Tornare alla leva obbligatoria: serve davvero per educare i nostri giovani? – di Cesaremaria Glori

Da qualche tempo, si è ripreso a parlare del ripristino del servizio militare obbligatorio mettendo in evidenza gli eventuali risvolti positivi nell’educazione dei giovani. Il tema è stato ripreso anche da Riscossa Cristiana e, a mio avviso, merita qualche puntualizzazione. Purtroppo, penso che non basti un anno di servizio militare per porre rimedio alla decadenza della nostra gioventù malata. Malati non sono solo i nostri giovani, ma tutta la società nelle sue varie forme di espressione, dalla sfera religiosa a quella famigliare, dall’educazione alla cultura, una decadenza che riguarda l’intero modo di vivere e di essere della persona.

Ci si augura che la vita militare, con la sua disciplina e con l’educazione all’amor patrio possa ridar vita a quell’attaccamento alla propria terra e ai valori che sono andati perduti nel settantennio che ci separa dall’ultima guerra. Diciamo subito che la questione è più complessa. Parlo per esperienza diretta come ufficiale dell’Esercito proveniente dai corsi regolari dell’Accademia Militare di Modena frequentata nel lontano biennio 1955-57.

Ho vissuto la vita di caserma per quasi trent’anni, in prevalenza presso le truppe alpine, e posso dichiarare con piena consapevolezza e onestà che, sino alla prima metà degli Anni Settanta, i giovani che venivano a vestire la divisa erano fondamentalmente sani e disposti a recepire i valori di solidarietà, di altruismo, di amor patrio, cioè di appartenenza a una nazione della quale potevano andare orgogliosi. Insomma, era vivo l’attaccamento alla bandiera che ogni mattina veniva innalzata sul pennone. I guasti cominciarono a vedersi dapprima in quei reparti formati da leve provenienti in massima parte dalle città maggiori del nord e del centro dell’Italia, mentre erano pressoché assenti in quei reparti formati da leve provenienti dalle aree montane (reclutamento alpino) o da quelle prevalentemente agricole.

I guasti crebbero con un’accelerazione che lasciò stupiti i quadri degli ufficiali e ciò avvenne dopo la metà degli Anni Settanta. L’ingresso della droga nelle caserme fece la comparsa anche in quei reparti formati da giovani provenienti dalle vallate alpine ove l’industrializzazione e la scuola (sissignori, proprio la scuola) aveva modificato profondamente i modi di vita e di pensare della gioventù.

Negli anni successivi l’addestramento, che sino a qualche anno prima si svolgeva senza grandi difficoltà, era divenuto rischioso per la carriera dei comandanti di compagnia o di batteria, cioè di ufficiali che per età erano ancor vicini ai loro soldati. Il rischio derivava dalla possibilità di incidenti che causassero la morte o il grave ferimento di qualche militare. Rischio che aumentava verticalmente sulla scala delle probabilità a causa di una disposizione d’animo di quasi totale ripulsa verso la ferma obbligatoria e di crescente insofferenza verso la disciplina, senza contare gli interventi sempre più frequenti delle improvvisate associazioni di mamme che recepivano con esagerata inquietudine le lamentele dei loro figli per la durezza delle marce e per le altre forme di addestramento che, da sempre, erano state portate a termine senza problemi.

La denatalità, che aveva preso il suo avvio progredendo sempre più velocemente verso i picchi odierni, si faceva sentire accrescendo le paure di perdere o di veder menomati i numerosi figli unici chiamati alle armi.  Le madri si erano rese conto per prime che i figli stavano divenendo un bene preziosissimo e sempre più raro e cercavano di preservarli dai pericoli, compreso quello della naja, che mai lo era stato. Non ci si rendeva conto, allora, che gli incidenti che causavano gli azzoppamenti di carriera di quei sfortunati giovani ufficiali che comandavano i reparti in cui quegli incidenti avvenivano, erano spesso la conseguenza della malavoglia con cui si subivano le fatiche della naja. Fatiche che negli anni precedenti avevano gratificato coloro che col foglio di congedo in mano ritornavano alle loro case maturati e migliorati anche sotto il profilo morale e lo riconoscevano essi stessi, segno evidente che la maturazione era avvenuta.

Negli ultimi anni che precedettero la riforma del reclutamento per un esercito di professionisti, il servizio obbligatorio era divenuto, salvo alcune selezionate eccezioni, una perdita di tempo sia per chi lo doveva subire sia per chi doveva, con la svogliata gioventù, programmare una forma minimale di addestramento. La svogliatezza derivava soprattutto dal desiderio di cambiare tutto, di rovesciare il vecchio per un qualcosa che non si sapeva ma che si voleva inventare.

“Fantasia al potere” gridavano i giovani che volevano cambiare il mondo cominciando dal modo di vestirsi. Proprio in quei tempi l’esercito aveva cambiato la divisa dei militari di truppa adeguandola a quella dei graduati, cioè a quella degli ufficiali e sottufficiali. Ciò che distingueva erano i gradi cuciti sulle spalline o sui polsi. I soldati di quelle poche guarnigioni che non si vergognavano di indossare la divisa erano finalmente vestiti decorosamente e facevano anche una bella figura, ma se ne vedevano pochi in giro per le città ove c’erano delle caserme. Appena usciti dagli sguardi delle sentinelle che custodivano gli ingressi delle caserme, quei ragazzi correvano in case ove custodivano i loro abiti “civili” e si cambiavano rapidamente. E quali erano questi abiti civili? Jeans con ampi squarci, magliette dozzinali, insomma stracci di lusso. E noi ufficiali commentavamo senza poter far nulla: strano destino quello del soldato italiano! Prima vestiva male perché lo Stato lo vestiva in modo scalcinato ed ora che lo vestiva bene erano loro che tornavano a vestirsi da poveretti!

A modificare radicalmente le forme e le modalità di addestramento degli uomini chiamati alla difesa del territorio erano però intervenuti altri fattori di massima importanza. Fattori che avevano rivoluzionato la dottrina militare sia dal punto di vista strategico che tattico. Era mutato il tipo di armamento e le modalità del loro uso. La moderna tecnologia aveva raggiunto uno sviluppo tale da rivoluzionare, in pochi anni, il modo di fronteggiare gli attacchi di eventuali avversari, senza voler tenere conto che gli avversari non erano sempre certi e identificabili come tali. La guerra era diventata asimmetrica, cioè non era più quella di una volta, tanto che ci si poteva trovare in stato di guerra anche senza alcuna dichiarazione formale che legittimasse l’uso della forza. Il modo di fare la guerra era veramente mutato e, sovente, come accadeva negli interventi di peace keeping, non sapevi mai con esattezza chi potesse essere l’avversario che improvvisamente ti prendeva sotto tiro.

Fare il soldato era divenuto, insomma, un mestiere rischioso e problematico ove l’incertezza era la sensazione abituale. Incertezza in riferimento a chi era il nemico e quanto lo fosse e il perché e il come lo fosse. L’esercito moderno doveva poi tenere conto del nemico interno, che va fronteggiato in modo completamente differente rispetto a quello che agisce in territorio estero.

C’è poi un altro fattore che è della massima importanza e che richiede un tipo di professionalità che non si può pretendere da un soldato di leva tolto alle sue abituali attività. Una volta l’addestramento esigeva adattabilità alla fatica, forza d’animo, una buona dose di coraggio ed anche di spavalderia e, soprattutto, aderenza alla disciplina. A maneggiare un fucile, una mitragliatrice e anche un piccolo mortaio si imparava con una certa facilità. Ma ora questo, con le nuove armi e le nuove tattiche, non basta più.

Un altro aspetto da considerare, che a dire il vero esisteva anche prima ma riguardava soltanto reparti specialistici e selezionati, è l’elevata professionalità dei militari. Questi reparti erano e sono predisposti per interventi quasi sempre celati ai media, che esigono particolare riservatezza e prontezza di intervento. Questi reparti usano armi sofisticate e costosissime il cui impiego può essere eseguito con abilità e destrezza soltanto dopo un addestramento lungo e faticoso. Un addestramento che riguarderà non soltanto la manualità e l’aspetto fisico della persona, ma soprattutto quello psicologico. Un addestramento che può raggiungere la perfezione soltanto raramente e che resta sempre una meta che esige un allenamento e una preparazione multidisciplinare.

Anche nel nostro Esercito, nella nostra Marina, nell’Aviazione e nella Forza armata dei Carabinieri abbiamo questo tipo di reparti super addestrati e armati, per i quali la forma suprema di disciplina da raggiungere è quella chiamata disciplina delle intelligenze che richiede la capacità di immedesimarsi nella situazione in cui si troverà il compagno o i compagni di missione. Ognuno deve poter sapere e immaginare quel che sta accadendo all’altro e adeguarsi al comportamento che ognuno deve tenere per raggiungere l’obiettivo previsto per tutto il gruppo, anche se sa che, in un dato momento, uno o più d’uno dei compagni si trova in situazione critica. La disciplina delle intelligenze era una dottrina che già Sun Zu e dopo di lui Klausewitz avevano teorizzato e che tanti strateghi e condottieri dei tempi andati avevano applicato per pura e semplice genialità.

Credo di avere presentato in modo sufficientemente chiaro che la moderna tecnologia, l’incertezza sui nostri possibili avversari, sul tipo di territorio e di ambiente in cui la forza debba essere impiegata esigono che il mestiere delle armi non è più adatto ad un esercito di massa. Siamo tornati ai tempi antichi, a quelli dell’Età di mezzo quando la guerra era faccenda che riguardava i bellatores, i cavalieri il cui equipaggiamento costava tanto che se lo poteva permettere soltanto chi aveva una discreta disponibilità di denaro.

Le guerre probabili del futuro si combatteranno all’interno delle città e lo abbiamo già visto in Siria, in Irak, in Ucraina, nello Yemen e in tanti altri paesi. La guerra di religione che si continua a negare è quella che si addensa come nube tenebrosa al nostro orizzonte. Essa renderà le nostre città un campo di battaglia anzi di battaglie sparse su diversi quartieri o gruppi di isolati e che diffonderanno il terrore in ogni angolo, compresi i posti presidiati dalle forze dell’ordine. Le macerie diventeranno un riparo precario, ma spesso l’unico a garantire una stentata sopravvivenza come ad Aleppo, a Homs. La guerra nasce per eruzione dell’odio che rimasto compresso per molto tempo alla fine esplode con virulenza e sfogo in inutili atrocità. È l’odio crescente di genti nuove che si sono stanziate nelle nostre città creando ghetti e riserve indiane ove non vigono più la legge, i costumi e le usanze di un tempo, ma quelle imposte dai nuovi arrivati.

Le statistiche ci dicono che gli islamici in Europa sono circa trenta milioni ma, forse, questa cifra è sottostimata. In ogni caso, una minoranza di trenta milioni non è più una “minoranza”, ma è una parte della società e, considerato il suo ritmo di riproduzione, diventerà maggioranza in meno di un cinquantennio.

Queste previsioni ci dicono che parlare di eserciti di leva è, dati i tempi, assolutamente fuori luogo. Non c’è bisogno di scendere nei particolari per comprendere che in una situazione come quella sopra descritta sarebbe un suicidio contare sull’affidabilità di un esercito che non tenesse conto di questa diversità. L’esempio della Francia ove le banlieux sono luoghi impraticabili agli estranei come lascia intendere lo stesso prefisso ban che significa bando, esclusione.

Giunti a questo punto ci si chiederà giustamente che cosa fare per i nostri giovani, in considerazione che non possono essere le forze armate a supplire quel che né la società né la famiglia riescono più a garantire. L’educazione al Bene Comune è il fine e della Protezione Civile. Chi agisce per conto della Protezione Civile opera anche con intento educativo verso la popolazione che riceve queste prestazioni di solidarietà con consolazione e gratitudine. Si impara sempre da chi agisce per il bene di tutti. Si impara per desiderio di emulazione o per convinzione di operare per la comunità.

La Protezione Civile annovera spesso tra i suoi quadri ex militari di professione che apportano in seno all’organismo quella disciplina che è sempre necessaria quando si opera in gruppo. Sarà necessario, perciò, inquadrare nella Protezione Civile come  forza organica queste figure militari che si occupino di dirozzare (mi si perdoni il termine) i novellini abituandoli alla disciplina e al cameratismo, puntando a smussare quegli individualismi sempre presenti nei giovani. Non c’è quindi la necessità di scomodare le forze armate per educare al civismo i nostri giovani. Le Forze Armate hanno altri scopi e altre modalità di operare, mentre la Protezione Civile ha tutte le carte in regola per crescere assieme ai giovani che andrà ad educare.

3 commenti su “Tornare alla leva obbligatoria: serve davvero per educare i nostri giovani? – di Cesaremaria Glori”

  1. Mi spiace che nessuno paia interessato al tema.
    Forse – però – vale per altri ciò che vale per me: non ho commenti da fare, bensì soltanto da esprimere di concordare pienamente con l’Autore.
    Del fatto che i giovani siano sempre meno disposti al sacrificio (con il “contributo” delle mamme) e dell’esigenza di un addestramento serio (che non può essere richiesto da giovani di leva) parlavo meno di dieci giorni fa con un bravo paracadutista della Folgore (come quelli della fotografia) incontrato in treno e che – ovviamente – concordava con me.
    Gli raccontai che già al tempo della prima guerra del Golfo (1991), gli USA avevano ripristinato il servizio militare professionale dopo la guerra del Vietnam e negli stessi anni la anche Gran Bretagna, quanto a truppe di terra la Francia mandava non i ragazzi di leva bensì la Legione Straniera, e che l’Italia – oltre che ben… otto Tornado – non inviò reparti dell’Esercito.

    (scrivo da Pisa, ove sono presenti reparti paracadutisti e il Centro Addestramento, e ho prestato servizio di prima nomina in Artiglieria da Montagna)

  2. Sì, certamente la Protezione Civile può essere la risposta e lavoro non ne manca mai. Bisogna riconoscere che la famiglia e la scuola hanno rovinato la gioventù,in più la sinistra con il suo permissivismo. L’ingresso delle donne in ambiente militare è, a parer mio, devastante e sarebbe da abolire. Nella Protezione civile, sicuramente, possono esserci dei reparti dove la donna può dare il meglio di sè. E’ certo comunque che avendo fallito la famiglia, la Chiesa, la Scuola, cioè lo Stato, anche con tutte le associazioni ad essi direttamente o indirettamente collegati, penso ai centri sociali, non rimane che un’ultima speranza per rimediare, la Protezione Civile. Ma un anno non basta per mettere i giovani in grado di diventare gli adulti responsabili di domani. Come stanno le cose, credo che sarebbero necessari tre anni. Esiste personale adulto, moralmente esemplare, in grado di guidare gruppi di leva ( Protezione Civile) per periodi consistenti di questo tipo?

  3. Condivido molte delle argomentazioni dell’articolo, ma ho un’opinione diversa. Sono d’accordo sul servizio nella Protezione Civile, ma i giovani andrebbero comunque addestrati all’uso delle armi e al combattimento a mani nude. L’Italia, infatti, è in balia della delinquenza nostrana e di gruppi provenienti da fuori, spesso slavi ex militari. Aggiungiamoci pure la marmaglia post comuninista tipo centri sociali e le centinaia di immigrati che pretendono tutto. Dobbiamo insegnare ai giovani a difendersi e difenderci da questa massa di criminali che deturpa, opprime e offende la nostra Civiltà. Vedo quindi molto bene il modello svizzero: un esercito di popolo permanente e identitario che difende i confini e reprime i nemici interni

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