Tramonto occidentale. Il giardino della cultura dove si coltivano fiori finti – di Matteo Donadoni

«Svegliati e smettila di annusare i fiori finti!» diceva il tizio del reparto ferramenta. In fondo annusare fiori finti porta in sé una rassicurante certezza da “ribasso ontologico”, non nasconde delusioni: nessun profumo, nessuna marcescenza. Nessuna vera effimera bellezza. Siamo diventati, noi occidentali, gente che annusa fiori finti, per paura di esser felici. La nostra cultura era un giardino. Qualcuno ha però pensato che fossero più economici, o più moderni, i fiori finti, così, ora rischiamo perfino di rimanere senza olfatto. Perciò non possiamo permetterci di mettere tutte le culture sullo stesso piano, chi lo vuol fare è un criminale travestito da giardiniere. Dobbiamo svegliarci, perché il nostro mondo è sotto assedio.

La cultura oggi è un problema. In un certo senso lo è sempre stato. Sin dai tempi mitici.

«Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione. (…)

Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica». (Platone, Protagora)

Solo in epoca moderna, però, la cultura viene problematizzata in modo consapevole, infatti Platone non parla di cultura, ma di virtù politica. Questa virtù politica dei filosofi non è da intendersi meramente come arte della politica, ma in senso più ampio, come sineddoche della cultura. Anche in greco moderno il termine che traduce il latino “cultura” è “politismòs”. Gli uomini hanno bisogno della cultura e dell’organizzazione politica (la politica è determinata dalla cultura, di cui è parte) perché sono creature prive di quelle doti naturali, come artigli, denti e corna, che sono immediatamente funzionali ai bisogni degli animali. Gli animali dal canto loro non scuoiano, né conciano le pelli, non cuociono il cibo, non modificano se non in maniera impercettibile l’ambiente circostante.

Ora, per quanto sostenere una cosa simile in un’epoca di stolti non fa altro che alimentare la suggestione di aumentarne il novero almeno di una unità, sosteniamo il concetto per il quale l’uomo è, invece, naturalmente un “animale culturale”, altrimenti si sarebbe estinto sin dal Paleolitico. Magari non ha artigli, né zanne, non ha forza bruta, né pelliccia, ma ha due organi, che sono stati definiti “organi degli organi”: le mani e il cervello, e cioè il pollice opponibile e la ragione. Aristotele nel De Anima (Γ, 432a) definisce la mano “strumento degli strumenti” e l’intelletto “forma delle forme” e San Tommaso (Summa Theol. I 76) sembra in qualche modo concordare.

Compito della filosofia, operazione naturale per l’uomo quanto il pensare, è porsi domande. Porsi domande è attività naturale del pensiero umano (intelligente). Nella fattispecie non ci riferiamo a domande del tipo: «Tutte le cose buffe sono poco igieniche?», ma possiamo annoverare certamente fra le numerose domande che la filosofia si è posta fin dal principio questa: «L’uomo è intelligente perché ha le mani oppure ha le mani perché è intelligente?». Dalla risposta a questa domanda, che potrebbe apparire oziosa ai più ma non lo è affatto, può dipendere l’intera nostra concezione della vita umana (e la nostra posizione in merito a temi fondamentali, mettendoci al riparo da certe superstizioni come il darwinismo o l’idea malata che un feto umano non sia una persona).

Da un frammento pervenutoci conosciamo la risposta che dà Anassagora: «l’uomo è intelligente perché ha le mani». Attraverso la dimensione manipolativa egli riesce a modificare l’ambiente, creando un habitat adatto ai propri bisogni. Ciò avrebbe fatto in modo che migliori condizioni di vita facilitassero lo sviluppo dell’intelligenza umana, con ciò che ne consegue. Potremmo definire questa una posizione gradita ai moderni evoluzionisti. Peccato che fosse già stata smentita in antico da Aristotele: «Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’avere mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti strumenti e organi e il disegno invariabile della natura nel distribuire gli organi consiste nel dare all’animale quanto sia in grado di usare […]. Infatti, è un piano migliore quello di prendere una persona che sappia già suonare il flauto e poi darle un flauto, piuttosto che prendere uno che possieda un flauto e insegnargli poi a suonare. Considerando quindi che tale è il corso migliore delle cose, e che di ciò che è possibile la natura porta sempre in atto il meglio, dobbiamo concludere che l’uomo non deve la sua intelligenza superiore alle mani, ma le mani alla sua intelligenza superiore. A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. […] La mano sembra in effetti essere non un solo strumento, ma molti strumenti al tempo stesso, è infatti, per così dire, strumento prima degli strumenti» (Aristotele, Parti degli animali, IV, 10, 687 a8-b5). D’altra parte, dal fisico non deriva il metafisico e non viceversa.

Stabilito in ogni caso che, con questi due organi, l’uomo ha escogitato (e può escogitare) infinite soluzioni agli infiniti problemi posti dalla propria contingenza, e quindi dalla vita quotidiana – che poi in soldoni si chiama sopravvivenza – possiamo agevolmente ricavare che la cultura non è qualcosa di accidentale per l’uomo, un passatempo, ma fa parte della sua stessa natura. Con questi due stessi organi, infatti, l’uomo genera la cultura. Anzi, potremmo dire che la cultura sia un “elemento costitutivo della sua essenza” (cit. Battista Mondin).

Scopo della cultura è coltivare l’uomo in quanto uomo. In senso antropologico è quello di fare di un uomo una persona, uno spirito pienamente realizzato. Per fare ciò serve tempo. Storicamente la cultura è un prodotto del tempo libero, un tempo delle classi agiate, oggi di tutti compreso quello dei molti che non sanno cosa farsene. I Greci, che erano un popolo talmente libero da prendere sul serio il tempo libero, lo chiamavano “scholè”, da cui l’italiano “scuola”. Il tempo libero era lo scopo del lavoro e non viceversa, come ai giorni d’oggi in cui non di rado si assiste al paradosso infame di una scuola che prepari per il lavoro, il cui mortale epigono è la follia dell’alternanza scuola-lavoro. Per dare una definizione imprecisa e difettosa, ma facile da comprendere: cultura è l’uso corretto e intelligente delle mani e del cervello nel tempo libero. Ergo per genere prossimo e differenza specifica la cultura dovrebbe essere la sfera dell’artificiale intrinsecamente interessante generato dall’uomo mediante l’uso intelligente del tempo libero.

Come si evince dalla radice della parola, la cultura nasce dalla religione (culto), altro bisogno primario dell’uomo. La religione è una costante onnipresente nello sviluppo del genere umano, è una manifestazione geograficamente universale oltre che diacronica, anche se non abbracciata da tutti gli uomini. Forse è per questo che il filosofo russo Nikolaj Berdjaev ha definito la cultura “forma spirituale della società”. Altra definizione.

Possiamo inoltre, e proprio per questo motivo, dire che la cultura europea sia una, oltre che unica, e il fattore unificante sia la sua religione cristiana. Se in Occidente, infatti, la cultura è stata tramandata dalla chiesa latina, in oriente questo ruolo è stato giocato da Costantinopoli (e poi da Mosca), ma sostanzialmente la cultura è la stessa. La definizione del pensatore formatosi nelle accademie zariste deriva da questa convinzione basilare incontestabile: «Il culto della Chiesa è intriso di cultura; proprio a partire dal culto e attorno ad esso è stata creata la nuova cultura della vecchia Europa». Perciò, come aveva già capito Berdjaev, che ebbe simpatie giovanili per il socialismo «tutte le rivoluzioni sono dirette contro la Chiesa e vogliono spezzarne il legame con le tradizioni della cultura antica, che sono entrate a far parte della Chiesa. E per questo rappresentano la rivolta barbarica contro la cultura». Pare che liberare la gente dal peso della cultura (che non ha) sia una fissa dei rivoluzionari di ogni dove. Ora, dato che la cultura classica venne salvata dalla mestizia dall’eternità della Chiesa e con essa eternata, appare chiaro che per salvare l’una dobbiamo salvare l’altra.

Per fare ciò, per salvare il giardino dai giardinieri cattivi, ovvero gli apologeti del multiculturalismo, è necessario conoscere l’uomo e impostare il tipo di progetto per la sua coltivazione. Operazione non banale e pericolosissima. A questo compito è preposta l’antropologia filosofica, o almeno dovrebbe esserlo. Impostare il primato dell’anima sul corpo, e il primato della dimensione spirituale interiore, che riguarda la crescita dell’essere anziché dell’avere, perché è «nella cultura che si realizzano gli scopi di una società» (Berdjaev).

Dovere di ogni società, quindi anche della nostra, è trasmettere la propria cultura. Non solo perché è «un contratto non vincola solo i vivi, ma i vivi, i morti e coloro non ancora nati», come dice Edmund Burke, ma perché la cultura è venerazione degli antenati, delle tombe e dei monumenti, legame dei figli coi padri: «nella cultura non c’è arroganza, non c’è atteggiamento sprezzante verso le tombe dei padri» dice sempre Berdjaev.

D’altra parte «è una delle superstizioni più profondamente radicate della nostra epoca che lo scopo dell’istruzione consista nell’apportare benefici a chi la riceve […] Da queste superstiziose credenze sono uscite tutte le ricette fallimentari che dominano i nostri sistemi educativi: dalla proliferazione delle materie effimere, all’aggiramento di ciò che è difficile, ai metodi didattici miranti a mantenere l’interesse a tutti i costi – anche a spese del vero sapere». Con queste lapidarie parole il filosofo inglese Roger Scruton liquida cinquant’anni di rimestamenti pseudopedagogici sessantottini che, durante il “secolo plebeo”, hanno accompagnato i sistemi scolastici dei paesi cosiddetti sviluppati lungo il declino educativo in cui si impara male di tutto e niente o quasi di quello che serve.

Democratizzare la cultura significa abbassarne il livello qualitativo, renderla sì accessibile ai più, ma renderla superficiale, svilirla, e di conseguenza rendere soli, in una vita psicologica dolorosa, i migliori individui della società, appiattiti, nell’unicità valoriale del proprio voto, alla condanna di contare solo uno, e, perciò, condannando tutti all’incapacità e all’inversione della freccia della civiltà. Chi coltiva (o impone?) questo concetto di cultura omologante al minimo comun denominatore ritiene che essa sia solo un mezzo, uno strumento dell’economia o della politica, un modo per far soldi, quando in realtà è il contrario. Perciò nelle scuole contemporanee studenti intellettualmente brillanti finiscono triturati nello schiacciasassi del metodo inclusivo che li svilisce nell’appiattimento, nella noia, nell’ideologia e nel futile.

Invece, «il vero insegnante non trasmette il sapere per il bene degli studenti, ma tratta gli studenti come se fossero un bene per il sapere. Gli importa anche degli studenti, naturalmente. Ma gli importa ancora di più del sapere, e la sua preoccupazione ultima è conservarlo affidandolo a menti che vivranno più della sua» (R. Scruton).

Ma, intanto, la nave affonda e il maestro non sa fare altro di meglio che dirigere la colonna sonora come sul Titanic. Quando va bene. Nella maggior parte dei casi, ormai, suona i bonghi.

 

5 commenti su “Tramonto occidentale. Il giardino della cultura dove si coltivano fiori finti – di Matteo Donadoni”

  1. Ci vogliono dustruggere, sia come popolo cristiano cattolico che come civiltà italiana ed europea non basata sul meticciato, sulla schiavitù dei popoli a servizio dei banchieri, dei Soros & C. e di tutti i massoni di questo mondo. Leggere per credere :http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/identita-delle-nazioni-sovrane/6924-siamo-in-guerra2.
    Vogliono spingerci alla ribellione, ala guerra civile, per poi darci la colpa mdi tutto ciò che potrà accadere quando la rabbia degli italiani esploderà come una bomba ad orologeria. Teniamoci pronti, perché non vogliono far arrivare questo governo alle prossime elezioni europee.

  2. Articolo molto bello. Complimenti all’autore.
    Le parole di Scruton sulla cultura, si possono applicare, mutatis mutandis, anche alla teoria (dottrina) e prassi (pastorale) del Cattolicesimo contemporaneo.

  3. grazie a Riscossa Cristiana, unica rivista che tratta il tema dell’istruzione e il collasso della scuola, cercando di svegliare i beoti che ballano sul Titanic. Ci accorgeremo presto, già ci stiamo accorgendo, del vuoto che stiamo scavando alle generazioni future. Continuate a parlarne! È un’opera meritoria anche se purtroppo isolata.

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