Tra ignoranza democratica e volgarità repubblicana

Riccardo Muti, il prestigioso Presidente della Repubblica che l’Italia non si è potuta permettere, qualche tempo fa, in una conversazione salisburghese, si è soffermato a lungo sulla connessione tra lo stato attuale della musica, e del teatro in musica in particolare, e il generale degrado della cultura e del costume. Una connessione che riguarda ovviamente anche ogni altra espressione artistica, o anche semplicemente estetica, e della quale forse non si avverte fino in fondo la portata.

È noto come sin dall’antichità sia stato esaltato il legame tra le Muse e ogni manifestazione superiore della vita morale e spirituale, ovvero la funzione civilizzatrice delle arti e lo scambio virtuoso per cui un popolo da un lato attinge linfa vitale da esse, dall’altro le feconda. Uno scambio virtuoso tra arti e cultura, che si rovescia fatalmente nel suo contrario appena si inneschi un qualche processo involutivo. Ed è fatale che anche un’etica degenerata produca degenerazioni estetiche in virtù di quel legame tra il bello e il buono che i greci individuarono e scolpirono con una sola parola sconosciuta ad ogni altro popolo, la kalocagathìa.

Già Vico aveva presagito che con la “ragione spiegata” della modernità si sarebbe perduta proprio quell’azione civilizzatrice delle arti, e della poesia in particolare, sulla quale gli umanisti avevano tanto insistito. Ma non poteva immaginare di certo in quale misura, specie a partire dal secondo dopoguerra, le derive ideologiche e l’ubriacatura tecnologica avrebbero travolto, con l’etica, l’educazione, la politica, il diritto, la religione, cioè, insieme ad ogni espressione delle facoltà superiori dell’uomo, anche quasi ogni attitudine e ogni norma estetica. Sicché, di fronte ai pur grandi benefici pratici di cui oggi godiamo, il dubbio sulla loro effettiva convenienza diventa ogni giorno più assillante. 

Le prime a rimanere seppellite sotto le macerie della seconda guerra mondiale sono state l’architettura e l’urbanistica, quando speculazione e ideologia hanno stretto l’Italia in un abbraccio mortale. Con ferina ottusità sono state create periferie mostruose e colpiti al cuore persino i centri storici sopravvissuti ai lungimiranti bombardamenti dei liberatori. E sono stati cancellati per sempre gli abitati costieri, specie quelli della riviera adriatica, sapientemente armonizzati col mare che li lambiva, perché il colore caldo del mattone saldava la spiaggia alla campagna, in una miracolosa e simbiotica armonia. 

Ma lo scempio edilizio doveva trovare impulso definitivo e a lungo raggio attraverso le facoltà di architettura, dove la rivoluzione culturale sessantottina portò il voto politico e l’esame di gruppo, riapparso di recente per incanto, ancora più rassicurante, alla facoltà di medicina di Torino. 

Così alla fine, se ognuno di noi è ancora libero di andarsi a cercare, nelle gallerie specializzate e persino nei musei, gli abissi di pensiero contenuti in tanta parte della cosiddetta arte contemporanea, invece il mostro architettonico ti viene comunque incontro per strada, anche se hai la fortuna di non viverci dentro, o ti mortifica e ti addolora al di là del finestrino del treno. Come pure ci vengono incontro certi indecifrabili manufatti che caricano del proprio peso concettuale le rotonde spartitraffico, ma possono ingombrare a sorpresa ameni giardini gentilizi, parchi pubblici, antichi chiostri, senza incontrare ostacoli di sorta. 

Del resto la deriva estetica seguita alla degenerazione delle idee e dell’etica comune, ha investito fatalmente la chiesa cattolica, che per secoli aveva custodito per il gregge anche la bellezza. Se l’arte cristiana ha definito con i propri contenuti religiosi una intera civiltà, le nuove suggestioni filosofiche e culturali, contaminando la stessa teologia cattolica e Il concilio vaticano II, hanno aperto la strada anche alla più devastante e inaspettata distruzione estetica dello stesso senso religioso. 

La bruttezza è entrata trionfalmente nell’edilizia religiosa, nei suoi arredi, nelle vesti liturgiche, nelle espressioni per cosi dire “musicali” del cattolicesimo aggiornato. 

Le nuove chiese non più progettate per parlare di Dio all’anima rimandano perfettamente alla desolazione morale e intellettuale corrente. Eppure, per edificare una nuova chiesa basterebbe copiare uno qualunque dei modelli già esistenti. Il meno felice di essi sarebbe in ogni caso imparagonabile con i bunker di cemento armato o con gli edifici sfacciatamente massonici spacciati oggi per chiese cattoliche. Non per nulla è ancora possibile resistere senza danni irreversibili allo sproloquio politico propagandistico del prete di turno che ha sostituito il breviario con il Corriere della Sera se possiamo raccoglierci in preghiera all’ombra di un antico pilastro o sotto l’immagine assorta di una Madonna col Bambino. Ma, per distruggere il cristianesimo, agli occhi della nuova chiesa ex cattolica tutto fa brodo. E sono solo apparentemente meno blasfeme delle geometrie massoniche le statue paganeggianti di un Vangi collocate nel cuore di una maestosa cattedrale che non ha chiesto a nessuno di essere oltraggiata. 

Va detto che, a fronte di architettura, urbanistica e arti figurative in genere, altre forme espressive come il teatro, il cinema e il teatro in musica in particolare, hanno resistito miracolosamente per qualche lustro alla distruzione estetica e culturale, traendo persino nuova straordinaria vitalità da una eccellente tradizione ancora radicata e da una straordinaria generazione di attori, registi, cantanti e musicisti ancora capaci di orientare il gusto del bello. 

ll melodramma, nato in Italia nell’epoca in cui tutte le miracolose fucine d’arte e di pensiero da Roma a Firenze, a Venezia, a Ferrara a Mantova a Napoli lasceranno una eredità culturale ineguagliabile, è diventato un’altra punta di diamante del genio di un popolo che di quella ricchezza sarà custode e giudice. È l’Italia dei cento teatri, essi stessi veri e propri gioielli architettonici, che anche ogni più piccola città di provincia ha costruito, spesso sulla piazza principale, magari di fronte alla Cattedrale. 

Un patrimonio comune, quello del melodramma, diventato di valore universale, che non ha conosciuto separazioni sociali o regionali e dopo i lutti della guerra è tornato ad essere vitale e consolatorio per quasi un trentennio. Finché anche tutta questa eredità tralatizia è stata inesorabilmente travolta dall’imbarbarimento collettivo, dal pensiero obbligatorio delle élites culturali e dal conquistato diritto alla volgarità globalizzata a trazione televisiva. Il culturame post sessantottino, dopo l’assassinio delle arti figurative e quello dell’architettura, ha divorato anche il teatro in musica, anzi, il teatro tout court. 

E qui lo scempio ha assunto una forma particolarmente proterva. Infatti, non si ha a che fare con chi in proprio uccide la bellezza e l’intelligenza, ma con chi crea mostri stravolgendo le opere altrui, quelle destinate per loro natura ad essere replicate. È la violenza perpetrata arbitrariamente ai danni dell’autore indifeso che viene tradito dall’interprete occasionale. Da uno, cioè, che invece di valorizzare al meglio i contenuti e le possibilità estetiche di un’opera, magari penetrando anche nelle sue pieghe nascoste, se ne impossessa e ne fa il banco di lancio della propria visione del mondo, immancabilmente illuminata, antifascista, anticristiana, omofila, con una particolare indulgenza verso la pornografia, mentre il nudo assoluto risolve anche il problema dei costumi quando non occorre vestire il tiranno con la divisa d’ordinanza ideologicamente corretta. 

Se c’è in cartellone un evento all’avanguardia, ovvero innovativo, sai già che la scena sarà inderogabilmente riempita con uno stuolo di diversamente sessuati, Rosina apparirà in mutande, e Attila in divisa nazistaliniana, ora che l’UE ha annunciato il dogma della equivalenza dei totalitarismi, e quello sovietico si è reincarnato nello zarismo putiniano. Insomma, oggi il teatro ha la stessa forza pedagogica della televisione, ha tutta la sua geniale forza allusiva, è mosso da idee fresche di cinquant’anni e percorso da una straordinaria vivacità intellettuale.

Eppure tutta questa paccottiglia di disarmante e spesso oscena imbecillità sembra sfuggire alla coscienza collettiva. E non è questione di istruzione. Oggi il decadimento artistico e l’impoverimento culturale, per paradosso, si accompagnano alla totale alfabetizzazione, anche se si sa, almeno per quanto riguarda i più giovani, che la scuola, invece di coltivare il pensiero, lo appiattisce sui luoghi comuni imposti dalla comunicazione globalisticamente mirata, e sforna ignoranza massificata.

Il popolo che affollava il teatro antico era per lo più analfabeta, e ciononostante era il destinatario di opere che rimangono ai vertici della creazione artistica e intellettuale. Quel popolo era perfettamente in grado di comprendere e valutare. Del resto lo stesso popolo minuto, consapevole dei tesori d’arte della propria Firenze ed educato alla bellezza, poteva farsi beffe del “Biancone” collocato in piazza della Signoria, mentre Paolo Uccello a furor di popolo fu costretto a cambiare il colore di Giovanni Acuto e del suo cavallo sulla parete di Santa Maria del Fiore. 

Oggi nessuno osa ribellarsi alla stupidità dell’agglomerato ligneo con cui il Kounellis, in omaggio alla resistenza, ha deturpato al prezzo di cento milioni di lire la politezza classica del cortile nuovo dell’ateneo patavino. Come nessuno ha potuto impedire che nella piazza adiacente l’anno passato fosse eretta da un altro artista à la page, una enorme Italia cruceiforme coperta di viscida materia rossa, a simboleggiare la supposta violenza politica perpetrata sulla penisola da un governo tirannico.

Insomma, non si sarebbe andati tanto avanti nella impostura, nello stupro di luoghi pubblici e nella più stucchevole manipolazione culturale, se tante voci si fossero levate senza mezzi termini per denunciarli. Invece vince anzitutto il timore di nuotare controcorrente. Ma spesso c’è anche di mezzo l’idea indotta dalla sicumera altrui della propria inconfessabile inadeguatezza. Molti, tacendo guardinghi e attenti a non aprire bocca per non sfigurare, col tempo, abituati a tacere, si convincono della bontà delle idee che non hanno. 

Così a teatro nessuno è capace di fischiare o arriva fornito di ortaggi adeguati alla bisogna. Né vale guardarsi intorno in cerca di solidarietà, perché, col biglietto, tutti hanno acquistato il diritto irrinunciabile di applaudire, qualunque sia l’oltraggio portato alla dignità dello spettatore. Insomma, il malnato che osasse far sentire il proprio dissenso, sarebbe crocifisso nel foyer senza poter invocare la legittima difesa. 

Per riassumere tutto questo pittoresco panorama ci voleva anche quest’anno la prima scaligera, con la sua applauditissima Tosca. Così è stato possibile udire la voluminosa protagonista, avvolta in un orrendo abito evocativo del sangue di cui si sarebbe poi debitamente imbrattata, che scambiava la dolente preghiera alla Vergine con una sorta di vibrata e accigliata rivendicazione sindacale. Poi la si è vista avventarsi sul povero Scarpia (è il caso di dirlo) vestito da federale a riposo munito di bretelle, con la furia con cui in Psyco Norman Bates pugnala sotto la doccia la propria vittima. Solo che qui la signora, nonostante fosse vissuta d’arte e d’amore e non avesse mai fatto male ad anima viva, dopo avere inferto con titanica energia più colpi dei quelli previsti dal libretto, procede ad un inedito strangolamento a mani nude del malcapitato agonizzante.

A questo punto il regista politicamente impegnato si deve essere accorto che la cosa gli era sfuggita di mano, perché in un’opera che doveva proporre alla attenzione del mondo il grande tema della violenza sulle donne di fatto sulla scena le parti risultavano quasi invertite. Così, forse, gli è parso imbarazzante dare spazio ai pur forti sentimenti religiosi della eroina, e ha accortamente soppresso la sequenza in cui Tosca, dopo il delitto, mette con pietoso gesto cristiano i candelabri accanto al morto. Politicamente corretto anche il povero Cavaradossi che, lontano dalla maschia e spavalda quanto appassionata figura disegnata nell’opera, è apparso persino effeminato a fronte della nerboruta protagonista, quasi evocando sfumature genderiste.

La claque ha applaudito troppo per non lasciare dubbi sull’ingaggio, ma altri hanno applaudito per dovere di testimonianza politica a Mattarella, al quale la Milano da bere doveva dimostrare la propria levatura civica e la propria fedeltà ideologica, dato che c’era in gioco la violenza sulle donne. Ed è probabile che anche Scarpia, per questioni lessicali, sia stato scambiato, in questo orizzonte di forti tensioni morali, per una vittima dal sesso incerto.

6 commenti su “Tra ignoranza democratica e volgarità repubblicana”

  1. La rivoluzione architettonica è, di tutte le rivoluzioni, quella di cui si sente parlare di meno e, allo stesso tempo, quella che ci ferisce e ci intossica senza scampo in ogni momento delle nostre giornate.

  2. Purtroppo la sorte ha voluto che ci toccasse di vivere l’ ultima parte della nostra vita in tempi sciagurati e in una società sconvolta, massacrata, violentata da un nefasto non-pensiero che carico di tragici antichi errori e misfatti, si è fatto prepotentemente largo nella seconda metà del secolo scorso stravolgendo tutto e cancellando ogni bellezza, soprattutto di ordine soprannaturale. Progresso e modernità prendendo il sopravvento hanno così tanto imbrigliato le menti, che anche le mostruosità appaiono originali e assolutamente fruibili. È un riuscitissimo e pericolosissimo gioco satanico che impone a chi
    per grazia non è preso da questo vortice, una preghiera intensa di riparazione e di impetrazione (sempre col soccorso della Madonna Santissima), affinché il mondo si converta e torni a Dio.
    Altri rimedi non esistono.

  3. Questo articolo è spettacolare! Congratulazioni vivissime alla Patrizia Fermani che, a mio parere, ha riassunto a chiare lettere, con bellissima prosa, il problema della Bruttezza purtroppo imperante!
    Brava e grazie!
    Anche se, temo, che ci sia da fare ben poco per invertire la rotta!

  4. Mi occupo di arte figurativa e sottoscrivo in ogni sua parte questa disamina.
    La decadenza inarrestabile dei valori estetici e di contenuto é palese e la cultura del bello e del vero é soggiogata dal pensiero insano delle élites culturali dell’arte contemporanea.
    Con le poche forze rimaste, cerco di ribellarmi a queste oscenità, ma é una guerra contro i mulini a vento.

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