Una riflessione sulla Resurrezione di Gesù suggerita da un’opera d’arte che mi è cara  –  di Carla D’Agostino Ungaretti

“Iam noli me tenere, nondum enim ascendi ad Patrem; vade autem ad fratres meos et dic eis: Ascendo ad Patrem meum et Patrem vestrum, et Deum meum et Deum vestrum “. (Gv 20, 17, secondo la Neo Vulgata).

di Carla D’Agostino Ungaretti

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Non mi capita spesso di entrare nella chiesa romana dei SS. Domenico e Sisto nella quale molti anni fa (per civetteria non dirò quanti) fu celebrato il mio matrimonio, un po’ perché essa è lontana dai miei itinerari abituali, e un po’ perché spesso viene tenuta chiusa a causa dei frequenti furti di opere d’arte che purtroppo si verificano nelle antiche chiese di Roma. E’ un vero peccato del quale mi rammarico molto – soprattutto quando viviamo il periodo pasquale — sia per i miei personali motivi affettivi,  sia per il motivo di fede che fra poco spiegherò.

Infatti in questo periodo dell’anno la Chiesa ci invita tutti a meditare sulla Resurrezione di Cristo, evento cardine della nostra fede, invito al quale io aderisco con  particolare impegno personale perché più rifletto sulla Parola di Dio, più mi accorgo che essa è un pozzo senza fondo che non si dissecca mai, o meglio la paragonerei a un forziere talmente ricco di tesori che non si riesce mai a vuotarlo e, quando lo si apre, vi si trova sempre qualche nuovo gioiello al quale in precedenza  non era stata prestata la dovuta attenzione.

Perché, allora,  la mia riflessione pasquale prende lo spunto da quella bella chiesa romana, poco conosciuta sia dai turisti che dai romani stessi nonostante si trovi a due passi dal Quirinale e da Piazza Venezia? Non solo, come ho già detto, perché mi ricorda il mio matrimonio, ma anche perché quella chiesa – risalente al periodo  del tardo Rinascimento romano e facente parte del complesso della Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino (detta comunemente Angelicum, dove tanti Papi da giovani  hanno studiato) – conserva sull’altare della prima cappella a destra di chi entra una pregevole opera scultorea, che a me piace molto, dell’architetto e scultore  Antonio Raggi – allievo e collaboratore di Gian Lorenzo Bernini, attivo a Roma nella prima metà del XVII secolo – raffigurante un suggestivo “Noli me tangere”. 

Ecco spiegato il motivo “di fede” per il quale mi dispiace che questa chiesa non possa essere visitata più spesso, anche se su INTERNET se ne può trovare un’ampia  documentazione fotografica che invito tutti a visitare[1]. L’episodio evangelico pasquale del “Noli me tangere” è stato celebrato in innumerevoli raffigurazioni artistiche (una delle più suggestive, secondo me, è quella del Beato Angelico nel convento di S. Marco a Firenze) ma questo lavoro di Antonio Raggi – che, come opera scultorea, ritengo sia abbastanza rara nella storia dell’arte e forse neanche la più ispirata (dovremmo interpellare, al riguardo, Vittorio Sgarbi, del cui giudizio critico io sono una sincera estimatrice) – evidentemente parla in modo particolare al mio spirito, perché il mio pensiero torna sempre ad esso quando rileggo il commovente episodio evangelico di Maria di Màgdala  che si avvia in lacrime al sepolcro del Maestro e per prima riceve la Grazia dell’incontro con il Risorto.

Sia nel dipinto del Beato Angelico che in  quest’opera di Antonio Raggi, la mano sinistra di Maria e la mano destra del Cristo, ancora avvolto nel lenzuolo funebre dal ricco panneggio  barocco agitato dal vento, stanno per sfiorarsi, ma Gesù le dice: “Non mi toccare perché non sono ancora salito al Padre”, frase sibillina che ha suscitato molti problemi filologici e interpretativi sui quali io cercherò di riflettere, non con le mie sole forze (dopotutto io sono solo una cattolica “bambina”) ma sotto la guida di P. Ugo Vanni S. J. alla cui opera di esegeta questa mia riflessione deve molto[2].

Che significa quella strana frase di Gesù e perché la povera Maria non riconosce a colpo d’occhio Colui che ella aveva ben conosciuto in vita, che aveva visto morire stando ai piedi della croce insieme alla Madre di Lui e che era tornato alla vita in un corpo di carne e ossa, anche se glorificato? E come mai, mi viene da pensare per associazione di idee, non riconoscono Gesù risorto neppure i discepoli di Emmaus che pure avevano avuto con Lui tanta dimestichezza, avendolo visto,  seguito e ascoltato?

Ripercorriamo anzitutto il cammino di questi personaggi quale è descritto da Giovanni (Cap. 20) e da Luca (Cap. 24, 13 ss). Il mattino dopo il sabato, di buon’ora, quando è ancora buio, Maria di Màgdala si reca al sepolcro di Gesù, trova la pietra sepolcrale rimossa e la tomba vuota, perciò corre ad avvertire i discepoli. Pietro e il “discepolo amato” corrono al sepolcro e vi entrano mentre lei rimane, in lacrime, all’esterno. Ad un tratto, però, “vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: Donna, perché piangi? Rispose loro: hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”.

La risposta denota che la fede della Maddalena, ancorché sincera, è ancora grezza e incompleta, al punto che ella, voltatasi, scambia per il custode del giardino il Risorto che le sta davanti e che le chiede, anche Lui, perché stia piangendo. “Signore” lo implora “se lo hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. L’affetto e la delicatezza di questa povera donna, preoccupata per la sorte del corpo di Gesù, sono commoventi. Fedele nella Passione, vicina a Lui nel momento della morte, la riconoscenza di colei che era stata posseduta da sette demoni (Mc 16, 9; Lc 8, 2) continua ad essere grande:  il Signore l’aveva liberata dal maligno e quella Grazia produce frutti umili e generosi[3].

Anche la fede dei discepoli di Emmaus è ancora puerile e limitata: essi avevano in buona fede creduto che il Messia si sarebbe presentato come un condottiero vittorioso e in quella veste avrebbe “liberato Israele“; perciò, disorientati dalle testimonianze puramente umane che hanno sentito, si confidano con lo sconosciuto viaggiatore che si è affiancato a loro nel cammino verso Emmaus.

A questo punto, i due episodi evangelici ci insegnano che è impossibile raggiungere la Fede con le sole forze umane. Maria esce “di buon mattino“: qui l’Evangelista usa a bella posta un ossimoro perché al mattino, anche se è ancora presto, non è più buio. Ma egli precisa “quando era ancora buio”,  alludendo al “buio” di fede che Maria, ignara della Resurrezione, porta dentro di sé. Ma ci dimostra anche che lo Spirito Santo – Dio viene incontro a coloro che Lo cercano con cuore sincero e l’esempio della Maddalena, che persevera nella fedeltà al Signore anche nei momenti bui della prova, ci insegna che chi cerca Cristo con sincerità e costanza finisce sempre col trovarlo.

Infatti Gesù le va incontro e la chiama per nome: “Maria!”; allora la fede di lei può fare finalmente quel salto di qualità che le permette di riconoscere il Risorto e di prorompere nel suo grido di fede: “Rabbunì!”.

I discepoli di Emmaus “si sentono ardere il cuore” mentre il loro compagno di viaggio spiega tutte le profezie riguardanti il Messia e lo invitano a fermarsi con loro per la notte, ma gli occhi della loro fede sono ancora bendati. Ancora una volta Dio va incontro a chi Lo cerca e Gesù li chiama alla fede spezzando e benedicendo il pane; allora le bende cadono,“si aprirono i loro occhi e lo riconobbero”. Devo dire che questi due episodi mi commuovono sempre quando li leggo,  e sinceramente invidio quei fortunati personaggi.

Ma torniamo a Maria di Magdala e alla famosa esortazione di Gesù: “Non mi toccare“. S. Girolamo, nella sua Vulgata, tradusse letteralmente l’originale greco con “Noli me tangere” e questa dizione rimase intatta nella Chiesa per più di 1500 anni. La Neo Vulgata – vale a dire la nuova traduzione latina della Bibbia adottata dalla Chiesa latina dopo il Concilio Vaticano II –  ha tradotto quell’espressione con “Noli me tenere”.  La Bibbia di Gerusalemme traduce quel “Noli me tenere” con “Non mi trattenere” e altrettanto fa la Bibbia di Navarra[4]; la Bibbia Interconfessionale traduce addirittura con “Lasciami” [5]. Le tre traduzioni sembrano dare per scontato che Maria, nella sua gioia, si sia gettata ai piedi di Gesù per tenerli abbracciati.  Ma Gesù non vuole essere toccato, “perché non è ancora salito al Padre”.  Io penso che l’espressione più appropriata sia quel verbo “tangere”, usato da S. Girolamo perché il verbo “toccare”, raro in Giovanni ma frequente in Luca, indica che quando Gesù “tocca” o viene “toccato” opera sempre una guarigione, tanto è vero che “tutta la folla cercava di toccarlo perché da lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc  6, 19). Lui stesso, pressato dalla folla, dice: “Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito una forza che è uscita da me” (Lc 8, 46). Non si tratta di guarigioni di tipo medico, perché queste hanno un campo di azione molto più limitato di quelle operate da Gesù; Egli, infatti, operando una guarigione, rimette anche i peccati stabilendo tra se stesso e l’uomo, un rapporto  che arriverà al contatto altissimo e sorprendente di “mangiare” la sua carne e “bere”  il suo sangue, come disse Lui stesso nella sinagoga di Cafàrnao suscitando tante discussioni tra i Giudei e anche scandalo, tanto che molti lo abbandonarono (Gv 6, 53 ss). Ma allora, se il contatto col Gesù terreno sprigionava tanta energia risanante a tutti i livelli,  altrettanta e anche di più avrebbe dovuto produrne il contatto con il Risorto. Perché allora Gesù nega questo contatto vivificante a Maria di Màgdala?

“Perché non sono ancora salito al Padre”, le spiega Gesù. Questo significa che, mentre le parla, la sua salita al Padre e il Suo ingresso corporeo nella gloria non si sono ancora verificati ma devono avvenire al più presto. Infatti, gli immensi meriti che Gesù ha acquistato mediante la sua Passione, Morte e Resurrezione devono essere offerti al Padre, prima che agli uomini, perché tutta la vita di Gesù è stata una continua offerta  di se stesso a Dio nell’adempimento della volontà del Padre e la sua azione di dono agli uomini come Risorto, che avverrà lasciandosi “toccare” (pensiamo all’episodio dell’incredulità di Tommaso, detto Didimo)  inizierà dopo l’incontro con Lui, lo stesso giorno della Resurrezione. Infatti è il Padre che ha il diritto di vedere per primo il Figlio risorto che ha fatto in pieno la Sua volontà, attuando quel progetto di salvezza ideato “prima che il mondo fosse”.

Questo aspetto fondamentale era già stato manifestato da Gesù nella meravigliosa Preghiera Sacerdotale (Gv 17, 1 – 26) di oblazione e intercessione in cui Egli, sentendo vicina l’ora della passione e della resurrezione (“Ora io vengo a te”) chiede al Padre di glorificare il Figlio perché il Figlio possa glorificare il Padre. L’aspirazione fondamentale di Gesù in questa stupenda preghiera è che il Padre gli conceda, quando lui Gli si presenterà, di avere davvero compiuto con la sua Passione e Resurrezione tutto il progetto di gloria che il Padre aveva formulato .La preghiera di Gesù è sempre esaudita dal Padre e quando Lui parla alla Maddalena è proprio sul punto di salire al Padre.

Ma Gesù aggiunge: ” Va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Già in queste parole si nota che, dopo la Resurrezione, una confidenza e un grado di intimità ancora maggiori si stanno verificando tra Gesù e i discepoli. In precedenza Egli li aveva chiamati “amici”: “Non vi chiamo più servi perché il servo non sa ciò che fa il padrone. Vi ho chiamati amici perché quello che ho udito dal Padre mio ve l’ho fatto conoscere” (Gv  15, 15). Ora li chiama “fratelli”, perché per loro si è creato un nuovo rapporto con il Padre, particolarmente vicino a quello proprio di Gesù. Subito dopo essersi presentato al Padre Il Risorto si mostrerà ai suoi “fratelli”, facendosi  “toccare e guardare” (Lc 24, 39) e a me piace pensare (perché no?) che i discepoli, esultanti, lo abbiano addirittura abbracciato piangendo di gioia. Infatti, che altro avrebbero potuto fare quei (fortunati) poveretti nel momento in cui veniva svelato loro il mistero più profondo e venivano resi partecipi del più grande miracolo operato da Dio, se non adorarLo e lodarLo piangendo di gioia e di gratitudine?

E, si badi bene, quell’annuncio, di importanza fondamentale, Gesù lo aveva affidato proprio a Maria di Màgdala – una semplice donna che, per giunta, sembra essere stata anche una prostituta che, come tale, occupava il gradino infimo della scala sociale del tempo – ma, in un primo momento, “quelle parole erano parse loro come un vaneggiamento e non avevano creduto ad esse” (Lc 24, 11).  C’era, e c’è tuttora, in questo episodio materia sufficiente per capovolgere tutte le categorie mentali del “mondo”.

Il salto di qualità che si è verificato nella fede di Maria è rivelato da un particolare significativo: al momento della rivelazione, ella chiama il Risorto “Rabbunì”, cioè “Mio Maestro“, come faceva durante la vita terrena di Gesù; più tardi, quando porterà ai discepoli la notizia della Resurrezione, dirà di aver visto “il Signore” (Gv 20, 17b), dando a Gesù Risorto quel tipico titolo che lo pone sullo stesso piano di Dio. Ormai Maria non vive più “nel buio“; la sua fede, che sembrava paralizzata, viene nuovamente vivificata dal contatto diretto con Gesù risorto; la premura e l’amore del Risorto, la stima e la fiducia che Egli le dimostra affidandole un importantissimo messaggio per i discepoli, la riportano nella luce della Fede; la sua metànoia ormai è totale e non più attaccabile.

Mentre scrivo queste mie umili riflessioni, mi rendo conto che sono ancora molti i contatti con il Risorto che meritano di essere studiati, approfonditi e meditati alla luce della fede e Vangeli alla mano: Deo favente, mi riprometto di farlo nelle prossime occasioni.

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[1]  Per il “NOLI ME TANGERE”: http://www.thais.it/scultura/image/ALTE/SB_492.htm

[2] Cfr. Ugo Vanni S. I.  Dalla fede al contatto con Gesù Risorto. Il messaggio pasquale di Giovanni 20, in La Civiltà Cattolica, n. 3932 del 19.4.2014.

[3] A questo punto devo aprire una parentesi, ricordando quella splendida e drammatica raffigurazione del dolore di Maria di Màgdala che ne ha dato Masaccio nella “Crocifissione“, facente parte dell’ormai disperso polittico di Pisa, conservata nel Museo di Capodimonte a Napoli. Non si vede il volto della donna, dai lunghi capelli biondi, perché è raffigurata di spalle, ma le sue braccia aperte come per abbracciare il Crocifisso nell’estremo tentativo di arrecargli un po’ di sollievo negli spasimi dell’agonia sono, a mio giudizio, sconvolgenti e una delle più alte rappresentazioni del dolore umano, insieme alla Crocifissione di Matthias Grunevald  della Cattedrale di Colmar.

[4] LA BIBBIA DI NAVARRA – I quattro Vangeli, Edizioni ARES, Milano 1988, pag. 1027.

[5] Ed. ELLEDICI – ABU – IL CAPITELLO, pag. 1508.

2 commenti su “Una riflessione sulla Resurrezione di Gesù suggerita da un’opera d’arte che mi è cara  –  di Carla D’Agostino Ungaretti”

  1. Meravigliose riflessioni, cara Signora Carla, ma io, nella mia pochezza, oso soffermarmi affascinata su quel nome “Maria” che il Risorto pronuncia nell’incontro con la donna che sul momento non lo riconosce. E immagino il tono della Sua voce, l’inflessione carezzevole, la dolcezza quasi compassionevole, come a dirle: “non Mi riconosci? GuardaMi, ascoltaMi, sono Io, Maria…” E la chiama per nome, confidenzialmente, amorevolmente; immagino l’abbozzo del Suo adorabile sorriso, la dolcezza infinita del Suo sguardo, la mano tesa in gesto di benevolenza e di attenzione insieme. “Ma non toccarMi, Maria, ché non sono ancora salito al Padre mio”. Delicato il suo invito.E lei che rimane stupefatta, meravigliata di se stessa,con le lacrime agli occhi, di fronte al suo Signore, vivo. Le si aprono davvero gli occhi e il cuore le si spalanca.Anche noi chiama così il Redentore, sempre. Preghiamo Sua Madre perché riusciamo a sentirLo e a vederLo . E quel “GuardaMi, riconosciMi, sono Io” ci annuncerà la vita eterna.

  2. Cara Carla, non posso dirle altro che GRAZIE, GRAZIE GRAZIE!!!
    Le auguro di cuore che il Signore Risorto continui ad esserle così vicino,
    talmente vicino da consentirle di farci sempre questi Santi Bellissimi Doni.

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