiali italiani giacciono senza vita, mescolati e confusi ai loro avversari americani, che tra morti, feriti e dispersi sommano 2300 vittime.  Infine i tedeschi hanno perduto 600 soldati e 30 ufficiali, oltre a 10 carri completamente distrutti” [10].

Una sconfitta gloriosa, rimossa dal Politicamente Corretto ma conservata dalla tradizione popolare.  Nonostante la mancanza di riserve e l’enorme superiorità materiale del nemico, la vittoria sarebbe stata possibile, se la seconda colonna della Hermann Goering fosse stata capace di farsi valere. Non sarebbero di certo mutate le sorti della Campagna ma una vittoria avrebbe avuto un notevole significato morale e avrebbe forse contribuito ad una soluzione meno traumatica (per il Paese) della crisi del regime fascista, ormai ineluttabile.  In ogni caso, al di là delle vicende contingenti, conta proprio il significato morale di questa battaglia, che va ricordata come una “sconfitta gloriosa”, quale ce la tramandano ora i cantastorie siciliani, nelle loro ballate.  Esse “testimoniano – sottolinea il sen. Augello – un approccio nazionale, popolare e non ideologico alla guerra perduta.  Le cose sono poste in modo semplice:  gli americani sbarcano, gli italiani difendono la loro patria.  L’esito sfortunato si consuma nonostante il valore dei nostri soldati.  Con fatalismo molto siciliano, s’imputa alla “sorte” avversa l’invasione statunitense dell’isola.  Ci interessa questo punto di vista perché aiuta a comprendere lo stato d’animo dei combattenti italiani in Sicilia.  La loro tenacia nel fronteggiare una situazione così difficile, il loro ardimento nell’affrontare la morte, avevano motivazioni altrettanto semplici: senso del dovere, patriottismo, determinazione nella difesa del suolo nazionale, volontà di mostrarsi all’altezza della generazione di Vittorio Veneto e del Piave […]  Quasi tutti sono semplici richiamati alle armi, persone ragionevoli e responsabili, padri di famiglia che rappresentano l’unico sostegno per i loro cari […]  Non c’è ombra di fanatismo o furore ideologico tra i ragazzi della Livorno o fra i carristi del Gruppo mobile.  Persino tra le camicie nere della Milizia prevale un senso del dovere composto.  Allo stesso modo i pochi “furbi” che tagliano la corda, abbandonando le posizioni, sono ripartiti equamente fra tutte le unità” (p. 146).

Un noto cantastorie siciliano, Francesco Paparo di Paternò, in arte Cicciu Renzinu, ha scritto la ballata del caporalmaggiore Cesare Pellegrini, medaglia di bronzo alla memoria, che a Gela bloccò per diverso tempo i rangers con la sua mitragliatrice, abbattendone un certo numero, prima di essere ucciso a pugnalate sull’arma, e del già ricordato tenente dei carristi Angelo Navari, medaglia d’argento alla memoria, ambedue “tosti versigliesi” (p. 145).  Ma voglio rammentare, tra gli altri valorosi caduti, la camicia nera Francesco Faraci, di Gela, che, in un convulso combattimento notturno, mise in fuga assieme alla sua pattuglia i paracadutisti nemici ed il cui corpo fu ritrovato all’alba decapitato; il tenente catanese Filippo Lembo, del 490° battaglione costiero, ucciso a pugnalate dai rangers (che ne sfregiarono il volto) dopo aver esaurito le munizioni della sua pistola, avendo prima difeso con i suoi uomini le postazioni dei giardini comunali (p. 61-62; 53; 67-68); il sottotenente Luigi Ignazio Adorno di Noto, del 374° battaglione costiero, medaglia d’oro alla memoria, che cadde con la pistola in pugno al comando con ventidue uomini del posto di blocco n. 418 sulla strada Avola-Noto, dopo che il suo plotone, quasi tutto distrutto, aveva inflitto sensibili perdite ai paracadutisti britannici che avevano circondato la posizione[11].  Da ultimo, il capitano della Regia Aeronautica Franco Lucchini di Roma, medaglia d’oro alla memoria, che “scomparve nel rogo del suo Macchi 205 come un eroe mitico”, mentre attaccava, con altri cinque caccia, una formazione composta da centinaia di bombardieri e caccia nemici, sul cielo di Catania.  “Del suo corpo fu ritrovata solo la mano sinistra fra i rottami del velivolo.  Essa fu riconosciuta dalla fede che portava all’anulare”[12].

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[1]              MORRIS, op. cit., p. 77.

[2]              LEONI, op. cit., p. 420.

[3]              CARLONI, op. cit., p. 89.

[4]              CARLONI, op. cit., p. 26.

[5]              Op. cit., p. 95.  “Via, via…tedeschi!”.  Testimonianze locali raccolte da Nunzio Vicino, storico gelese, autore di un’ampia storia della battaglia di Gela.  L’attacco della sparuta pattuglia di R35 è stato fantasiosamente trasformato dalla storiografia anglosassone, anche la migliore, in un attacco di decine di carri italiani messi subito in fuga o distrutti dalla pronta reazione dei rangers (CARLONI, op. cit., p. 101).

[6]              AUGELLO, op. cit., p. 60.

[7]              Vedi:  S. ATTANASIO, op. cit., pp. 89-99.  Vedi anche:  VILLARI, op. cit., p. 86.

[8]              ATTANASIO, p. 235 e VILLARI, op. cit., p. 162, con le fonti ivi citate.  Anche secondo la relazione ufficiale della Marina Americana, si trattò di un’operazione da manuale, coordinata dall’Amm. Barone e diretta nei fatti dal colonnello Franco Salamo.  Le ultime truppe tedesche e gli ultimi reparti costieri italiani furono traghettati la notte del 16 agosto.  Le avanguardie americane entrarono in Messina alle 6.30 del 17 agosto :  la campagna era durata ben 38 giorni (VILLARI, op. cit., p. 164). Nella relazione finale a Churchill, il maresciallo Alexander, comandante alleato in capo, mentì spudoratamente quando affermò che “l’isola è potentemente fortificata, con fortini di calcestruzzo e filo spinato” (op. cit., p. 56).

[9]              AUGELLO, op. cit., p. 94.

[10]             AUGELLO, p. 120.  “Dal giorno dello sbarco sono deceduti circa 3300 militari italiani e 800 tedeschi.  Mancano cifre attendibili sul totale delle perdite americane.  La divisione Livorno conta anche 5000 feriti, in parte presenti tra i 200o prigionieri presi dagli americani, ma in grande maggioranza avviati alle retrovie durante i combattimenti.  Molti sono mutilati, altri morirono durante il ricovero”.  Gli americani catturati durante i combattimenti devono esser stati circa 6-700 (stima ufficiosa), senza contare i paracadutisti rastrellati dai reparti italiani.  Furono poi tutti liberati dagli Alleati vittoriosi (ivi, pp. 120-121).

[11]             VILLARI, op. cit., p. 83.

[12]             ATTANASIO, op. cit., p. 64.

4 commenti su “Settant’anni fa l’ultima battaglia del Regio Esercito: Gela 9 – 12 luglio 1943 (seconda e ultima parte) – di Miles”

  1. E’ una bella soddisfazione vedere ristabilita la verità: offesa degli stessi “italiani”.
    Tuttavia mi permetto un’osservazione. Evitando di fare la guerra (per altro, approvata dal Re) si sarebbe fatta la stessa fine che abbiamo fatto: certamente senza subire lutti, distruzioni e guerra civile, ma anche senza onore: caduti nell’umiliante condizione di satelliti di potenze egemoni.

  2. conosco bene il valore dei nostri soldati della II guerra mondiale. Purtroppo siamo un popolo disunito ed individualista, ma sopratutto esterofilo, noi stessi vantiamo il coraggio dei soldati americani ed inglesi, dimenticandoci che i nostri soldati sono stati di gran lunga migliori. Basta pensare alla battaglia di El Alamein ed al coraggio della Folgore, che bloccò gli inglesi in Nord Africa, anche se era rimasta senza munizioni e viveri. Americani ed Inglesi non sono stati dei veri liberatori, se fossero stati veri liberatori non avrebbero applicato sanzioni durissime alla firma dell’ armistizio. Ho avuto due zii che hanno combattuto nella seconda guerra mondiale e mi raccontavano, per esperienza personale, che i soldati italiani e tedeschi erano molto più corretti in combattimento in confronto agli alleati. Concludo con la frase di Rommel: “IL SOLDATO TEDESCO HA STUPITO IL MONDO, IL BERSAGLIERE ITALIANO HA STUPITO IL SOLDATO TEDESCO”.

  3. non ho parole,mi viene da piangere.Questi nostri fratelli sono morti due volte,l’oblio voluto per scelta politica è peggio della morte.E’ ora che si restituisca alla nostra Storia questa pagina di sacrificio e di gloria.Per decenni ci hanno nascosto la verità in odio al fascismo presentandoci come un popolo corrotto e vigliacco per soddisfare le ambizioni politiche ed i tradimenti di una classe dirigente incapace di amare la propria Patria.

  4. No, contro sta solita retorica del “non si doveva fare la guerra” e l’ostilità verso Mussolini bisogna ammettere 3 fatti storici importanti (mai considerati DOPO): la guerra era quella principalmente tedesca (ossia al di là del Nazismo o altro la vendetta della sconfitta alla I Guerra Mondiale) limitata al Blitzkrieg in Europa, in 2° luogo come pure oggi c’era la seconda “guerra” silente parallela delle invenzioni scientifiche trasformate in arma in cui Tesla, Einstein & Co. già consideravano di opporre alla Germania dal 1938 in poi (per la quale Ettore Majorana coraggiosamente si era astenuto come pure Guglielmo Marconi), in 3° luogo per queste stesse ragioni gli USA entrarono provocandoci al 3° anno di guerra approfittando della irrealizzabile capacità di essere colpiti in casa ma attuando bombardamenti aerei indiscriminati come guerra totale e di sterminio dei nemici (che ci vanifica la “colpa” di aver voluto sfruttare un guerra che stava per concludersi nel 1940 e quindi fu una scelta da fare ma gcorretta).
    L’unico errore fu poco dopo nel voler proseguire “aprendo fronti” in Grecia e Jugolsavia e Africa dove noi abbiamo perso sul campo, coinvolgendo la Germania nel logoramento e dando il colpo di grazia al Giappone per merito della costruzione delle bombe atomiche di Fermi, Amaldi, Pontecorvo, ecc…

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