Una riflessione sulla seconda virtù teologale: la Speranza – di Carla D’Agostino Ungaretti

“Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui” (Is 8, 17).

Spe salvi facti sumus” (Rm 8, 24).

 “In Te, Domine, speravi: / non confundar in aeternum.

di Carla D’Agostino Ungaretti

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In una precedente riflessione mi domandavo che cosa sia la Fede cristiana cominciando dal capire anzitutto che cosa essa sicuramente non è, e concludendo che essa consiste nell’abbandono totale dell’uomo alla Provvidenza divina, ispirato naturalmente dalla Speranza, il che mi fa capire quanto strettamente siano intrecciate fra di loro queste due virtù. Infatti se si ha la Fede, si ha anche la Speranza e, se si spera, vuol dire che si ha anche la Fede.  Ora, sempre da cattolica “bambina” quale io sono, vorrei proseguire la mia riflessione, anche alla luce degli insegnamenti di Benedetto XVI, e soprattutto dall’Enciclica “Spe salvi”, riflettendo su quella seconda virtù che il Nuovo Testamento definisce “teologale”, in quanto “virtù soprannaturale propria del cristiano”, perché Dio, che ne è la fonte, il sostegno e il termine, ha attribuito a questo Mistero un grande potere di consolazione[1].

Iniziando la mia riflessione, il primo pensiero che mi viene in mente è la celebre frase che S. Agostino pronuncia nell’incipit di quel meraviglioso libro che sono le “Confessioni” e che io amo infinitamente: “Tu ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te”.  Essa non rivela solo la profondità teologica di quel grandissimo Santo e Dottore della Chiesa dall’animo di poeta, ma esprime anche il sentimento che invade l’uomo che spera: l’inquietudine e l’ansia, avvertita da tutti i grandi Santi, che si realizzi presto quella “speranza”, quella irrefrenabile impazienza, cioè, cioè di trovare la Pace tra le braccia di Dio. Non per nulla S. Teresa d’Avila si rallegrava quando sentiva i rintocchi della campana del suo convento che scandivano le ore che passavano, perché pensava che doveva aspettare un’ora di meno per “riposare in Dio”. Il  messaggio che Agostino e Teresa ci trasmettono non è la paura della morte, peraltro naturalissima, ma la certezza, sostenuta dalla Speranza, che la morte non è la fine, ma il principio, perché ci conduce, appunto, tra le braccia di Dio. Ecco quindi la grande consolazione che ci proviene dalla Speranza e di cui parla Benedetto XVI il quale richiama in proposito il Salmo 42: il Levita esiliato piange la sua disgrazia, ma nel suo lamento c’è anche una grande speranza :“Perché ti rattristi, anima mia / perché su di me gemi? / Spera in Dio: ancora potrò lodarlo / Lui salvezza del mio volto e mio Dio”.  Nemmeno la morte può vanificare la speranza di chi crede perché Cristo  ha preparato per tutti noi un posto in cielo e là vuole condurci[2].

Ma Agostino e Teresa sono stati due grandi Santi e Dottori della Chiesa, ben diversi da noi uomini e donne comuni, poveri peccatori che si ritrovano a vivere in  questo tribolato XXI secolo che non favorisce certo la santità e la “metànoia” a Dio.  Apparentemente, ed erroneamente, la Speranza sembra molto più facile da definire che non la Fede, perché tutta la nostra vita quotidiana è intessuta di speranze.  Anche se i grandi Ideali, come Dio, Patria e Famiglia, in questo nostro mondo postmoderno sembrano scomparsi, non di meno tutti noi speriamo in qualcosa: anzitutto di godere sempre di buona salute, poi di avere figli buoni e ubbidienti, di ottenere promozioni sul lavoro; speriamo che il tempo si mantenga buono e ci consenta la gita programmata, che la situazione economica migliori, fino ad arrivare a sperare di vincere la lotteria di Capodanno e che la nostra squadra del cuore vinca il derby. Ma queste speranze non hanno nulla a che fare con la Speranza cristiana, perché essa non si rivolge a valori puramente terreni, anche se preziosi e importanti nella vita quotidiana, ma al bene supremo della piena e irreversibile comunione con Dio attuabile solo dopo la morte. Anzi: quelle speranze, se accarezzate e perseguite come unici scopi della nostra esistenza,  servono solo ad  allontanarci sempre più dalla Fede.

Ma come si può vivere “sperando” in senso cristiano quando le gioie e le soddisfazioni della nostra vita quotidiana si rivelano spesso effimere e più frequentemente si presentano davanti a noi le delusioni, i dolori, i fallimenti e le difficoltà? Infatti non sono solo i problemi della nostra vita quotidiana quelli che insidiano la Speranza, ma anche quelli del momento storico che stiamo vivendo e che sono sotto gli occhi di tutti noi. Ci affligge la consapevolezza che, nonostante il progresso scientifico e tecnologico raggiunto,  l’umanità del XXI secolo non ha fatto un solo passo avanti verso una maggiore fratellanza, solidarietà e comprensione tra popoli diversi, ma ha disgregato la famiglia e ha svalutato la vita umana. Non sono solo le guerre, la povertà, la fame e il terrorismo che affliggono tante nazioni a far vacillare la nostra speranza, ma anche e soprattutto il travisamento totale della realtà ontologica dell’uomo, quella realtà naturale che è stata sempre riconosciuta come tale da millenni e che ora viene attaccata e negata in nome dell’egoismo individualistico che io non esito a definire barbaro, perché  si disinteressa totalmente del futuro e dei danni che causerà alle generazioni successive. “Après moi, le déluge, dopo di me, il diluvio”, sembra pensare l’uomo di oggi.

Invece la Speranza cristiana non riguarda solo l’individuo. La nostra speranza riguarda sempre anche gli altri, perché “nessun uomo è un’isola”, come scrisse il poeta inglese John Donne. Il vero cristiano (insegna Benedetto XVI) non si domanda solo: “Come posso salvare me stesso?” Egli deve domandarsi anche: “Cosa posso fare perché anche gli altri si salvino e sorga anche per loro la stella della Speranza?” Allora avrà fatto il massimo anche per la sua salvezza personale[3]. Infatti la Speranza cristiana non riguarda il presente contingente e materiale, ma relativizza le mete, anche grandi e meravigliose, raggiunte dall’uomo; non si lascia trarre in inganno da utopie terrene; non pretende di avere tutto e subito, ma si impegna responsabilmente e concretamente in questo mondo senza lasciarsi affascinare da effimere illusioni; si orienta verso il futuro, amando gli uomini e il creato per i quali spera e attende la redenzione sperando per tutti, nell’attesa del “nuovo cielo” e della “nuova terra” promessi da Dio.

L’uomo è un essere che “desidera”, che aspira sempre a qualcosa di più rispetto a quello che ha, a una pienezza di vita che riceve sempre nuove delusioni per l’esperienza dei propri limiti, per le circostanze avverse e infine a causa della stessa morte. Ma se, nella nostra libertà, accettiamo la proposta cristiana , allora S. Paolo ci esorta a non  “affliggerci come gli altri che non hanno speranza” (1Ts 4, 13) perché Dio ci dà l’impulso ad andare oltre noi  stessi oltrepassando i confini del già dato. Allora la meta individuata oltrepassa la morte e possiamo cominciare a capire sempre meglio cosa sia la Speranza cristiana: l’attesa fiduciosa che si realizzino le promesse che Dio ci ha fatto e che necessariamente presuppone la Fede. Benedetto XVI ci spiega che a differenza dei pagani, sia antichi che moderni, “i cristiani hanno un futuro … sanno che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”[4].             

Nell’Antico Testamento Dio promette ad Abramo la terra e una discendenza numerosa quanto le stelle del cielo ed egli confida in Lui anche quando – a causa della sua vecchiaia e di quella di sua moglie – ogni speranza di procreare sembra svanita. Di  generazione in generazione, il popolo di Israele spera nell’avvento di un Re giusto che inauguri un periodo di pace e di prosperità e tenterà più volte, nel corso della propria storia, di procurarsi da sé i beni promessi da Dio, alleandosi con i popoli più potenti, adottando culti formalistici e adorando dei stranieri. I profeti denunciano queste false speranze foriere soltanto di disgrazia e di morte e invitano invece a rinnovare la propria speranza mediante la fedeltà a JHWH anche quando Egli nasconde il Suo volto, come dice il Profeta Isaia nella frase che ho citato in epigrafe. Anche se la salvezza tarda, bisogna attenderla senza dubitare perché solo Dio è la speranza di Israele. Nel libro della Sapienza e nel secondo libro dei Maccabei la Speranza ha fatto un notevole passo avanti perché oltrepassa il confine della morte: si spera nella resurrezione perché Dio non può abbandonare nel nulla coloro che ama (2Mc 7, 14 – 20; Sap 3, 4; 5, 14 – 20).

Con la venuta del Cristo, il popolo di Dio vive in due diverse realtà: il già e il non ancora. Da un lato, la promessa è divenuta realtà perché Dio è già venuto e ha già redento il mondo e la storia: “il Padre … ci ha liberati dal potere delle tenebre / e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, / per opera del quale abbiamo la redenzione, / la remissione dei peccati” (Col 1, 13 – 14). D’altro canto, però, gli uomini soffrono ancora del retaggio del peccato originale e continuano a morire, a sperimentare il dolore, la sofferenza, la malattia. Allora il compito della Speranza radicata nella Fede sarà quello di colmare la distanza tra “il già” e “il non ancora” alimentando la Carità, la terza virtù teologale, l’amore gratuito per ogni uomo riconosciuto fratello in Cristo, come insegna S. Paolo ai Corinzi (1Cor 13, 13).

Non è facile perseverare nella Speranza quando siamo afflitti dalla malattia, dal dolore per la perdita delle persone care, dai disastri naturali che ci privano di tutto, ma se abbiamo la Fede sappiamo anche che c’è una presenza misteriosa accanto a noi, quella di Dio che, se ha invitato alla Speranza gli antichi profeti come Daniele (“Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno … i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento … – Dn 12, 2), a maggior ragione ci ha infuso la Speranza con quella meravigliosa frase pronunciata da Gesù che per me è sempre stata una fonte di enorme coraggio in alcuni momenti brutti della mia vita: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate Fede anche in me” (Gv 14, 1). Cosa c’è di più consolante di quella Voce che mentre piangiamo ci sussurra: “Non avere paura! Io sono accanto a te!”. Basta aprire il proprio cuore all’ascolto fiducioso e allora ci verrà spontaneo rispondere: “Signore, sia fatta la Tua volontà, perché so che essa è sempre finalizzata al mio bene!” e la pace che Gesù ci ha assicurato ci riempirà e sorreggerà il nostro spirito afflitto, ridimensionando enormemente i nostri problemi materiali o morali. Io l’ho sperimentato e posso ben testimoniarlo.

La Parola di Dio è un pozzo senza fondo che non si esaurisce mai ed io, con queste mie umili riflessioni sulla Speranza, virtù strettamente intrecciata alla Fede, non pretendo affatto di aver esaurito gli innumerevoli spunti di meditazione che essa ci offre. Esse sono state condotte con i miei umili e limitati mezzi di cattolica “bambina”, ma con una grande finalità e una determinazione altrettanto grande: che siano soprattutto una preghiera. Infatti io prego costantemente perché Dio trasformi la mia piccola speranza in una certezza assoluta: quella certezza che ha animato tanti grandi cristiani facendoli veramente “cooperare” con Dio nel far approdare alla Fede tanti nostri fratelli che ne sono lontani.

E, più umilmente, mi auguro anche di illuminare tante giovani menti che purtroppo di Catechismo sanno ben poco.

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[1]Benedetto XVI.  Omelia durante la celebrazione dei Primi Vespri della I domenica di Avvento. 1 dicembre 2007.

[2] Omelia del 5.11.2007.

[3] Enciclica “Spe salvi” , n. 48.

[4] Enciclica “Spe salvi”, n. 2.

5 commenti su “Una riflessione sulla seconda virtù teologale: la Speranza – di Carla D’Agostino Ungaretti”

  1. “Dall’inizio del mattino fino alla veglia della notte speri Israele nel Signore, poiché presso di Lui è la misericordia e la più abbondante redenzione. Ed Egli stesso redimerà Israele da tutte le sue iniquità”. Recitava così il “De profundis” preconciliare. Sembra tanto difficile, ma è una speranza infinita in una realtà che davvero avverrà: la conversione di Israele. Affidandoci a Dio è impossibile non coltivare la Speranza.

  2. Il mio grazie a questa cattolica “bambina” ma molto “adulta e preparata” per il suo inno alla SPERANZA…….
    caramente la saluto

  3. ….e sulla porta della cella n.5 che occupava S.Pio da Pietrelcina, Egli aveva voluto questa scritta: “MARIA,TUTTA LA RAGIONE DELLA MIA SPERANZA”.
    Non è meraviglioso?!

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