Una riflessione sul paradiso – di Carla D’Agostino Ungaretti

“Amen dico tibi: Hodie mecum eris in paradiso” (Lc 23, 43)

“Lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver  primo che l’uom crede” (Par, II, 43 – 45)

di Carla D’Agostino Ungaretti

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zprdsLe  parole rivolte da Gesù morente al suo compagno di supplizio, che lo implora di ricordarsi di lui quando entrerà nel suo regno, sono solo otto e tra le più commoventi e foriere di speranza del Vangelo secondo Luca e, nonostante siano così poche, ci offrono lo spunto per meditare su alcuni aspetti della nostra fede ciascuno dei quali, a sua volta, è un pozzo senza fondo dal quale si possono continuamente attingere nuove consapevolezze spirituali e innumerevoli  spunti di meditazione tali da meritare che si scrivano interi e sempre nuovi volumi su di essi: il peccato, la conversione, la misericordia di Dio, la salvezza eterna e, da ultimo, il Paradiso. E allora, da cattolica “bambina” ben consapevole di essere (come dice Dante) “in piccioletta barca”, anche io cercherò di meditare un po’ su questo mistero, nel quale si concretizza la nostra salvezza, facendomi guidare da Benedetto XVI, che io considero (tanto per usare ancora una volta un’espressione dantesca) “lo mio maestro e ‘l mio autore”[1], e da quell’ immenso monumento di fede, di speranza, di carità, di teologia e di poesia che è la Divina Commedia, uno dei miei “livres de chevet”.

La Bibbia non usa molto spesso il termine “paradiso”. Il termine ebraico gan (giardino) con il quale la Genesi indica il “paradiso terrestre”  fu tradotto dai Settanta con  l’espressione “paradèisos” – a sua volta derivata dalla lingua babilonese – che voleva indicare la familiarità con Dio e con le creature di cui l’uomo godeva prima del peccato. Alludendo alla vita eterna, il Nuovo Testamento usa anche altre immagini come Cielo, Terra Promessa, Tempio santo, Gerusalemme nuova, Banchetto celeste. (per esempio, 2 Cor 12, 4; Ap 2, 7). Comunque, usando il termine “Paradiso” la Chiesa ribadisce che la salvezza consiste nella perfetta ed eterna comunione con Dio.

Anche la geniale cultura greca aveva intuito qualcosa di analogo alla visione escatologica ebraico – cristiana. Il destino dei morti poteva essere di andare nell’Ade, luogo della massima infelicità e della massima miseria, o nei Campi Elisi, dove giungevano i morti “buoni”, luogo libero da ogni affanno, da ogni sofferenza, da ogni fatica, situato ai confini del mondo ma facente parte di esso, nel quale si faceva ritorno alla condizione in cui si viveva nell’età dell’oro. Invece la nostalgia del Paradiso che si respira nell’Antico Testamento è diversa da quella della cultura greca perché alla cosmologia ebraica manca completamente la dimensione ciclica: dopo la caduta l’Eden è finito per sempre e non si torna più allo stato di Adamo ed Eva. Il paradiso che attende gli uomini è una condizione nuova che nell’ebraismo si configura come la Terra Promessa. Infatti, come spiegò il Rabbino Elio Toaff in un interessante dialogo – intervista con Alain Elkann, la Torà non parla mai dell’Aldilà che “potrebbe essere di contemplazione della divinità fino alla resurrezione …  oppure  di reincarnazione … la resurrezione a cui gli ebrei debbono credere ognuno se la può immaginare come vuole”[2] .

Invece il Nuovo Testamento usa un aggettivo, kainòs, che – escludendo ogni continuità con la creazione precedente e ogni visione ciclica – indica una nuova creazione: un nuovo cielo e una nuova terra prodotti da Dio, cioè la certezza di un positivo adempimento del senso del cosmo e della storia, la sicurezza che entrambi non finiscono in un indifferenziato cumulo di macerie che seppellisce le lacrime e il sangue di cui essi sono intessuti. E altrettanto avviene per gli uomini con la resurrezione della carne: “Così anche la resurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso; si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un  corpo animale e risorge un corpo spirituale” (1 Cor  15, 42 – 43).

Con il termine figurato “cielo”, che simbolicamente significa “in alto”, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana attraverso la pienezza di quell’Amore verso il quale si muove la fede ed è determinato cristologicamente. Infatti la novità della concezione cristiana del Paradiso è totalmente cristologica e risiede nella comunione totale in  Cristo, con Cristo e per Cristo. A questo alludeva Gesù quando disse al buon ladrone: “Oggi sarai con me in Paradiso”, perché essere in  Paradiso significa essere con Lui in eterno. E che non ci fosse salvezza prima che Gesù con la Sua Resurrezione dischiudesse le porte del Cielo lo ha ben capito Dante, quando fa dire a Virgilio che solo “quel possente con segno di vittoria coronato” (cioè Cristo) poté portare in Paradiso i Giusti dell’Antico Testamento, perché “vo’ che sappi che, dinanzi ad essi, / spiriti umani non eran salvati” (Inf.  4, 62 – 63). Vale a dire che, prima di Cristo, il Paradiso non esisteva.

Ma questa visione cristologica ha anche un aspetto ecclesiologico. Se il cielo si fonda sulla comunione dell’uomo con Cristo, ne consegue che esso comporta anche la comunione con tutti coloro che insieme formano il Corpo di Cristo. Ecco spiegati la “Comunione dei Santi” e il loro culto cristiano che presuppone l’illimitata vicinanza dell’amore che raggiunge Dio nell’altro e l’altro in Dio. Fa notare Benedetto XVI che da ciò deriva anche un significato antropologico: il fondersi dell’ “Io” con il Corpo di Cristo non significa il suo dissolvimento, ma la sua purificazione[3] . Ognuno vede Dio a suo modo e riceve l’amore del Tutto nella sua inconfondibile unicità. “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap 2, 17).

E infatti, “E ‘n sua volontade è nostra pace” risponde Piccarda Donati a Dante, che le chiede se l’essere nel cielo più basso, cioè il più lontano da Dio, le faccia desiderare una condizione più alta. Le parole di Piccarda esprimono una certezza e una piena accettazione del proprio stato: tutto risponde nel Paradiso alla capacità stessa delle anime, e quindi alla volontà di Dio; nessun desiderio di avere di più può turbarle (Par. III, 64 ss).

Ma come possiamo immaginare la condizione dell’anima indissolubilmente unita a Cristo, cioè in Paradiso? Con la terzina che ho citato in epigrafe, Dante risponde a quella domanda in maniera perfettamente esauriente: quando saremo lì, e cioè in Paradiso, vedremo con l’intelletto, cioè comprenderemo, ciò che in terra noi accettiamo per fede senza vederlo, e lo vedremo non per una dimostrazione logica, poiché quei misteri sono estranei al raziocinio umano, ma per evidenza di intuizione (espressa appunto con il verbo “vedere”) allo stesso modo in cui comprendiamo gli assiomi, ossia le verità fondamentali, evidenti e non dimostrabili della filosofia che costituiscono il fondamento della logica (ver primo) come, per esempio (aggiungo io) è il principio di non contraddizione.

Dante riesce a fondere la teologia con la filosofia e l’esperienza religiosa, esaltando il nucleo della tradizione cristiana che vede in Cristo la congiunzione perfetta tra perfetto presente e perfetto futuro. Non si tratta di un semplice percorso filosofico, frutto di una volontà intellettuale, ma di un percorso di Amore,  perché se non amiamo Dio non possiamo vederLo, né intuirLo, né unirci a Lui. Soltanto la reciprocità dell’amore può acquietare l’anima facendola giungere, non solo a contemplare il Bene, ma anche a fruirne. Questa reciprocità determina lo stato di “beatitudine” che è frutto della “visione”, della “comprensione” e della “fruizione” di Dio, cioè dell’incontro della Grazia divina con la volontà di amare e di comprendere dell’uomo. “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4, 14). Allora si verificherà la “quietatio amantis in amato” la quale fa sì che il nostro intelletto raggiunga la fonte di tutti gli intelligibili che è Dio.

Questa è la concezione dello stato paradisiaco che, seguendo la grande tradizione teologica cristiana espressa da Agostino e da Tommaso d’Aquino, Dante fa sua. La visione dell’ordine, della gerarchia e dell’armonia paradisiaca, tipica sia della tradizione agostiniana che di quella tomistica, è ripresa da lui nella seconda cantica  (Purg. XV, 46 ss). Guido del Duca, che si trova tra gli invidiosi del purgatorio, conosce il danno provocato dal suo peccato, l’invidia, e ci ammonisce perché si eviti quel peccato e “men si piagna”. Ma se l’amore delle cose celesti (della “spera suprema”, l’Empireo, dove Dio appare alle anime del Paradiso) volgesse (torcesse) i  desideri umani verso l’alto, nel nostro petto non vi sarebbe la paura invidiosa di veder diminuito il nostro bene “ché per quanti si dice più lì “nostro”, / tanto possiede più di ben ciascuno / e più di caritate arde in quel chiostro”. In Paradiso, cioè, l’amore e la beatitudine non si consumano (oserei dire “con l’uso”) ma crescono in rapporto diretto con il numero dei beati; la “quietatio amantis in amato” non va intesa in senso immobilistico, perché l’amore reciproco  alimenta continuamente se stesso.

L’Amore che continua ad “ardere in quel chiostro” è dominato dall’attesa e dalla speranza. I beati attendono noi e sperano che tutti noi li raggiungiamo perché i nostri nomi sono scritti nei cieli (Lc 10, 21) e Gesù, nella Preghiera Sacerdotale prima della Passione, ha chiesto al Padre che tutti quelli che il Padre gli ha dato possano essere con Lui dove Lui è, perché contemplino la Sua gloria (Gv  17, 22 ss) “ut unum sint”.

Che altro potrebbe dire una piccola cattolica “bambina” su quello che è l’oggetto della più profonda aspirazione umana, anche se spesso purtroppo inconsapevole? Se questa mia umile riflessione sull’ultimo dei “Novissimi” è stata capace di aiutare qualche nostro fratello a progredire sempre più nel cammino tracciato per noi da Dio, allora devo proprio riconoscere che aveva ben ragione S. Teresa d’Avila quando, udendo i rintocchi della campana del suo convento che scandivano le ore, si rallegrava perché le rimaneva un’ora di meno da attendere per giungere in Paradiso.

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[1] Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, ESCATOLOGIA, Cittadella Editrice 2008.

[2] Cfr. Elio Toaff con Alain Elkann, ESSERE EBREO, Bompiani 1994, pag. 86.

[3] Cfr. pag. 234 dell’opera che ho citato.

4 commenti su “Una riflessione sul paradiso – di Carla D’Agostino Ungaretti”

  1. Il papa Paolo VI soleva dire che la nostra religione non è facile, ma rende felici, perchè il vero cristiano guarda a ciò che poi ( può) attenderlo: il Paradiso appunto, ossia la Luce beatifica di Dio.

  2. Grazie, signora Carla, per le sue riflessioni piene di sante ispirazioni. Desidero aggiungere che nei Campi Elisi dei pagani le anime erano in una sorta di malinconica quiete, ma non erano certo liete né appagate, anzi rimpiangevano il mondo che avevano lasciato. Nel libro libro XI dell’Odissea il grande Achille dichiara di preferire di essere il meno importante fra i vivi che il più importante fra i morti, e in generale tutte le ombre incontrate da Ulisse si dimostrano turbate da ricordi e preoccupazioni per i vivi. Prima di Cristo il Paradiso non esisteva? Direi piuttosto che era sbarrato agli umani, ma un luogo di Dio e degli angeli non poteva non esserci. Altrimenti da dove gli angeli ribelli sarebbero stati scacciati? Ma certo solo con l’Ascensione di Gesù e con l’Assunzione della Vergine il Paradiso può assumere la forma in cui noi ce lo immaginiamo, grazie anche alle parole di Dante Alighieri.

  3. Carla D'Agostino Ungaretti

    Gentile Signora Marina, concordo con lei. Con quell’espressione, forse un po’ drastica, non intendevo dire che prima di Cristo il Paradiso non esistesse affatto – anche se penso che non si possa immaginarlo come la “casa” di Dio, perché Dio è al di fuori del tempo e dello spazio – ma che era precluso agli uomini dopo la loro morte, anche se santi,nel senso che non esisteva la loro comunione escatologica totale con Lui. Tanto è vero che Gesù “discese all’inferno” come recita il Simbolo Apostolico, per liberare i Giusti dell’Antico Testamento e portarli finalmente con sé alla gloria del Padre.
    Comunque la ringrazio per avermi letto e per le sue osservazioni: tutto serve ad arricchirci.

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