SI PUO’ ANCORA AVERE FIDUCIA NELLA NOSTRA GIUSTIZIA? – di Luciano Garibaldi

Dal passato al presente

 

di Luciano Garibaldi

 

 

Il 23 maggio scorso Rai Storia ha mandato in onda un vecchio e celebre réportage di Enzo Biagi sul «caso Lavorini», uno dei più tragici errori compiuti da una magistratura superficiale, per non dire di peggio. Il «caso» in sintesi. Viareggio, 31 gennaio 1969: il dodicenne Ermanno Lavorini scompare da casa. Qualche giorno dopo i genitori ricevono una telefonata con la richiesta di pagare un riscatto, ma i ricattatori non si faranno più vivi. Il 9 marzo, il cadavere di Ermanno verrà ritrovato sepolto nella sabbia della pineta di Viareggio, in un punto frequentato da omosessuali. La stampa si scatena, per giorni e settimane non c’è telegiornale che non inizi con le novità sul «caso Lavorini» e nella morsa finisce un quarantenne, Adolfo Meciani, titolare di uno stabililmento balneare, di cui sono note le tendenze omosessuali. Non vi sono prove se non accuse generiche lanciate nei suoi confronti da un gruppetto di adolescenti che poi risulteranno i veri autori del delitto. Tant’è, Meciani finisce in carcere e diventa oggetto di una campagna di linciaggio che non ha precedenti. Al punto che, disperato, si suicida impiccandosi in cella. Risulterà innocente nella sentenza definitiva del processo, che invece condannerà la banda di minorenni autori del delitto.

ctNon è l’unico stimolo a riflettere sulle storture della giustizia in Italia. Silvio Berlusconi, con la sua uscita nel corso del raduno anti-magistrati di Brescia (si è paragonato a Enzo Tortora, vittima a suo tempo di una enorme ingiustizia), ha riportato d’attualità un caso esemplare di ciò che non va, di ciò che non funziona nel nostro Paese. Lo ha fatto esattamente a trent’anni da quel 1983 che vide il famoso giornalista e anchorman televisivo gettato nel fango da una persecuzione giudiziaria ancora oggi mai chiarita. Peccato che, all’epoca, ben poco avessero fatto, le televisioni controllate dal futuro uomo politico e premier, per difendere Tortora, che, al suo fianco, trovò soltanto i radicali di Marco Pannella (e pochissimi giornalisti, tra i quali il sottoscritto). Ed è forse per questo che le due figlie di Tortora, entrambe giornaliste, Silvia e Gaia, hanno preso le distanze dal paragone formulato dal leader del PDL.

Non vi è dubbio che Enzo Tortora sia stato vittima di quella che può essere considerata la più inaudita persecuzione giudiziaria del Novecento italiano. Tortora fu arrestato il 17 giugno 1983, mentre era all’apice del successo televisivo: la sua trasmissione del venerdì sera su Rai Due, «Portobello», vantava 28 milioni di telespettatori, un’audience mai più raggiunta da nessuno showman nel nostro Paese. Il suo arresto avvenne nel quadro del cosiddetto «maxiprocesso» alla camorra, un «maxiprocesso» nel quale furono tuttavia coinvolte soltanto alcune centinaia di figure di secondo piano, mentre i veri capi della malavita napoletana restavano al sicuro. Occorre premettere che Tortora, genovese ma di origini napoletane, detestava fortemente la camorra e in genere la malavita, e più volte ne aveva fatto oggetto di duri attacchi televisivi. Non si capisce dunque il perché di tanto odio nei suoi confronti da parte di un gruppo di malavitosi che pure si erano posti a disposizione della magistratura in qualità di “pentiti”. In effetti, ancora oggi qualcosa non quadra, e nessuno ha mai indagato a fondo sulle vere ragioni che determinarono il complotto contro Tortora. Chi c’era alle spalle dei calunniatori di Tortora? Chi li aveva “insufflati”? Non c’è dubbio, infatti, che il coinvolgimento di Tortora nella grande retata fu il risultato di un complotto nato nelle carceri ad opera di incalliti delinquenti come il pluriassassino Giovanni Pandico (da anni ormai libero) e il killer Pasquale Barra (aveva strangolato il boss Francis Turatello, squarciandogli poi il petto e mangiandogli il cuore).

La cosa più incredibile è che le accuse lanciate contro Tortora (essere uno spacciatore di droga) e raccolte a verbale prima dai carabinieri e poi dalla Procura di Napoli, iniziarono nel marzo 1983, sicché la magistratura ebbe tutto il tempo per verificarle. Ma nessuna indagine bancaria fu fatta sui conti di Enzo, né il suo telefono fu posto sotto controllo, né egli venne mai pedinato. Al comandante della caserma dei carabinieri e al procuratore capo di Napoli bastarono quelle accuse basate sul nulla, che chiunque poteva inventare, per rovinare un galantuomo come Tortora.

Dal momento dell’arresto, reso clamoroso dalla triste immagine televisiva di Tortora trascinato via dai carabinieri in manette, mandata in onda ben dieci volte dai telegiornali di quella TV di Stato al successo della quale Enzo aveva pure collaborato in maniera tanto determinante, l’operato degli inquirenti fu mirato, anziché a cercare prove e riscontri alle accuse, a raccogliere le più inverosimili chiamate di correo, inventate da paranoici, mitomani, criminali, calunniatori di professione e fanatici ricercatori di occasioni autopubblicitarie.

Bastava che uno di tali individui, dall’interno di un carcere, o dall’anonimato della sua squallida vita quotidiana, si presentasse ai carabinieri o agli uffici dei PM, perché le sue parole venissero prese come oro colato, pur prive del benché minimo straccio di prova, e il personaggio in questione ottenesse immediatamente un trattamento di favore. Ormai quei PM erano accecati dallo spasmodico sforzo di tenere in piedi la loro inchiesta, che sarebbe miseramente franata qualora si fosse scoperto il marchiano errore compiuto con Tortora.

Uno scempio simile della giustizia e del diritto non sarebbe potuto avvenire senza la complicità di quasi tutti i giornalisti italiani, colpevolisti fin dall’inizio o per beceraggine, o semplicemente perché, in un’epoca in cui trionfava il sovversivismo di sinistra di marca snob, Tortora, vecchio liberale, rigido conservatore di destra, stava antipatico a quei miserabili. I quali, alla notizia della condanna a 10 anni, arriveranno all’onta di brindare a champagne.

Né si può dimenticare la responsabilità morale dei liberali «ufficiali», da Zanone (l’affossatore del PLI: sua la frase suicida «Il PLI è un partito che si colloca a sinistra della DC») fino a Malagodi, suoi compagni di partito (Tortora era iscritto al PLI dall’immediato dopoguerra), che non mossero un dito per difenderlo, non meno che quella, gravissima e inqualificabile, dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, ch’ebbe a dichiarare: «Tortora si è difeso male», forse non dimentico di una trasmissione in cui Enzo, assieme al sottoscritto, gli aveva rinfacciato una sua proverbiale battuta: «Le Brigate rosse sono nere». Miserie ch’ebbero il risultato di far risaltare il grande merito di Francesco Cossiga, il quale, salito al Quirinale nel 1985, convocò Enzo Tortora, nella sua veste di presidente del Partito Radicale, indifferente alla sua condizione di detenuto agli arresti domiciliari, trattandolo con un tale calore umano e una tale simpatia da non lasciare dubbi sul messaggio che aveva inteso lanciare a tutta l’opinione pubblica.

Il processo ebbe inizio il 14 febbraio 1985 e andò avanti sette mesi, in un clima di autentico sopruso giudiziario nei confronti di Tortora. Tutte le eccezioni dei suoi difensori erano sistematicamente respinte. Neppure le tardive ritrattazioni dei pentiti, indotti a smentire ciò che avevano affermato in sede istruttoria perché mai abbastanza soddisfatti del trattamento di favore riservato ai calunniatori, furono prese in considerazione. Tortora «doveva» essere condannato. E fu condannato a 10 anni di reclusione, con una sentenza, emessa il 17 settembre 1985, nella quale Enzo veniva definito «un cinico mercante di morte».

Spogliatosi, come aveva solennemente promesso, dell’immunità parlamentare, con le dimissioni rassegnate a Strasburgo, Tortora fu rinchiuso agli arresti domiciliari. Ebbe finalmente giustizia nel settembre dell’anno seguente, il 1986, con la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, che lo proscioglieva da qualsiasi accusa con la formula più ampia, e cioé «per non aver commesso il fatto». Sentenza poi confermata in Cassazione. Nel 1987 tornò in TV con «Portobello», ma ormai non era più il brillante e polemico «anchorman» di un tempo. Un velo di amarezza, un sorriso triste gli segnavano il volto. Morì, dopo un duplice cancro, il 18 maggio 1988, all’età di 60 anni. Volle essere cremato, e volle che, assieme alle sue ceneri, fosse chiusa nell’urna una copia della «Storia della colonna infame» di Alessandro Manzoni. Non soltanto nessuno dei magistrati che lo perseguitarono, ma neppure nessuno dei suoi calunniatori ha pagato. Per la maggior parte, malgrado si tratti di rapinatori o pluriassassini, sono ormai da anni in libertà. Quanto ai magistrati che sbagliarono, hanno fatto tutti carriera. E il referendum sulla responsabilità civile dei giudici, vinto alla grande da chi pretendeva (e pretende) che i magistrati in malafede paghino, è divenuto carta straccia per una precisa scelta politica.

Dati questi precedenti, si può comprendere con quanto interesse abbia letto la rubrica di Piero Ostellino sul “Corriere della Sera” di mercoledì 22 maggio. Titolo: «Perché ho poca fiducia nella nostra Giustizia». Leggiamone un brano:

«Malgrado le molte prove contrarie, gli italiani dicono ancora di «avere fiducia nella Giustizia». Io non ne ho alcuna. Mi è bastato averci avuto a che fare una sola volta per convincermene. Dopo aver dato ragione, in ben tre sentenze, a me, e torto a chi mi aveva diffamato, il giudice della terza mi ha trasformato (suppongo: perché politicamente antipatico?) in un condannato. Dopo anni, avendo ridotto a meno di un terzo ciò che aveva fissato la seconda (che aveva già ridotto a un terzo l’indennizzo previsto dalla prima) sono obbligato a restituire non solo pressoché tutto ciò che avevo, nel frattempo, incassato, ma persino a pagare una frazione delle spese processuali di un ricorso che avevano fatto, e perso, i condannati… Ora, prego di non aver mai più a che fare con questa giustizia anche qualora avessi ragione. A giudicare da come sono condotte certe inchieste (in un profluvio di intercettazioni inutili) e si perviene a sentenze poi smentite anni dopo, si tratta di gente che non sa semplicemente fare il proprio mestiere o lo fa con la (paranoide) presunzione di poter disporre della vita degli altri a proprio arbitrio».

Il grande giornalista (ricordo che fu per anni direttore del “Corriere della Sera”) conclude il suo articolo con un consiglio al premier Letta: metta mano al nostro sistema giudiziario se vuole fare opera di civiltà.

1 commento su “SI PUO’ ANCORA AVERE FIDUCIA NELLA NOSTRA GIUSTIZIA? – di Luciano Garibaldi”

  1. Alfredo Picciafoco

    Mi trovo pienamente d’accordo ma sono anche amareggiato,quanto non si faccia nulla per riformare seriamente questo sistema giudiziario malato cronico,alla fine sono sempre i più deboli a pagare

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