Nietzsche? Un cristiano in lotta con se stesso

È possibile che Nietzsche sia sempre stato completamente frainteso? Certamente sì: le interpretazioni di Nietzsche sono talmente numerose che c’è solo l’imbarazzo della scelta, dall’estrema destra all’estrema sinistra dello spettro politico e ideologico, e passando per tutte le tappe intermedie, per tutte le variazioni sul tema, per tutte le eresie e le contro-eresie della sua interpretazione classica, quella legata alla volontà di potenza e al concetto del superuomo, e pazienza se in tedesco Übermesch significa oltre-uomo e non super-uomo, che è un concetto completamente diverso.

Anzi il mercato delle interpretazioni nietzschiane è talmente saturo che qualsiasi originalità, qualsiasi stramberia, qualsiasi balordaggine viene accolta con vivo interesse e quasi con un senso di sollievo, e viene presa molto sul serio prima ancora di entrare nel merito: tale è la noia che ormai domina in un campo eccessivamente sfruttato perfino da quella razza notoriamente brava a masticare e rimasticare senza posa, con minime variazioni, la stessa minestra, che è la casta dei professori accademici.

Sorge però, a questo punto, un dubbio: e se Nietzsche fosse stato frainteso, prima di tutti da se stesso? Se Nietzsche fosse in intimo disaccordo con se medesimo? Secondo questa linea interpretativa, che è stata battuta con felice intuizione da Maurice Clavel e da pochi altri, la vera domanda non dovrebbe essere “che cosa ha veramente detto Nietzsche?”, bensì “è legittimo identificare Nietzsche con il suo pensiero?”. Oppure bisognerebbe distinguere fra il pensiero esplicito di Nietzsche, quello contenuto nelle sue opere, e il suo pensiero nascosto, quello che egli ha costantemente cercato di combattere e di soffocare in se stesso, così come un genitore crudele e insensato cerca di strangolare il suo stesso figlio nella culla, perché non vuole udire la sua voce, non vuole prendere atto del suo diritto ad esistere?

Se, insomma, tutte le opere di Nietzsche, tutta la sua filosofia, altro non fossero che una sfibrante battaglia da lui condotta per reprimere e ridurre al silenzio la sua voce interna, la sua coscienza, la sua stessa intelligenza, battaglia che è terminata come diversamente non poteva, ossia con la pazzia di colui che non riusciva a mettersi d’accordo con se stesso ed era troppo fiero, troppo orgoglioso per ammettere, in se stesso, quella debolezza, quel fallimento, se non addirittura quel segreto risentimento, che tanto volentieri rimproverava agli altri?

Si dirà: ecco della psicologia a buon mercato; peggio, della psicanalisi: si vuol vedere in Nietzsche qualcosa che nei suoi scritti non c’è, ricorrendo all’inconscio, alla repressione, alla nevrosi. Si rassicuri chi pensasse una cosa del genere: niente psicanalisi e niente inconscio. Gli elementi per sostenere la tesi suddetta non sono inconsci, anche se hanno avuto un’autentica rivelazione al momento della pazzia, quando le cose che il filosofo disse, e soprattutto quelle che scrisse nei famosi “bigliettini della pazzia”, gettano una luce eloquente sul fondo della sua anima e anche del suo autentico pensiero.

Chi sostiene di essere il nuovo Crocifisso, chi abbraccia un cavallo che è stato bastonato, piangendo calde lacrime sul mistero del dolore universale, quasi volesse prendersene il fardello sulle spalle, non può essere lo stesso uomo che teorizza la forza come mancanza di compassione, che deride la morale dei buoni e dei pietosi e che proclama la trasvalutazione di tutti i valori, dichiarando buono e santo tutto ciò che finora è stato considerato cattivo e maledetto, e viceversa.

Ma oltre a questo, c’è un altro indizio di quale fosse il vero pensiero e il vero sentire di Nietzsche. Certamente il lettore un po’ attento e sensibile si sarà accorto che le opere del filosofo tedesco, specialmente a partire dallo Zarathustra, sono caratterizzate da un tono arguto e baldanzoso, da un ottimismo forzato, da una specie di allegria che ha qualcosa di malsano: come se il pensatore del ritorno alla terra avesse bisogno di raddoppiare le dosi del suo stile per convincere gli altri, ma forse, prima di tutti, se stesso, della bontà di quel che sta dicendo, e soprattutto che egli ci crede davvero, che quelle non sono soltanto le sue parole ma è anche il suo più intimo sentire.

A mettere pienamente in luce questo aspetto della personalità di Nietzsche, offrendo una chiave di lettura veramente rivoluzionaria del suo pensiero, è stato Maurice Clavel (Hérault, 1920-Asquins, 1979) , un filosofo marxista, anzi maoista, convertitosi al cattolicesimo e divenuto il fondatore dei “nuovi filosofi” che, facendo i conti con Solzenitsyn, hanno contestato la pretesa del comunismo di essere la sola via alla liberazione dell’uomo, e in genere quella della sinistra, di egemonizzare la cultura occidentale. La sua lettura di Nietzsche si inscrive in quella di una filosofia più ampia, che culmina nei quattro maestri che si sono ribellati a Dio: oltre a Nietzsche, e prima di lui, Fichte, Hegel e Marx, i quali rappresentano la tentazione demoniaca di un pensiero che vuol dominare il mondo, laddove Gesù Cristo, e Lui solo, rifiuta la tentazione di Satana di avere un tale dominio e lascia all’uomo la sua libertà di scelta. Ma il filosofo tedesco è quello che vive nella maniera più intima e lacerante, sulla sua stessa carne, il dramma della rivolta anticristiana. Questa lettura è stata ben sintetizzata dal giornalista e saggista cattolico Roberto Righetto nel suo volume La conversione del filosofo maoista. Maurice Clavel (Edizioni Piemme, 1998, pp. 150-153):

Nella sua opera, Nietzsche ha perseguito il sogno di potenza del suo ego; nella sua volontà di dominare la terra, Clavel vede la volontà del Diavolo: Lui stesso si dà il nome di Anticristo prima di soprannominarsi il Crocifisso dal momento in cui inizierà la sua follia. Proprio sulla pazzia di Nietzsche si sofferma Clavel, che arriva a supporre che “la malattia sia stata la sua opera, e la sua pretesa follia la salvezza, la pace”. Sono probabilmente le pagine migliori del libro quelle dedicate a Nietzsche col titolo “Le Cheval de Turin”. Si sa infatti che il filosofo, ormai in preda alla pazzia, nel gennaio del 1889 nel pieno centro di Torino abbracciò un cavallo che era stato maltrattato dal vetturino, gridando: siate contenti, io sono Dio, io mi sono camuffato così. Il filosofo della forza che sempre aveva osteggiato la compassione si lascia finalmente andare. E c’è chi ha accostato l’episodio al sogno di Raskolnikov: in “Delitto e castigo” di Dostoevskij infatti il protagonista fantastica di sé bambino che col padre vede un contadino ubriaco bastonare a morte il suo cavallo: il piccolo, commosso, si getta al collo della bestia e lo bacia.

Clavel si incuriosisce per una frase di Nietzsche, in cui il pensatore tedesco afferma di essere oppresso a causa del “dovere” che gli è imposto. Qual è questo dovere? Clavel offre la sua interpretazione: “Se questo dovere, che gli è stato imposto, fosse la sua opera stessa, e fosse imposto perché contrario al suo cuore profondo, molto profondo?”. La follia di Nietzsche sarebbe dunque il segno della resistenza che egli, dal fondo della sua anima, sempre oppose, tra sofferenze e lacerazioni indicibili, alle sue teorie, ai suoi libri che avevano tanto successo. La sua agonia è segno del conflitto interiore di cui era preda, tra ciò che gli urgeva nel cuore e la sua ambizione, che gli faceva desiderare di essere capace di dominare l’angoscia infernale del mondo in cui egli viveva. “Si dice l’Anticristo? Lo è. Se ne fa un dovere? Certamente. Ma questo dovere, questo ruolo, questo destino si esercitano contro il fondo di se stesso, e l’opprimono. Quale fondo? Dio, il suo amore, la sua immensa bontà, quella di Dio e la sua propria, senza dubbio”.

L’ansia di scrivere che lo prende perché sente avvicinarsi la fine (quattro volumi in un anno) deriva per Clavel dal fatto che sente farsi sempre più forte la lotta della coscienza contro la sua opera. Tutta la sua filosofia è la negazione di quel bisogno di adorazione che accumula nella vita. Così, trascorre i suoi giorni a combattere contro se stesso: “Egli ci riesce per molto tempo, a condizione di non cessare mai di lottare”. È questo, secondo Clavel, il dovere che si è imposto, finché non lo prende la pazzia completa . Ed è in questa follia che Nietzsche ritrova la pace del suo essere: “Egli non perse che la ragione: fu salvo a questo prezzo”.

Due ipotesi sembrano possibili a Clavel sulla follia del pensatore tedesco: “O Nietzsche aveva così violentemente opposto resistenza a questo mondo – orgoglio! – che il suo disastro fu senza rimedio e che, spenta la tensione, non gli restava più nulla… Oppure, al contrario, la follia di Nietzsche non doveva nulla alla pressione o alla repressione di questo mondo… Delle due ipotesi, paradossalmente, io scelgo la seconda”. Nietzsche aveva perfettamente coscienza di quello che faceva, conosceva il senso della sua battaglia. Allora, conclude Clavel, “la follia di Nietzsche rifiuta la sua opera, o ancora egli rifiuta la sua opera, a causa della follia, o meglio qualcosa in lui rifiuta la sua opera e non può rifiutarla che con la follia, perché la sua opera l’ha troppo preso, posseduto”. La pazzia non è dunque un castigo, la rivincita di un Dio vendicativo, ma la liberazione del suo essere profondo. Nel suo cuore, Nietzsche era obbligato a riconoscere la presenza di una realtà inafferrabile e trascendente. La tensione fra questa ammissione e l’orgoglio del filosofo sarebbe stata così forte che avrebbe avuto sfogo nella pazzia: Clavel è cosciente che nessuna delle sue affermazioni trova un riscontro, però è certo che questa è la strada che bisogna percorrere se si vuole dare un’interpretazione profonda alla vita e all’opera di Nietzsche, alla sua follia e alla sua morte. Ed è certo anche che il nemico di domani del cristianesimo (teniamo presente che “Deux siécles chez Lucifer” esce nel ’78) non sarà più Marx ma Nietzsche. Quel Nietzsche che ha abolito ogni teodicea e per il quale “anche Dio ha il suo inferno, il suo amore per gli uomini. Dio è morto. Ed è morto a causa del suo amore per gli uomini” (“Così parlò Zarathustra”); quel Nietzsche che ha decretato anch’egli la morte della metafisica in nome però di un delirio d’onnipotenza ancor più profondo; quel Nietzsche si esalta autodefinendosi “il nuovo destino” o scrivendo: “Solo a partire da me ci sono di nuovo speranze” (“Ecce homo”); quel Nietzsche che vede se stesso “assiso al letto di morte del cristianesimo”, affascinato da questo spettacolo “che è riservato ai prossimi due secoli d’Europa” (“Aurora”) e che può soddisfatto proclamare: “Cosa sono mai ancora queste chiese, se non le tombe, i monumenti funebri di Dio?” (“La gaia scienza”); quel Nietzsche, infine, la cui “dottrina dell’assenza della compassione nel superuomo” è sensibilmente contraddetta dalla sua biografia: come pochi altri egli dovette ricorrere alla pietà nei confronti del prossimo”.

I sostenitori delle varie interpretazioni di Nietzsche che restano legate alla vulgata “classica” e che vedono in lui il filosofo della liquidazione di Dio, dell’immanentismo radicale e del “sì” alla vita spinto fino alla estrema conseguenza dell’eterno ritorno dell’uguale, reagiscono quasi con sdegno di fronte a questa lettura che, fra l’altro, ha la “colpa” di arruolare Nietzsche proprio in quell’esercito dei credenti dei quali egli si fa beffe e contro i quali vuole indossare i panni del’Anticristo, di colui che si oppone radicalmente alla morale del Vangelo.

D’altra parte, quel che sappiamo di lui avvalora la tesi di Clavel che egli avesse un senso del dovere così forte, da poterne fare benissimo il cardine della sua intera esistenza. E quale dovere aveva da svolgere, quaggiù, il filosofo tedesco? Quale, se non fornire agli uomini smarriti una guida, come fa il suo Zarathustra? Gli uomini sono smarriti perché Dio è morto; ed è pur vero che Egli è morto perché essi l’hanno ucciso: tuttavia, a ben riflettere, avrebbero potuto ucciderlo se Egli non l’avesse permesso? Se non l’avesse addirittura voluto? In questo senso, Dio è morto per l’infinito amore che ha per gli uomini; e l’infinito amore di un Padre comprende il rischio tremendo di lasciare che i suoi figli facciano l’uso peggiore della loro libertà.

Come i vignaioli omicidi della parabola evangelica, gli uomini hanno usato la loro libertà per uccidere il Figlio di Dio e ritenersi, così, i padroni della vigna: ma a quel punto, chi potrà ridare ad essi un orizzonte di speranza? Se rifiutano nel modo più radicale la Speranza che viene da Lui, a quale altra speranza potranno mai aggrapparsi? C’è veramente da impazzire per l’angoscia e la disperazione; a meno che qualcuno si sacrifichi per amor loro, così come ha fatto il Figlio di Dio. Per loro e per tutti gli altri esseri viventi, perché la sofferenza investe tutti e quindi anche il riscatto dal male dovrà rivolgersi a tutti; anche ai cavalli battuti e maltrattati dai loro padroni.

Certo, nessun uomo potrà mai riscattare la sofferenza dell’umanità: però gli uomini che prendono Cristo a modello sino in fondo, e si offrono come vittime per l’espiazione del male, seguono la strada indicata dal Vangelo: assumono su di sé la croce e vanno dietro a Gesù, perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà (Matteo, 16, 25). In fondo, a ben guardare non è forse Zarathustra terribilmente simile a Cristo, e Nietzsche tutt’uno con Zarathustra? Non sono guidati da un fortissimo senso del dovere, dalla coscienza di assolvere a un preciso dovere? La differenza è che Nietzsche subisce il dovere di portare agli uomini il contro-vangelo che è la rivelazione della terra, e il suo intimo ne soffre; mentre nel vero cristiano l’adesione totale e incondizionata alla volontà del Padre è fonte di pace. Quella pace che Nietzsche troverà solo alla fine, nella mite e quieta follia degli ultimi dieci anni della sua esistenza terrena…

2 commenti su “Nietzsche? Un cristiano in lotta con se stesso”

  1. Caro Lamendola, certo che ci sono contraddizioni e lacerazioni in un posseduto da satana come Nietzsche. Certo che c’è lotta interiore, che non tutto è piano e logico in una filosofia della follia. Abbracciare cavalli può esser sintomo di un attacco psicotico, più che di bontà. Resta chiaro quello che egli ha scritto. Speriamo che si sia pentito. Di lui ha scritto il grande J.L. Borges: “è un pazzo che urla”. La pazzia non è arrivata alla fine , si è solamente evoluta al suo stadio finale.
    Bruno PD

  2. stefano raimondo

    Come si può non concordare con Nietzsche su molte questioni? Da cattolico debbo riconoscere che svariati concetti espressi da Nietzsche sono condivisibili, penso ad esempio a ciò che è contenuto nel suo “Genealogia della morale”. Forse molte conclusioni sono esasperate, ma le constatazioni di Nietzsche relative al cristianesimo (soprattutto di una certa interpretazione di questo) direi che sono oggettive. Del resto basta guardarsi attorno e osservare il degrado e la de-virilizzazione imperanti, patologie nate a causa dei buoni sentimenti (qui purtroppo un certo cristianesimo, che forse non è neanche tale, ha contribuito allo sfacelo). Apprezzo l’articolo di Lamendola.

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