UNA PICCOLA RIFLESSIONE SULLA FEDE NEL NOSTRO TEMPO (seconda parte) – di Carla D’Agostino Ungaretti

di Carla D’Agostino Ungaretti

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Per quanto riguarda l’Italia, una ricerca del CESNUR dal titolo “Gentili senza cortile[1], ha rivelato che gli atei italiani “forti” – cioè  in grado cioè di motivare il loro ateismo con ragioni ideologiche – sono presenti maggiormente tra le persone più anziane e meno istruite, nelle quali è ancora forte il ricordo dell’ateismo comunista. Invece gli atei “deboli” – cioè meno ideologici – che considerano Dio e la religione irrilevanti in un mondo in cui contano solo il denaro, il lavoro e le relazioni affettive, sono più numerosi tra i giovani e le persone colte. I “lontani dalla religione”, categoria che comprenderebbe anche gli atei, sarebbero ormai circa il 70% della popolazione e sarebbero coloro che, per lo più, non si dicono atei ma hanno perso ogni contatto con la fede. Vanno in chiesa solo per i matrimoni e i funerali e, se di dichiarano religiosi, fanno un sincretistico pot-pourri di diverse credenze.

Sono state inventate anche delle nuove espressioni per designare coloro che negano l’esistenza di Dio o si disinteressano del problema: umanisti secolari, come si definiscono gli svedesi, o amanti del pensiero, come si definisce lo scrittore Vincenzo Cerami che ha partecipato al Cortile dei Gentili tenutosi ad Assisi ai primi di ottobre[2]. Il termine ateo sarebbe una “brutta parola” e non piace alle presuntuose menti intellettuali perché ritenuto riduttivo. Ma perché “brutto” e perché “riduttivo”? Ateo, come tutti sanno, è un aggettivo di origine greca (a – theòs) in cui la presenza iniziale dell’alfa privativo indica appunto l’assenza di Dio dal pensiero e dalla prassi del genere umano; quindi è  un termine perfettamente pertinente e appropriato per definire quella tendenza di pensiero. A mio giudizio, questa querelle di lana caprina non è altro che l’ennesimo tentativo laicista di buttare polvere negli occhi delle menti cattoliche più ingenue e sprovvedute, come l’aver inventato il gentile e ipocrita acronimo di IVG per addolcire l’aborto agli occhi dei credenti e farglielo accettare. Ma forse significa anche che questi intellettuali atei non hanno il coraggio di definirsi tali apertamente perché in fondo al loro cuore sentono Qualcuno, al quale per orgoglio non vogliono rispondere, che gli sussurra: “Io sono, però!”, come narra Alessandro Manzoni, descrivendo la terribile notte insonne dell’Innominato, nei “Promessi Sposi”.

Non basta: un interessante studio ha rivelato che, in Italia, nella seconda metà del ‘900 si è verificata una profonda frattura generazionale, non solo a livello delle manifestazioni esteriori e visibili della fede, ma anche a livello delle convinzioni: il cospicuo e rapido allontanamento delle giovani generazioni femminili dal Cattolicesimo[3]. E’ un fenomeno allarmante, questo, in un paese – come il nostro – in cui la trasmissione della fede è sempre avvenuta per il tramite delle madri di famiglia e il problema, ad un tempo civile, politico, culturale e religioso, richiede un ripensamento rapido e profondo da parte della Chiesa, che è semper reformanda. Ed è soprattutto triste prendere atto come proprio le donne  – il cui “genio” è stato riconosciuto con tanta onestà intellettuale da Giovanni Paolo II  e che hanno un formidabile modello in Maria di Nazareth – si allontanino dalla Chiesa.  Le cause sono innumerevoli e non possono essere trattate in questa riflessione, se non per riconoscere che tutti i cattolici devono fare un esame di coscienza sull’educazione e sulla testimonianza che hanno dato (o che non hanno saputo dare) a chi è venuto dopo di loro.

Negli ultimi anni, poi, i mass – media europei hanno dato molto risalto alle tesi ateistiche di pseudofilosofi come  Richard Dawkins, Daniel Dennet e Michel Onfray e in Italia a quelle dei nostrani Piergiorgio Odifreddi e Paolo Flores d’Arcais i quali, nel divulgare le loro idee nichiliste, hanno trovato molti lettori e procurato lauti guadagni a se stessi e agli editori dei loro libri. Ma questi studiosi non possono certo essere posti sullo stesso piano dei veri pensatori di estrazione positivistica come Nietzsche e Marx, o di Wittgenstein e Heidegger. L’itinerario intellettuale di questi ultimi due, soprattutto, fu sicuramente un percorso onesto, perché pensavano che solo la scienza e la tecnica potessero rimediare alle miserie dell’umanità e temevano (sia pure sbagliando e non pervenendo a risultati costruttivi) che certo dogmatismo tradizionalista potesse fermare il progresso scientifico. Invece, l’evoluzionismo spinto di Dawkins  può incrinare le certezze dei soli popoli anglosassoni, educati da sempre a un’interpretazione letterale della Bibbia. Dennet ancora crede (più o meno in buona fede) che il vero scienziato non possa che essere ateo, senza accorgersi che questo argomento fu già confutato da Pascal nel XVII secolo e che in questo modo egli restringe enormemente gli orizzonti della razionalità. Onfray, dal canto suo, scrive (come Odifreddi e Flores d’Arcais) cose che possono benissimo essere smentite da chiunque abbia un minimo di educazione catechistica cattolica. 

Sembrano tornati di moda, per così dire, l’antico detto del filosofo greco Porfirio “latet omne verum” e la famosa frase pronunciata da Simmaco nel tardo IV secolo:  “Non si può arrivare a un mistero tanto grande (Dio) attraverso un’unica via”. Ma se gli stessi cristiani sono pronti a respingere la pretesa di assolutezza del Cristianesimo – basata, non su astratti discorsi filosofici, ma sulla Rivelazione di Dio, confermata e avvalorata dalla Resurrezione di Cristo,  realtà che nessuna filosofia orientale è mai arrivata a concepire – essi stessi contribuiscono ad aprire in occidente  la strada all’ammirazione e all’interesse per le religioni asiatiche e alla falsa speranza che ciò che non è riuscito nella vita presente possa essere ottenuto in una vita futura.

E’ meglio non andare oltre nel verificare l’azione devastatrice del demonio nel triste momento storico che l’Europa cristiana sta attraversando per non scoraggiare e rattristare ulteriormente i cattolici “bambini” che ancora  pregano e mettono quotidianamente la loro vita nelle mani di Dio e della Santa Madre della Chiesa. Pensiamo piuttosto a riscoprire “i contenuti della fede professata, vissuta e pregata”, come ha esortato a fare il Papa, nella Lettera Apostolica “Porta Fidei” di indizione  dell’Anno della Fede, nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e nel  20° del nuovo Catechismo. Benedetto XVI è pienamente consapevole dell’affievolimento della fede negli europei che vivono etsi Deus non daretur[4] e non perde occasione per mettere in pratica il mandato ricevuto da Cristo (Gv 21, 15ss) di mettere in guardia il suo gregge dalla drammatica crisi di cultura e di identità che è  sotto gli occhi di tutti.

Il nuovo ateismo, infatti, non si preoccupa più di dire “Dio non esiste” o “Dio è morto”, come proclamavano Feuerbach e Nieztche: semplicemente si disinteressa di Dio, fingendo di dimenticare che la metafisica è sempre stata , fin dai tempi di Aristotele, un’ importantissima branca della filosofia. E infatti il primo grande colpo ad essa  lo assestò Kant, il quale sosteneva che Dio non è conoscibile attraverso la ragion pura, perché l’uomo può conoscere solo attraverso le categorie “a priori” dello spazio e del tempo nelle quali è impossibile racchiudere Dio. Secondo Kant, che pure era un fervente luterano, la via per raggiungere Dio è solo quella della ragion pratica, che parte dal dovere morale percepito come assoluto.  Ma in questo modo Dio non diventa una mera invenzione umana?

L’ateismo moderno – accantonando la metafisica – si è guadagnato molti seguaci, ben felici di lasciarsi persuadere che, dopo la morte, non dovranno rendere conto delle proprie azioni a un Essere superiore. La Conferenza Episcopale Italiana – consapevole che l’avversario da fronteggiare oggi è molto più agguerrito di quanto non fosse in passato – sotto la presidenza del Card. Ruini ha riportato la questione di Dio al centro dei lavori del suo progetto culturale, tornando ad affrontare direttamente il quesito della Sua esistenza e ridando perciò lustro a quella scienza apologetica, che oggi si preferisce chiamare teologia fondamentale. E il motivo si comprende benissimo perché – come emerse chiaramente nel convegno “Dio oggi” organizzato a Roma, con enorme successo di pubblico, dal Comitato per il Progetto Culturale della CEI nel dicembre 2009 – con Lui o senza di Lui cambia tutto[5]. Infatti, a seconda che Dio ci sia o non ci sia, che si interessi o si disinteressi dell’uomo, tutti siamo portati ad attribuire un significato molto diverso alla nostra vita e all’intero universo, a orientare in maniera molto diversa le scelte quotidiane riguardanti i livelli più profondi della nostra esistenza.  Se abbiamo fede che “Dio c’è”, è più facile comunicare a una generazione imbevuta di triste individualismo e convinta che Dio non c’entri nulla con la sua vita, che Egli – essendo Amore eterno, assoluto, incondizionato – non si disinteressa affatto dell’uomo, ma lo rende libero perché lo ha creato proprio per amore e chi che ama rispetta sempre la libertà dell’amato. Non si ha quindi a che fare con l’astratto dio dei filosofi, ma con il concretissimo Dio rivelato da Cristo che per amore si incarna, muore e risorge per farci partecipi tutti della Sua vita eterna.

Pochi giorni prima di diventare Benedetto XVI, Joseph Ratzinger ha detto: “Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia, sono uomini che, attraverso una fede illuminata e diffusa, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità … in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri[6]”. Parole lapidarie, ribadite recentemente con incisività ancora maggiore: “Come possiamo far arrivare la realtà di Dio all’uomo di oggi affinché diventi salvezza?Gli apostoli non crearono la Chiesa “elaborando una costituzione”,ma raccogliendosi in preghiera in attesa della Pentecoste (…) Al primo posto, dunque, deve esserci la preghiera ( …) A questo segue la “confessio”, ovvero la confessione pubblica della propria fede, come quella fatta con coraggio davanti a un tribunale sapendo che potrà costare. Infatti questa parola reca in sé l’elemento martirologico, quello del “testimoniare” anche in situazioni di passione e di pericolo di morte (…) Infine, ha aggiunto il Papa, è necessario che la confessione si rivesta di un “abito” che la renda visibile: la “carità”, ossia la più grande forza che deve bruciare nel cuore di un cristiano[7].

Che altro potremmo aggiungere di più chiaro e convincente? Il dovere di testimoniare la propria fede esiste per tutti; ma che cosa possono fare i cattolici “bambini” nel clima che stiamo vivendo? Anzitutto, capire che oggigiorno, molto più che in passato, ciascuno di noi è chiamato in causa nel compromettersi davanti al mondo professando – apertamente e senza rispetto umano – la propria fede e, in secondo luogo, avere piena consapevolezza del significato dell’ essere cristiano, senza lasciarsi irretire e condizionare da certe buonistiche tendenze teologiche e di pensiero – abbondantemente divulgate dai relativistici media – che vorrebbero adattare la Parola di Dio alla moda del nostro secolo, dimenticando che il cielo e la terra passeranno, ma la Parola non passerà (Mt 24, 35).

Una volta don Luigi Giussani rivolse a un suo allievo – che si professava cristiano, forse con un po’ di superficialità – una domanda semplicissima, ma incisiva come un bisturi “Da che si vede?”[8] Ecco: da che si vede la nostra fede? E’ triste dover riconoscere che forse non si vede da nulla. L’aver ricevuto il Battesimo conta poco se poi ad esso non fa seguito uno stile di vita coerente con le promesse battesimali. Chi di noi può, in tutta coscienza, dichiarare di essere totalmente coerente col Vangelo?  Tutto ciò che facciamo o che diciamo si compie sempre nel nome di Cristo?

Dobbiamo umilmente ammettere che non sempre è così. Viviamo una fede indolente, abitudinaria e insipida; il “pensiero debole” che ora va per la maggiore favorisce l’adagiarsi sui luoghi comuni invece di stimolare alla ricerca della Verità, sempre faticosa; il clima culturale del nostro tempo sembra fatto apposta per farci sedurre da tendenze e ideologie che non hanno nulla di cristiano e non sempre ci ricordiamo delle parole di Pietro davanti al Sinedrio: “Bisogna obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini” (At 5, 29). Siamo tentati piuttosto di farci trascinare dalla corrente dominante perché è più facile, più comodo e ci conferisce maggiore lustro e considerazione sociale. Se poi siamo colpiti da una disgrazia, da una malattia, o incappiamo semplicemente in un insuccesso, allora siamo pronti a gridare a Dio: “Perché proprio a me?” come se il Padre comune di tutti noi non facesse sorgere il sole e cadere la pioggia sui santi come sui peccatori, sui buoni come sui cattivi (Mt 5, 45). Perciò quella sciocca domanda dovrebbe essere ribaltata in: “Perché non a me?”

La fede in Cristo non consiste nella sola condivisione astratta della sua dottrina – come credeva il filosofo platonico Vittorino nell’episodio narrato da S. Agostino nelle Confessioni[9] – ma è fatta di vita, carne e sangue. La Chiesa non è un’organizzazione filantropica erogante servizi sociali, ma il segno della presenza viva e concreta tra di noi del Cristo crocifisso per amore. Questo devono essere capaci di trasmettere i nuovi evangelizzatori ai loro fratelli dalla fede stanca e sfiduciata: evangelizzare con l’amore è quindi la grande sfida per la comunità credente che dovrà trasmettere, non la conoscenza intellettuale di Dio, ma uno stile di vita imbevuto di verità e carità.

Ne saremo capaci in questo anno della fede? Il malinconico interrogativo che Gesù sembra  rivolgere a se stesso rispecchia perfettamente la situazione che viviamo nel XXI secolo. La frase che S. Paolo rivolge a Timoteo (2Tm 4, 1ss)  – preceduta dalle severe e appassionate parole: “Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo (…) insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina” – sembra che l’Apostolo l’abbia scritta avendo sotto gli occhi la situazione del nostro tempo: “Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole”. Ciascuno di noi dovrebbe fare suo il grido del padre del fanciullo indemoniato: “Signore, io credo, ma tu aiuta la mia poca fede!”(Mc 9, 24)

Per concludere la mia umile riflessione su come è vissuta la prima virtù teologale nel nostro tempo, voglio ricordare le parole con le quali,  lo scorso 30 agosto,  il Card. Agostino Vallini – durante il pellegrinaggio annuale della Diocesi di Roma a Lourdes, al quale partecipo sempre – ha esortato le pecorelle del Papa, di cui egli è Vicario, raccolte davanti alla grotta di Massabielle, a riflettere sulla propria fede guardando all’esempio della Vergine: “Seppure turbata dall’annuncio dell’angelo, Maria si è fidata di Dio, dandogli il suo “SI” perenne, perché la fede non è un’emozione o un sentimento, ma una risposta concreta e responsabile a Dio che ci parla”. Il giorno dopo, nella Messa conclusiva del pellegrinaggio celebrata nella Basilica del Rosario, il Cardinal Vicario ha evidenziato l’importanza  “di scegliere da che parte vivere la nostra vita (…): o secondo la logica mondana dell’apparire, o a fianco del Signore, decidendo di essere come il chicco di grano che ha portato frutto solo morendo”.

 

(fine)

 


[1] Cfr. IL NOSTRO TEMPO, 24.6.2012.

[2] Cfr. AVVENIRE, 26.9.2012, pag. 25.

[3] Cfr. Armando Matteo, La fuga delle quarantenni. Il difficile rapporto delle donne con la Chiesa, Rubbettino 2012.

[4] Lo ha ben constatato il Card. Gianfranco Ravasi nel “Cortile dei Gentili” tenutosi in Svezia (Cfr. Avvenire 15.9.2012). Nei paesi scandinavi di Dio non si parla né in privato né in pubblico perché non è ritenuta cosa elegante. A tanto può arrivare la presunzione umana!

[5] Cfr. Comitato per il Progetto culturale della CEI. Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto. Siena, Cantagalli, 2010

[6] Cfr. J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Introduzione di Marcello Pera, Cantagalli 2005.

[7] Discorso a braccio di Benedetto XVI pronunciato alla prima riunione della Congregazione generale del Sinodo tenutasi in Vaticano l’8.10.2012.

[8] Io non ho avuto la fortuna di conoscere personalmente quel grande educatore e maestro di vita che fu don Giussani, ma ho conosciuto don Giacomo Tantardini, purtroppo scomparso recentemente, suo allievo e collaboratore, che mi raccontò quell’episodio.

[9] Cfr. S. Agostino, CONFESSIONI, VIII, 2, 3, 5 BUR 1992.

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