UN GIORNALISTA SPAGNOLO NEGA ASSURDAMENTE I MERITI DI GIORGIO PERLASCA, L’AUDACE ITALIANO CHE A BUDAPEST NEL 1944-45 SALVO’ TANTI EBREI PERSEGUITATI – di Paolo Pasqualucci

di Paolo  Pasqualucci

vedi anche: “Giorgio Perlasca e Giovanni Palatucci, due eroi di un’Italia migliore“, di Giovanni Lugaresi

 

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Sul Corriere della Sera del 10 aprile 2013, il corrispondente da Madrid, Andrea Nicastro, a p. 31 (“Quello schiaffo al mito di Perlasca”) ci informa dell’apparizione di un libro del giornalista spagnolo “d’inchiesta” Arcadi Espada:  “En nombre de Franco.  Los héroes de la embajada de España en el Budapest Nazi”, Espasa, pp. 272, E. 19,90, nel quale verrebbe distrutto “il mito” di Giorgio Perlasca (1910-1992), l’italiano che, nella tragica Budapest del 1944-1945 (quando Hitler, arrestato l’ammiraglio Horty che aveva tentato di arrendersi ai russi,  aveva installato al potere, il 15 ottobre 1944, i fanatici nazisti ungheresi delle Croci Frecciate o Nyilas), riuscì in due mesi e mezzo a porre in salvo alcune migliaia di ebrei spacciandosi anche per “incaricato d’affari” dell’ambasciata spagnola, rimasta ad un certo punto senza il titolare effettivo.  Il vero “eroe” sarebbe stato “l’ambasciatore Angel Sanz Briz” e non il nostro connazionale.  La storia di Perlasca è nota ed è così riassunta da Nicastro.  “Ex volontario nella guerra civile spagnola dalla parte dei franchisti […] di fronte al dramma della deportazione e dello sterminio  sistematico organizzato dai nazisti, decide di cambiare campo [era stato sorpreso dall’8 settembre a Budapest ma non aveva aderito alla R.S.I.].  In poche decisive settimane, si spaccia per console spagnolo, compila liste di veri o falsi ebrei sefarditi, salvando così migliaia di ebrei destinati ad Auschwitz.  Si è calcolato fossero almeno 5.200” (ivi).  Invece, per il giornalista Espada, “anche volendo, Perlasca non avrebbe potuto avere quel ruolo di punta che si attribuì.  Non parlava ungherese né tedesco e per convincere gli aguzzini a rilasciare gli ebrei prigionieri avrebbe comunque avuto bisogno di un interprete, che invece non cita mai.  Secondo Espada, l’uomo chiave per le trattative era nei fatti Zoltán Farkas, avvocato ungherese dell’ambasciata spagnola, padrone sia delle lingue necessarie  sia delle conoscenze legali per scavalcare gli ostacoli burocratici e formali che sorgevano ad ogni retata, perquisizione, arresto.  Ma soprattutto la mente del salvataggio delle deportazioni fu Ángel Sanz Briz, ambasciatore spagnolo in Ungheria, già fra i Giusti delle Nazioni dagli anni Sessanta proprio per questo suo ruolo.  Il diplomatico spagnolo – sostiene sempre Espada nel resoconto di Nicastro – fu colui che permise all’ambasciata in Ungheria di lavorare a favore degli ebrei, di fornire passaporti e lasciapassare.  Perlasca, da solo, non avrebbe potuto fare nulla.  Chiariamoci:  l’italiano resta un eroe, perché decise di restare a Budapest in giorni pericolosissimi.  Di certo aiutò gli altri funzionari.  Magari anche solo procurando il cibo necessario.  Però non fu l’eroe solitario che volle far credere.  Per quanto si spacciasse per un Zelig superdotato, che tiene testa a politici e miliziani assieme, non ne aveva la capacità.  Anche quando l’ambasciatore lasciò la sede, erano i suoi funzionari a trattare con le autorità filotedesche, racconta Espada, documenti alla mano.  Anzi, siccome da buon diplomatico Sanz Briz obbedì agli ordini del suo governo, è corretto affermare che è stato il dittatore Francisco Franco a salvare gli ebrei”.  Perciò, secondo Espada, come riferito da Nicastro:  “Perlasca fu sostanzialmente un millantatore, un eroe postumo, costruito a tavolino cinquant’anni dopo i fatti, sfruttando la scomparsa di ogni altro protagonista.  Uno che si appropriò dei meriti altrui per costruire il proprio monumento.  Monumento che Espada smonta pezzo a pezzo…” (ivi).

1.  Non è vero che Perlasca abbia taciuto i meriti di Sanz Briz e della politica di Franco verso gli ebrei ungheresi. Chi, come il sottoscrito, è andato a rileggersi:  Giorgio Perlasca, L’impostore,  con Introduzione di G.Lugaresi, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. IX-XXII, 193, testo che raccoglie tutto quanto scritto da Perlasca sulle sue vicende di Budapest, non può che restare sbalordito di fronte alle accuse del giornalista spagnolo.  Infatti, Perlasca vi loda  la razionalità e l’efficienza  con le quali l’ambasciatore Briz aveva organizzato le otto “case protette” in affitto, in ognuna  delle quali il Governo iberico ospitava ebrei ungheresi di origine spagnola (o sefarditi), giovandosi di una legge spagnola degli anni venti che aveva restituito loro la nazionalità spagnola. Perlasca afferma chiaramente  più volte di essersi inserito, con il suo contributo fuori dalle regole diplomatiche tradizionali, nel sistema di “protezione” organizzato dal diplomatico spagnolo e dai suoi funzionari.  E di aver agito sempre in stretta intesa, oltre che con Sanz Briz, con l’esperto avvocato Zoltán Farkas, legale dell’ambasciata spagnola da venti anni. E con la signora Tourné, esperta segretaria dell’ambasciata, oltre che con altri membri del personale dell’ambasciata o ad essa collegato e persino con rifugiati ebrei ivi residenti. A proposito della politica di aiuto agli ebrei da parte del generalissimo Franco, nella breve pubblicazione apparsa sulla stampa nel 1992 poco dopo la morte di Perlasca, dedicata proprio al commosso ricordo di Farkas – “amico, legale, consigliere, moderatore” – perito accidentalmente quanto tragicamente  all’arrivo liberatore ma distruttore dei russi, Perlasca ricorda  un episodio avvenuto la notte di S. Sivestro del 1944 mentre infuriava la Battaglia di Budapest tra sovietici e tedeschi ed ungheresi, durata due mesi e finita a metà del febbraio 1945, con la completa occupazione russa della città:  “La notte di S. Silvestro si placarono i combattimenti e cannoneggiamenti e la città piombò in un perfetto silenzio, allora facemmo un po’di salotto e anche ballammo:  a mezzanotte sturammo alcune bottiglie e io proposi un brindisi per il generale Franco e per il popolo spagnolo.  Tutti aderirono all’infuori dell’italiano E.N. [uno dei pochi italiani tra i rifugiati], che se ne venne fuori con questa frase:  “Questo brindisi è un’offesa per tutti noi e al nome dell’assassino Franco io sputo”, e fece seguire alle parole l’atto.  Io gli risposi:  “Se ti brucia d’aver salva la vita a seguito degli ordini che il generale Franco ha a suo tempo emanato [per salvare gli ebrei ungheresi] non hai che da uscire da questo edificio [di proprietà della Spagna] e porti sotto la protezione dei tuoi amici [sovietici]”.  Ma Farkas fu preso da una tale ira che si lanciò contro il N., lo colpì e dovemmo separarli”.  Calmatosi, Farkas mi disse:  “Ecco cos’è la riconoscenza umana, i beneficiati si rivoltano contro i propri benefattori” (Zoltán Farkas, in L’impostore, pp. 129-155; p. 129, 147).   L’episodio avvenne di fronte a parecchie persone.

2. Non ha senso affermare che la narrazione di Perlasca sia stata da lui costruita a tavolino, cinquant’anni dopo, quando gli altri protagonisti erano morti.    Il libro L’impostore contiene sette scritti di Perlasca, i cui originali dattiloscritti sono in possesso della famiglia.  I cinque più brevi approfondiscono aspetti ed episodi singoli. Uno di essi è dedicato alla figura di Zoltán Farkas. Risalenti presumibilmente agli anni sessanta, l’autore li tenne nel cassetto e furono pubblicati tutti nel 1992 poco dopo la sua morte, sulla stampa di area cattolica (L’impostore, p. XXIII).  Degli altri due, il primo e più lungo è costituito dal fondamentale Promemoria, steso da Perlasca poco dopo la fine della guerra, alla fine del 1946,  “sull’opera svolta da Giorgio Perlasca in Ungheria a favore dei perseguitati politici e razziali (redatto su richiesta dello scrittore ungherese Jenő Lévai)”, intellettuale ebreo che all’epoca stava indagando su quei tragici eventi (L’impostore, pp. 5-77).  Esso fu pubblicato in ungherese nel 1989, tre anni prima della morte di Perlasca, sotto forma di diario, in un volume intitolato Az olasz Wallenberg [Il Wallenberg italiano], dello scrittore László Elek (op. cit., p. XXIII).  Alla fine del suo Promemoria, l’autore annotò:  “Ho scritto questi appunti in fretta e direttamente a macchina, pertanto tutto il racconto è incompleto e slegato.  Ma a Budapest si possono trovare migliaia di persone in grado di dare particolari e raccontare episodi” (op. cit., p. 77).  Ma quasi un anno prima, il 13 ottobre del 1945, Perlasca aveva inviato da Trieste una dettagliata Relazione al ministro degli Affari Esteri in Spagna, conservata anch’essa in copia dattiloscritta dalla famiglia e pubblicata per la prima volta nel volume del Mulino (pp. 159-193).  Copia della Relazione era stata inviata dal suo autore anche al Ministero degli Esteri italiano.  Nessuno dei due Ministeri accusò mai ricevuta. Nella Relazione, ”rigorosamente, Perlasca dava conto all’autorità spagnola non soltanto degli avvenimenti, dell’opera svolta, bensì anche “rendiconto” del materiale, delle carte burocratiche, dei fondi esistenti nella sede diplomatica iberica di Budapest al momento della partenza del rappresentante ufficiale, momento nel quale egli, Perlasca, gli si era sostituito per portare avanti quell’opera umanitaria già in corso” (L’impostore, p. XXI).  Confrontando i due testi, si vede che quanto affermato nel Promemoria, fatti salvi lo stile e l’ovvia assenza di diversi particolari, coincide con la Relazione, anche se quest’ultima appare più sintetica, come scrive lo stesso Perlasca, nella lettera a Paolo Vita-Finzi (vedi infra).  Allora: avendo Perlasca documentato in modo circostanziato la sua vicenda poco dopo la fine della guerra con ben due documenti, inviati a pubbliche autorità e al vaglio di protagonisti e testimoni dei fatti ancora viventi, in Ungheria e in Ispagna, come si fa a dire che le sue imprese sarebbe invece il risultato di una costruzione a tavolino, fatta tanti anni dopo i fatti, approfittando anche della morte degli altri protagonisti?  La contraddittorietà, l’inconsistenza radicale della tesi del “giornalista d’inchiesta” non ha bisogno di commenti.

3. Il “Promemoria” di Perlasca fu confermato dai testimoni dei fatti. È stata trovata tra le carte dell’ambasciatore Paolo Vita-Finzi, scrittore oltre che diplomatico, una lettera accorata ed amara di Perlasca, il quale, trovatosi in gravi ristrettezze (“sono sull’orlo della catastrofe”), gli si rivolgeva nonostante fosse in pensione, forse in quanto ebreo, chiedendo aiuto.  La lettera è del 22 aprile 1970, da Padova, ed è stata pubblicata dalla rivista Nuova Storia Contemporanea, n. 6, 2002, pp. 131-132, con una breve prefazione di Alberto Indelicato, pp. 125-130, intitolata:  Perché fu ignorato Giorgio Perlasca, l’”impostore” che salvò gli ebrei.  In essa, Perlasca narrava la genesi del suo Promemoria.  “Non so [se] Le inviai a suo tempo anche i due libri dello scrittore ungherese Lèvai Jeno sulla persecuzione degli ebrei, scritti nel 1946 e nei quali ha parlato succintamente anche di me.  Verso la fine del ’46, a mezzo di Muzio Cosulich di Trieste [uno degli ebrei salvatosi con il suo aiuto, cfr. Marián e Raul, ne L’impostore, pp. 99-106; p. 102], mi chiese un promemoria che doveva servirgli per un terzo volume.  Io gli mandai una relazione di 57 pagine fittamente dattiloscritte [è il testo pubblicato dal Mulino], dove, essendo più sereno in quei momenti, raccontai le cose in maniera dettagliata:  mi fece sapere che era entusiasta del promemoria che avrebbe sviluppato nel nuovo volume.  Diceva che quanto io avevo scritto corrispondeva a quello che lui era venuto a sapere intervistando molte persone:  ho sentito poi che era stato arrestato dai comunisti nel ’47 e non si seppe più nulla di lui.  Sono in possesso di una copia del promemoria”(sottolineatura mia).  Dunque:  lo scrittore ebreo ungherese, purtroppo scomparso nei gironi infernali di Stalin, aveva ovviamente fatto i suoi controlli e faceva sapere a Perlasca che i fatti da lui narrati nel Promemoria erano confermati dalle dichiarazioni “di molte persone”.  Nel 1946, a Budapest, erano evidentemente ancora in tanti a ricordarsi  molto bene di come erano effettivamente andate le cose.

Nel prosieguo della lettera, Perlasca si lamentava in toni piuttosto aspri dell’umana ingratitudine. A Budapest egli  aveva perso tutto ciò che aveva guadagnato con la sua proficua attività di commerciante che importava carni dai Balcani e poi dall’Ungheria in Italia.  Infatti, l’artiglieria tedesca aveva incenerito la villa Széchényi di proprietà della Spagna, dove ne teneva la maggior parte mentre aveva  speso il resto (del valore di circa 2 milioni di lire dell’epoca) per provvedere alle esigenze degli ebrei “protetti” nelle case affittate all’uopo dal Governo Spagnolo.  Alla fine, era rimasto in miseria (“Tutte le mie speranze sono andate distrutte, ero diventato un pezzente!”)(Lettera di Perlasca, cit., p. 132).  “Il Ministero degli Esteri spagnolo non si è degnato nemmeno di accusare ricevuta ed ha lasciato che io pagassi l’auto Santelli [di un suo amico di quel nome, andata distrutta nell’incendio della villa] usata per la sua Legazione di Budapest.  E sì che ho tenuto alta la bandiera di Spagna.  Il Ministro degli Esteri italiano idem […] Sanz Briz non si è più fatto vivo; probabilmente soddisfatto di quanto avevo scritto e detto sul suo conto ha ben pensato che non servivo più a niente e non ha mai risposto”(ivi).  Soffermiamoci su questo passaggio.  Sanz Briz doveva esser rimasto “soddisfatto” di quanto Perlasca “aveva detto e scritto sul suo conto”.  Ma, alla data del 1970,  in quale testo Perlasca, a conoscenza di Sanz Briz, poteva aver elogiato il comportamento dello stesso Briz?  Non poteva trattarsi che della Relazione inviata al Ministero degli Esteri di Madrid.  Il volume del Mulino è del 1997 e Alberto Indelicato ricorda che l’interesse internazionale per Perlasca si manifestò solo “verso la fine del 1987 [quando] alcune donne ebree di Budapest si misero alla ricerca del diplomatico spagnolo che nel 1944-45 le aveva salvate dalla deportazione e quasi certamente dalla morte mettendole sotto la protezione della sua ambasciata.  Si rivolsero alle autorità di Madrid, ma il diplomatico spagnolo [appunto “Jorge”, Giorgio] non fu trovato…”(art. cit., p. 125).  Nota bene:  si ricordavano di un diplomatico spagnolo di nome Jorge :  solo di lui, non di altri, come loro salvatore. Forse è a causa di questo tardivo interesse che il Promemoria di Perlasca è apparso solo nel 1989, in ungherese (vedi supra), a quasi cinquant’anni di distanza dai fatti.

4.  Riconoscimenti di Perlasca a Sanz Briz nella “Relazione” inviata in Ispagna. Ma vediamo i riconoscimenti tributati da Perlasca a Sanz Briz.  “L’indomani, 2 dicembre [1944, dopo che Briz aveva lasciato la legazione], mi dedicai allo studio della questione della protezione in tutti i suoi aspetti, insieme con l’avvocato Farkas, esaminando tutte le note verbali e gli altri documenti che erano stati in precedenza scambiati con il Ministero degli Affari Esteri ungherese, e i rapporti che il signor Sanz Briz aveva inviato a Madrid.  Dall’esame di questi documenti constatai che nelle trattative future con gli organi del governo  ungherese e del partito [nazista ungherese] non mi restava che continuare secondo le direttive tracciate dal signor Sanz Briz.  Infatti la questione della protezione degli ebrei era stata da lui impostata con impareggiabile abilità, intelligenza e fermezza, e non mi ci soffermo, perché è certamente nota a V.E., nei suoi particolari” (Relazione, in op.cit.,  p. 165. Sottolineatura mia).  Un ulteriore elogio al modo lineare ed efficace nel quale Sanz Briz aveva organizzato “la protezione”, con  criteri nettamente migliori di quelli adottati dalle altre ambasciate, si trova a p. 171 della medesima Relazione.  Fama usurpata, allora, quella di Perlasca, costruita a tavolino cinquant’anni dopo i fatti, sottacendo scorrettamente i meriti altrui, a cominciare da quelli dell’ambasciatore Briz?  Il fatto, poi, che nella lettera a Paolo Vita-Finzi, Perlasca critichi Briz non rappresenta una contraddizione.  Infatti, nella Relazione, egli loda il modo valido e competente con il quale il diplomatico spagnolo aveva organizzato e impostato la “protezione”: un vero modello, che Perlasca aveva mantenuto, per quanto stava a lui, cercando anche di migliorarlo.  La critica riguardava il fatto che Briz, come gli altri diplomatici, non sarebbe mai stato capace di tentare audaci iniziative fuori dagli schemi, necessarie in quei momenti  così tragici.  Perlasca, anche per difendere il suo operato atipico (imposto dalle eccezionali circostanze) scrive che “occorreva una diplomazia d’azione”, come quella dell’eroico svedese Wallenberg, che non era un diplomatico di carriera e fu poi eliminato in segreto dai sovietici, secondo i consolidati sistemi staliniani; persona che lui conosceva e ammirava.  Azione fatta di contatti continui ed anticonformisti con le autorità, prendendo sempre l’iniziativa e servendosi, se del caso, anche dell’arma del denaro “per corrompere i fanatici” (denaro, nella fattispecie, suo di Perlasca).  Cose inconcepibili per un diplomatico di scuola tradizionale. “Lui [Sanz Briz] era un diplomatico orgoglioso che al massimo andava al Ministero Esteri; lui non aveva mai vedute le nostre case e non avrebbe mai fatto un passo per salvare una vita umana, che fosse fuori dal giro tradizionale delle note [diplomatiche].  Del resto così hanno fatto tutti gli altri diplomatici:  io ero guardato con meraviglia quando dicevo che andavo nelle ceke [le prigioni dei nazisti ungheresi], che ogni giorno visitavo le case protette, che avevo continui contatti con polizia, partito ecc.  Solo Wallenberg tentava di fare una diplomazia d’azione…” (art. cit., p. 131).  Il “valoroso dr. Wallenberg” è citato più volte da Perlasca, anche nel Promemoria (p. 23, 37, per esempio).

5.  È pazzesco affermare che Perlasca  non abbia mai nominato la presenza di un interprete.  Sembra di capire che questo sia uno dei cardini delle accuse di Espada:  Perlasca, non parlando né tedesco né ungherese “avrebbe avuto bisogno di un interprete, che invece non cita mai”.   Non lo cita mai?!  Apriamo il Promemoria a p. 56:  “Il giorno 26 [Dicembre 1944] di buon mattino mi recai con l’avvocato Farkas (avevo bisogno di lui come interprete perché i militari di solito non conoscono lingue estere) al comando piazza sito nell’Andrássy ut. [via Andrássy], nel palazzo delle Ferrovie, mi pare.  Parlammo con un colonnello etc.”(corsivo mio).   Ma Espada, non si è accorto di questo passo?  Questo passo, da solo, non fa piazza pulita del castello accusatorio da lui costruito?

6.  Non è vero che Perlasca non parlasse il tedesco.  E quali erano le “lingue estere” che i militari “di solito non conoscono”?  Si trattava, nella fattispecie, del tedesco, lingua della quale Perlasca si serviva in prevalenza nei suoi contatti con le autorità ungheresi.  La cosa risulta espressamente da un altro passo del Promemoria:  “Arrivò Vajna [uno dei capi dei nazisti ungheresi]; pareva impossibile che un uomo dall’aspetto sì distinto e gioviale potesse essere l’anima di un regime di terrore.  Ci ritirammo subito in un piccola saletta adiacente la sala delle segnalazioni aeree.  La conversazione durò circa due ore e fu alquanto faticosa perché Vajna parlava un tedesco peggiore del mio; comunque ci spiegammo anche troppo chiaramente”(op. cit., p. 64.  Corsivo mio).  Dunque, Perlasca, riferendosi ad un episodio preciso, ci rende noto che conosceva il tedesco in modo sufficiente a farsi comprendere dai suoi interlocutori e a comprenderli.  In un altro dei brevi scritti raccolti nel volume del Mulino, quello intitolato Natale del 1944, egli ricorda di essersi servito anche del francese:  “siccome si parlava in francese [forse per non farsi capire, vedi il contesto] chiesi di chi era e Mérő candidamente disse etc.”(op. cit., p. 108).  Nell’episodio intitolato “Lily”, pubblicato anch’esso poco dopo la sua morte, così descrive l’incontro casuale in treno, sulla linea Trieste-Milano, con una bambina ebrea ungherese salvatasi nelle case protette, diventata nel frattempo una graziosa giovane donna, nel marzo del 1957:  “ uscii nel corridoio e vi trovai la ragazza [che poco prima lo aveva insistentemente guardato dal corridoio] assieme ad un’altra signorina e a due giovanotti.  La “mia” ragazza mi guardò ancora sorridendo e poi ritornò a parlare con i suoi compagni.  Usavano la lingua ungherese:   mi avvicinai e seppi da loro che venivano dalla Jugoslavia.  Feci loro sapere che ero stato parecchi anni in Ungheria e loro precisarono per bocca della “mia” che avevano combattuto contro i russi [si trattava dell’insurrezione nazionale del 1956] e che l’ultimo giorno erano riusciti a scappare attraverso i cuniculi della stazione Keleti e di là, raggiunta la campagna, dopo due giorni di fuga avevano potuto passare il confine jugoslavo:  ora andavano in Canada, erano ebrei e speravano di rifarsi una vita in quel lontano paese” (op. cit, Lily, pp. 89-97; p. 97).  Una delle due ragazze si rivelò essere la bambina “Lily” da lui salvata a Budapest.  Ma ciò che interessa qui è il fatto che Perlasca riporti di aver nell’occasione compreso l’ungherese e di averlo verosimilmente parlato.

Doppiamo pensare che mentisse, nello scrivere tutte queste cose?  E a che scopo?   Ma dovrebbe aver mentito sempre, sin da quando scriveva il Promemoria, il cui contenuto è stato verificato dalle interviste del povero Jenő Lévai  e di sicuro anche dalle donne ebree ungheresi che si sono messe alla sua ricerca nel 1988!  Ma allora, potrebbe chiedersi qualcuno, se conosceva l’ungherese, perché parlava in tedesco con i capi nazisti ungheresi?  E perché con il suo amico Farkas parlava in puro castigliano e non in ungherese?  “Farkas ed io potevamo parlare a lungo:  ci intendevamo bene perché io ammiravo in lui l’uomo di grande cultura e di elevati pensieri; lui mi si era affezionato perché diceva che avevo tutte le qualità del capo […].  Inoltre parlavamo, ambedue, perfettamente lo spagnolo puro senza licenze dialettali”(Zoltán Farkas, cit., op. cit., p. 148).   Consideriamo attentamente.  Lo spagnolo, Perlasca l’aveva evidentemente imparato bene in Ispagna, durante la guerra civile, cosa non troppo difficile per un italiano.  È dal suo Promemoria che apprendiamo aver egli lavorato nel commercio delle carni dal 1941 a Zagabria, Belgrado e altre zone dei Balcani (Promem., p. 5).  Sicuramente si sarà servito del francese, notoriamente lingua franca a quei tempi nell’Est e Sud-Est europeo, assieme al tedesco.  Afferma poi di aver continuato la sua attività in Ungheria dall’ottobre del 1942, effettuando “lunghe permanenze a Budapest, Sopron” e altre  cinque città di quel paese.  Sino al 19 marzo 1944 abitò a Budapest, e vi tenne ufficio al sesto piano dell’Hotel Astoria (ivi).  Svolgendo intensa attività commerciale nell’Ungheria del tempo, uno straniero si poteva servire senza particolari problemi del tedesco, che era la seconda lingua degli ungheresi, in genere capito da tutte le persone istruite e parlato da molti, almeno nell’ambito civile.  Ma è pensabile che, dopo circa due anni di permanenza attiva nel paese, Perlasca – un uomo d’affari – non  sapesse una parola di ungherese?  Sulla base dei documenti, è del tutto ragionevole ritenere che egli conoscesse un tedesco da uomo d’affari, funzionale al suo lavoro, e che possedesse una conoscenza elementare dell’ardua lingua ungherese, non sufficiente per discorsi complessi e articolati ma sicuramente bastevole per brevi conversazioni come quella avvenuta nel treno Trieste-Milano.  Inoltre, come uomo d’affari che vi operava in pianta stabile, doveva pur esser capace di orientarsi nella terminologia economico-burocratica e anche giuridica dell’ordinamento ungherese.  Il fatto che parlasse in “spagnolo puro” con l’avvocato Farkas non dimostra nulla a favore della “tesi” di Espada.  Visto che il suo amico conosceva così bene quella lingua, nella quale Perlasca si sentiva perfettamente a suo agio, che bisogno c’era di ricorrere con lui al difficile periodare del tedesco, come doveva fare con i capi Nyilas?  Perlasca non era affatto persona sprovveduta o inesperta.  Né un avventuriero. Stava cercando di costruirsi un solido futuro personale grazie al commercio.  Aveva combattuto come ufficiale e volontario in Etiopia e in Ispagna (L’impostore, p. XIII).  Forse a quella dura scuola aveva appreso lo sprezzo ragionato del pericolo, dimostrato poi nelle vicende di Budapest, quando affrontava, cosa confermata dalle testimonianze, i miliziani delle Croci Frecciate o gli ufficiali tedeschi, con l’interprete o da solo.  Era un uomo d’affari trentenne, ancora giovane ma già con un’esperienza cosmopolita, abituato a trattare con le persone più diverse.  Aveva conoscenze utili in diversi ambienti, come si intuisce dal suo stesso Promemoria.  Non era un intellettuale né uno scrittore ma un uomo d’azione.  Che fosse lucido e rapido di riflessi, lo dimostra già il fatto che, la sera stessa dell’8 settembre del 1943 “e il giorno successivo”, aveva fatto bloccare alla frontiera ungherese vagoni merci che portavano in Italia le carni della sua ditta, per evitare che i tedeschi le sequestrassero (Promem., p. 5).

7.  È inconcepibile sostenere che Perlasca volesse far credere di aver fatto tutto da solo:  oltre all’operato di Sanz Briz egli menziona spesso la sua  continua e proficua collaborazione con Zoltán Farkas e con altre persone. Abbiamo già visto i riconoscimenti da lui tributati a Sanz Briz.  Ma sono molto più ampi quelli nei confronti del suo grande amico Farkas, splendida figura di uomo e patriota, al quale, nel volume pubblicato dal Mulino, è dedicato lo scritto innanzi menzionato (pp. 129-155). “Mi preparò tutti i documenti utili con entusiasmo e precisione, per quanto esprimesse sovente dubbi e paure [di fronte alle iniziative diplomaticamente arrischiate di Perlasca, che avrebbero potuto portare tutti di fronte al plotone di esecuzione].  Fu presente a tutte le trattative:  la sua scuola diplomatica, la sua conoscenza del diritto internazionale, la sua innata gentilezza lo facevano impallidire quando mi lasciavo andare a sfuriate e minacce con i miei interlocutori  [in nome dei principi di civiltà difesi dalla Spagna, che proteggeva gli ebrei, egli minacciava ritorsioni politico-diplomatiche da parte del governo spagnolo, che da parte sua ignorava del tutto la sua esistenza].  Per calmare le sue apprensioni gli dicevo che i nostri nuovi interlocutori [i Nyilas] nulla sapevano di diplomazia e di diritto e che bisognava trattarli come fornitori che volevano rifilare merce non conforme ai patti”(op. cit., p. 134. Corsivi miei). Ricordiamoci di come Perlasca si fosse trovato coinvolto nell’amministrazione delle  otto “case protette” del Governo spagnolo.  Dopo l’8 settembre, avendo voluto mantenere la sua fedeltà al re, fu inizialmente internato e sfuggì per un pelo all’arresto da parte dei tedeschi.  Come ex-combattente “legionario” nella Guerra di Spagna aveva ricevuto un attestato del Governo spagnolo nel quale si dichiarava:  “Caro Camerata, in qualsiasi parte del mondo tu ti troverai, rivolgiti alla Spagna” (L’impostore, p. XIX).  Così si rivolse all’ambasciata spagnola di Budapest, chiedendo un passaporto spagnolo, che si impegnava a restituire, una volta raggiunto il Regno del Sud, via Spagna (Promem., p. 6).  Il primo segretario Sanz Briz, che dirigeva l’ambasciata, superata un’esitazione iniziale, lo aiutò, lo nascose nella  già menzionata villa Széchényi e dopo peripezie varie gli diede passaporto spagnolo, cittadinanza, “tessera diplomatica” (ivi, pp. 9-10). Non appena ottenuta quest’ultima, che ne faceva un “diplomatico spagnolo”, il 1˚ novembre 1944, scrive, “mi misi a disposizione di Sanz Briz per l’organizzazione della protezione degli ebrei […]  Sanz Briz mi rilasciò la patente di funzionario permanente della legazione e quella di amministrazione delle case protette; mi voleva anche fissare uno stipendio che rifiutai essendo molto ben provvisto di danaro e di valori.  A parte un giovane disertore della Divisione Azzurra spagnola [di volontari, in ripiegamento con tutto l’esercito tedesco], ero il solo cristiano della legazione e quindi l’unico che potesse circolare liberamente e prendere contatto con le autorità;  il giovane spagnolo mi aiutò i primi giorni e poi partì per la Spagna” (ivi, pp. 10-11.  Corsivo mio).  Perlasca iniziò una politica di continue richieste nei confronti delle autorità, appoggiata da Briz con una costante azione diplomatica (pp. 15-17).  “D’accordo con Briz”, precisa, l’azione era condotta sulla base di principi giuridici oltre che umanitari.  Poiché gli ebrei ungheresi erano ormai considerati dei paria senza diritti, “il governo spagnolo si riteneva in diritto di concedere ad un certo numero di essi la cittadinanza spagnola”.  Il “governo spagnolo” asseriva anche che “molti ebrei residenti in Ungheria erano di origine spagnola, ai quali la Spagna riconosceva sempre la nazionalità, mentre altri venivano considerati legati alla Spagna da vincoli di parentela, culturali, commerciali, artistici etc.” (p. 21).  Si trattava di argomenti labili, dal punto di vista strettamente giuridico, come ognun può vedere.  Ma Briz approvò questo modo di argomentare, sottolinea Perlasca, e lasciava fare anche quando l’italiano si lanciava in “incredibili bluff” (“approvò questo e altri miei bluff”), come quando affermò addirittura che “il governo spagnolo considerava la lettera di protezione una vera concessione di cittadinanza alla quale mancava la definitiva ratifica di Madrid, ma ciò era una questione puramente burocratica che riguardava soltanto la Spagna” (ivi, p. 21).  L’importante, annota Perlasca, era far vedere che l’ambasciata spagnola difendeva sempre con puntiglio i suoi “protetti” e le sue “case di protezione” .  Il principio cui si ispirava Perlasca era il seguente:  “Avevo creduto di capire che il miglior mezzo per assicurare una efficace protezione ai nostri ebrei era il continuo ostentato interessamento” (ivi, p. 37).

Come si vede, Perlasca dichiara pubblicamente e senza mezzi termini di aver svolto la sua attività sempre con l’approvazione di Sanz Briz.  Ma  il generalissimo Franco giustamente non voleva riconoscere de iure il governo dei nazisti ungheresi, che premevano invece in tal senso.  Quando la pressione divenne troppo forte,  Sanz Briz si trasferì  all’ambasciata spagnola di Berna, senza chiudere formalmente la Legazione (ciò avvenne il 1˚ dicembre 1944, con i russi ormai alle porte di Budapest).  La Legazione spagnola fu quindi affidata ai funzionari e la protezione dei suoi interessi al ministro svedese (che però non fu particolarmente attivo, secondo Perlasca).  A Perlasca Briz disse, prima di partire, rispondendo ad una sua precisa domanda:  “Regolatevi come meglio credete a seconda delle circostanze” (Promem., pp. 22-23).  Così Perlasca riassume la situazione, il 1˚ dicembre, dopo un mese di attività agli ordini di Sanz Briz.  “Non è il caso che io racconti qui tutti gli interventi fatti a favore di singole persone.  A Budapest si possono avere informazioni dagli stessi beneficiati. Calcolo che durante il tempo della mia attività mi fu possibile di fare uscire dalle prigioni nyilas oltre cinquecento ebrei i quali con tutta probabilità erano destinati a morire.   Con circa tremila protetti [invece dei trecento formalmente autorizzati dalle autorità] si arrivò al 1˚ dicembre […]  Quel giorno la situazione interna della legazione di Spagna era la seguente:  la cancelleria era retta dalla signora Tourné, israelita, di nazionalità francese, impiegata della legazione da oltre venticinque anni, coadiuvata dal figlio Gastone e da una decina di impiegati volontari, d’ambo i sessi, scelti tra i primi ebrei che si erano posti sotto la protezione della Spagna; a tali impiegati era inibita l’uscita dall’edificio [per ovvi motivi] ed avevano compiti puramente ausiliari.  Tutto passava attraverso la signora Tourné [“che amministrava i pochi mezzi della legazione con ammirevole scrupolosità”, op. cit., p. 18] e tutti i documenti erano riveduti da Sanz Briz.  Il signor Gastone Tourné era uscito parecchie volte, nei primi tempi, per il recupero dei protetti, ma poi si era dovuto rinunciare alla sua collaborazione esterna per non esporlo a gravi pericoli. (Il recupero dei protetti era dovuto al fatto che prima ch’io mi interessassi alla questione non vi era in legazione alcuno che potesse, con sicurezza personale, far rispettare le lettere di protezione; così nei primissimi giorni molti erano stati razziati [dai Nyilas] e siamo andati a prenderne persino alla frontiera con la Germania [da notare il “siamo andati”])[…].  Viveva pure in legazione [con la famiglia] l’avvocato Zoltán Farkas da oltre vent’anni legale della rappresentanza spagnola; fino al 1˚ dicembre i miei contatti con lui non furono molti perché Farkas aveva il compito di aiutare Sanz Briz nelle questioni legali-diplomatiche e fargli da interprete” (Promem., pp. 19-20.  Corsivo mio).

8.  Perché Perlasca si sostituì a Sanz Briz. Tutto rischiava di crollare.  Si diceva che fosse stato dato “l’ordine di deportare tutti gli ebrei protetti dalla Spagna in quanto si riteneva che Sanz Briz fosse scappato e i rapporti diplomatici fra i due paesi rotti” (Promem., ivi, p. 25).  Perlasca dovette prendere rapidamente posizione, di sua iniziativa.  “Pertanto non esitai a dichiarare che la notizia della fuga di Sanz Briz era falsa e messa in giro da qualche malintenzionato” (ivi).  Non ripeterò qui tutti gli argomenti usati da Perlasca, esposti sempre in modo preciso.  Voglio invece mettere in rilievo come, già nel Promemoria, egli abbia descritto le iniziative che Farkas e lui decisero di comune accordo per uscire dall’impasse.  Sanz Briz aveva lasciato una certa somma “da devolvere ai profughi di guerra. Farkas ed io pensammo di portarli al dottor Gera [ministro e segretario del partito nazista ungherese] e così facemmo verso le 14 dello stesso giorno [1˚ dicembre].  Gera fu molto contento di questo gesto e i nostri rapporti divennero ancor più cordiali; sono persuaso che egli ebbe parte notevole nella favorevole risoluzione delle questioni che interessavano la legazione di Spagna” (ivi, p. 28. Corsivo mio).

9.  L’aiuto fondamentale ricevuto da Farkas. Dopo che di sua iniziativa Perlasca si era proclamato successore di Sanz Briz di fronte ai capi nazisti ungheresi (Promem., ivi, p. 25), cosa che provocò l’iniziale sbigottimento di Farkas, Farkas e Perlasca architettarono insieme “l’impostura” da presentare al Ministero degli Esteri, al fine di mantenere la continuità della legazione.  “Visto da quella parte [il partito nazista ungherese] che le cose si mettevano abbastanza bene, Farkas ed io pensammo che il giorno 3 [dicembre] saremmo potuti andare al Ministero degli Esteri per collaudare il grande imbroglio diplomatico che stavamo organizzando. Si ritenne che avrei dovuto qualificarmi “chargé des affaires” piuttosto che “chargé d’affaires”; Farkas riteneva la prima definizione meno impegnativa; secondo me invece la prima era l’unica possibile e la differenza consisteva in un errore grammaticale della seconda.  Comunque per me non aveva importanza perché ero convinto che in quel momento al Ministero degli Esteri non si badasse a certe sottigliezze” (Promem., p. 29.  Corsivi miei).  Il pericolo più grave era una involontaria smentita da parte di Madrid.  “Ma fidavo del buon senso di Sanz Briz il quale, pur non sapendo quanto era avvenuto, doveva immaginare che io non sarei rimasto comunque inattivo.  Intanto la radio ungherese aveva comunicato che Sanz Briz aveva lasciato l’Ungheria per un breve periodo e che lo sostituiva il segretario di legazione, senza peraltro fare il mio nome…” (ivi).   Lo scopo di questa mia ricostruzione è evidentemente quello di far vedere, documenti alla mano, come Perlasca, pur rivendicando la paternità di importanti decisioni ed interventi e dell’innovativa “diplomazia d’azione”, non si sia  m a i  presentato come un “eroe solitario”, che agiva senza bisogno dell’aiuto e dei consigli di alcuno, facendo tutto da solo.  In tal senso, il materiale offerto dal Promemoria è abbondante.  Scoppia una grana con il Ministero degli Esteri ungherese.  Allora “Farkas rispose che il giorno dopo io sarei andato al ministero e così avremmo studiato anche quella cosa.  Intanto Farkas ed io rivedemmo tutti i documenti utili esistenti in legazione e ci accordammo su un piano d’azione” (ivi, p. 30).  Il corsivo è sempre mio.  A p. 41 una nuova importante iniziativa è presa da Perlasca, sempre “d’accordo con Farkas”.  Dal  Promemoria risulta con chiarezza che Farkas continuava a svolgere a vantaggio di Perlasca il suo fondamentale lavoro di consulente giuridico-diplomatico ed interprete già svolto con Sanz Briz.  In nessun modo il Promemoria diminuisce i grandi meriti di Farkas.   Ma i  riconoscimenti di Perlasca non vanno al solo Farkas.

10. I riconoscimenti di Perlasca agli altri collaboratori “Le questioni importanti venivano discusse a villa Széchényi, dalle 14 alle 16, durante il pranzo.  Farkas, sempre invitato, e Béla Mérő erano le persone con le quali discutevo sul da farsi.  In legazione potevo star poco:  fra le lunghe visite alle case protette, discussioni al ministero ecc., mi rimaneva poco tempo.  Il lavoro interno lo assolvevano la Tourné e Farkas.  Alle 21 tornavo in villa, cenavo e mi trattenevo un po’ con il gruppo di protetti che erano colà ospitati.  La mattina alle 8 ero già in movimento” (Promem., p. 35).  Chi era il signor Mérő, anch’egli israelita?  “Mérő era il più anziano rifugiato della villa ed aveva l’incarico di dirigere la casa e tenere l’ordine fra gli oltre 60 protetti ivi residenti:  era uomo di molto buon senso ed era utile ascoltare le sue opinioni su qualsiasi questione.  Aveva vissuto a lungo a Bucarest dove faceva il banchiere” (Natale 1944, in op. cit., pp. 107-128; p. 107).   Dunque, Perlasca discuteva giornalmente il da farsi con due persone più vecchie di lui e molto più esperte di lui, delle quali aveva la massima stima e rispetto e che sicuramente gli davano molti buoni consigli.  Questo  modo di agire e di presentare la propria opera, anche negli scritti tenuti nel cassetto, sembra forse quello di uno che abbia cercato di fabbricarsi l’immagine di  “eroe solitario”, occultando i meriti degli altri?  Di un “millantatore”?!  Ci furono naturalmente dei contrasti.  Sembra di capire che la signora Tourné si fosse ad un certo punto preoccupata per l’alto numero di “lettere di protezione” e “passaporti” che il nuovo “incaricato d’affari” rilasciava (all’arrivo dei russi, il 16 gennaio 1944, i protetti sarebbero stati  ben 5.200).  Ma in ogni caso, precisa il Nostro, “Farkas, invece, era sempre d’accordo con me; egli amava la lotta e mi fu di grande aiuto; quello che pensavo di fare egli perfezionava con l’esperienza della sua età e della sua professione” (Promem., p. 49.  Corsivo mio).  Anche la signora Tourné risulta esser stata coinvolta in decisioni comuni.  “Il dottor Farkas, la signora Tourné, messi al corrente di quanto io avevo fatto, ed io decidemmo invece di ricorrere all’intervento ufficiale della legazione di Svezia soltanto in casi estremi etc.” (Relazione, op. cit., p. 163.  Corsivo mio).  Ma Perlasca che, lo ripeto ancora, scriveva il suo Promemoria nel 1946 per lo scrittore Lévai, che l’avrebbe potuto verificare in loco con diverse tra le persone menzionate nello stesso e comunque con molti testimoni dei fatti, ricorda anche l’aiuto fondamentale dei “collaboratori esterni”.  All’inizio tra di essi c’era anche Farkas, come si è visto, ma poi si dovette rinunciare ad utilizzarlo in modo continuato perché ”molto conosciuto come ebreo” (Promem., p. 49).  Ad un posto di blocco dei miliziani, al quale Perlasca si era qualificato in tedesco, Farkas, individuato, aveva rischiato di esser ucciso, nonostante il suo passaporto spagnolo (ivi, p. 53).

“Altro attivo collaboratore esterno fu il signor Somogyi [eliminato alcuni anni dopo dai sovietici – nota di Perlasca], il quale teneva il collegamento con noi per conto della Croce Rossa Internazionale e mi guidava l’auto [una grossa macchina americana dell’ambasciata, con tanto di insegne rosso-oro bene in vista] durante le pericolose escursioni per la città assediata.  Si dedicava generalmente agli ospizi per bambini [per trovare i bambini ebrei abbandonati dai genitori deportati o uccisi].  Preziosi per la collaborazione furono tutti i capi casa e i componenti i comitati degli inquilini” delle “case di protezione” (ivi, p. 49).  Seguono dei nomi.  “Vorrei fare altri nomi, ma le mie carte sono andate tutte distrutte assieme ad una specie di diario che tenevo”.  Distrutte nell’incendio di Villa Széchényi. Seguono i nomi di due protetti vittime di gravi violenze prima di esser presi in protezione.  E questa conclusione:  “Ho fatto questi pochi nomi per rendere più facile la ricostruzione della vita d’allora e trovare gli altri che vi hanno attivamente partecipato” (ivi, p. 50).

Per un quadro completo dei numerosi riconoscimenti a coloro che l’avevano aiutato, dobbiamo ancora ricordare:  1) il suo elogio de “l’opera encomiabile delle commissioni” preposte all’organizzazione delle “case protette”.  Esse erano “formate da elementi veramente capaci”, che “avevano capito quale importanza avessero ordine e disciplina” (Le case protette dalla Spagna, in L’impostore, pp. 81-88; p. 88).  Le “commissioni”, fatte eleggere da Perlasca ad integrazione dell’organizzazione già messa in piedi in modo eccellente da Sanz Briz, erano composte per ogni casa da “un presidente e due membri”.  Esse dovevano rispondere a Perlasca “del buon andamento della comunità.  Dovevano curare in particolare la pulizia, la sveglia e il silenzio, la disciplina, appianare contrasti ed espormi ogni eventuale necessità” (pp. 86-87).  La pulizia era particolarmente importante anche perché, con la scusa delle condizioni igieniche  eventualmente scadenti, i Nyilas tentavano di far chiudere le “case” per impadronirsi dei rifugiati (p. 88);  2) l’attestazione del notevole aiuto ricevuto dietro le quinte dal maggiore della polizia Tarpataky, di sentimenti antinazisti, costretto per ragioni d’ufficio a sovraintendere alle razzie dei Nyilas, il quale gli forniva di nascosto utili informazioni, procurava contatti riservati e garantiva per quanto possibile la protezione della polizia alle “case” e alla legazione spagnola.  Nel marzo del 1945 Perlasca inviò un promemoria in sua difesa alla “polizia politica” ungherese (Promem., p. 19, 23, 29, 61 passim e anche negli altri scritti).

Qualcuno si è chiesto giustamente:  ma i capi nazisti ungheresi, per quanto inesperti, non avevano mai avuto dubbi sull’effettiva identità di Perlasca?  E lui non aveva mai incontrato nessuno che l’avesse conosciuto prima di diventare “diplomatico spagnolo”?  La cosa accadde due volte, con due persone diverse che però fecero finta di non conoscerlo (ivi, p. 36).  Del resto, con l’avvento delle Croci Frecciate al potere gran parte dei vecchi funzionari era stata sostituita o si era nascosta.   Nel pieno della terribile battaglia di Budapest i collegamenti con l’estero erano per i Nyilas praticamente nulli.  Ma il fatto è che ai Nyilas interessava parecchio tenere aperto un canale con la Spagna, ritenuta uno Stato amico,  perché speravano assurdamente in una possibile mediazione spagnola con gli Alleati per modificare in qualche modo la situazione sempre più grave.  Speravano inoltre (lo si capiva) di poter fuggire in Ispagna quando fosse crollato tutto.  Naturalmente Perlasca coltivava queste loro illusioni (ivi, pp. 32-34; 39-40).

11. L’encomio di Zoltán Farkas.  Impossibile dimenticare il modo nel quale Perlasca chiude la sua vibrante commemorazione di Farkas.  Sono parole che costituiscono un’ulteriore dimostrazione dell’abissale inconsistenza delle accuse di Espada.  “La mattina seguente [16 gennaio 1944], mentre Farkas ed io ci trovavamo nell’ufficio del ministro intenti a distruggere documenti, fummo attratti da voci provenienti dalla strada:  erano i primi russi che i rifugiati subito accorsi salutarono con calorosi “szervusz” [“servo (vostro)”, tradizionale saluto ungherese].  Farkas era però triste.  Poco dopo arrivò un messagio dalle case protette:  tutto bene.  Farkas mi abbracciò dicendo che era per me grande soddisfazione avere ottenuto pieno successo.  Io gli risposi che “avevamo ottenuto pieno successo” perché se non vi fosse stato lui a garantirmi il buon andamento della organizzazione burocratica, a vigilare sulla correttezza della gestione, a raccogliere e vagliare notizie, a discutere e bonariamente criticare il mio operato, a farmi sentire d’aver vicino un amico sincero e fidato, a tenermi compagnia nei momenti buoni e in quelli difficili, come avrei potuto avere il tempo di mettere insieme tante relazioni [di dedicarsi ai suoi “contatti plurimi”, ivi, p. 144] e inventare quel cumulo di fandonie che tanta parte hanno avuto nel conseguimento del risultato?  I russi rispettarono l’extraterritorialità per tutto il giorno:  Farkas ed io bruciammo le bandiere spagnole ed esponemmo quella svedese [secondo accordi precedenti][…].  Mentre le bandiere bruciavano Farkas piangeva:  anch’io ero commosso ma cercavo di non farlo vedere ed ero aiutato in ciò dalla gioia datami dal buon risultato.  Venne sera e la tragedia…” (Zoltán Farkas, cit., pp. 150-151.  Corsivo mio).   Per un equivoco, i russi, inizialmente corretti, credettero che dalla legazione qualcuno avesse segnalato la loro posizione all’artiglieria tedesca.  Diventarono aggressivi,  cominciarono a picchiare, a minacciare di morte gli uomini.  Una “protetta” che conosceva il russo, costretta a far da interprete, riuscì a chiarire l’equivoco, dopo notevoli spaventi collettivi.  Ma il giorno dopo cominciò a arrivare ad ondate la soldataglia, spesso ubriaca e sempre in cerca di donne e bottino (“la mattina successiva la legazione fu invasa da un reparto che cominciò a rubare e sparare contro specchi, quadri e ninnoli”, Promem., p. 76).  Fu il caos.  Bruciati appena in tempo i suoi documenti spagnoli, Perlasca si eclissò.  Ma l’avvocato Farkas, non si sa perché picchiato all’improvviso dai russi assieme ad alcuni poliziotti lì in servizio, completamente sconvolto, si accodò sventuratamente a questi ultimi nella loro conseguente fuga sui tetti:  scivolò sul tetto ghiacciato e precipitò, sfracellandosi.  “Fu per me un grave colpo:  un grande caro amico, un uomo onesto, uno degli ultimi gentiluomini esistenti se n’era andato mentre tanti vigliacchi delinquenti, tipo N., si erano salvati […]  Lo seppellimmo nel cortile della legazione.  Prima di lasciare l’Ungheria andai a salutarlo per l’ultima volta.  Ma il ricordo di lui non si è mai cancellato dalla mia memoria” (Zoltán Farkas, p. 155).

2 commenti su “UN GIORNALISTA SPAGNOLO NEGA ASSURDAMENTE I MERITI DI GIORGIO PERLASCA, L’AUDACE ITALIANO CHE A BUDAPEST NEL 1944-45 SALVO’ TANTI EBREI PERSEGUITATI – di Paolo Pasqualucci”

  1. Io mi ricordo una trasmissione televisiva dove erano stati invitati ebrei ungheresi salvati da Perlasca e mi é rimasto impresso il modo in cui l’hanno abbracciato e baciato.

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