La preghiera del cuore. Incontro con padre Beniamino Lucis – di Cristiano Lugli

La vita di oggi, rispetto alla vita del passato, è certamente più frenetica, più chiassosa, più alienante. Spesso si sente dire che l’uomo del passato viveva molto meno dell’uomo moderno, e questo fatto lo si evidenzia in modo negativo. Pochi però rammentano quanto la vita degli uomini e delle donne di ieri fosse sì più faticosa e breve, ma molto più dedita al raccoglimento, al silenzio, alla qualità, alla stessa libertà da vincoli superflui che oggi ci legano al mondo allontanandoci dalle “cose di Lassù”. A risentirne anche il tema della preghiera: quanto è difficile pregare oggi, quanto la preghiera sembra ormai esser fuori luogo ovunque, persino e soprattutto nelle chiese? Lo sciame di distrazioni, di vacue preoccupazioni e della materialità regnante che occlude ogni pensiero rivolto al Cielo, rapisce e contrasta quel raccoglimento che un tempo era aiutato dalle stesse condizioni, povere ma cristiane, in cui le persone vivevano. Urge raccogliersi in se stessi, in quella cella che sta nel proprio cuore, come diceva Isacco di Ninive: «Cerca di entrare nella tua cella interiore e vedrai la Cella celeste. L’una e l’altra sono la stessa cosa, e la stessa porta apre la visione di ambedue. La scala che conduce al Regno è nascosta dentro di te, nella tua anima. Lavati dalle macchie del peccato, scoprirai i gradini sui quali potrai salire». Il segreto per sfuggire a un mondo che tormenta e che tutto opera per allontanarci dal fine della nostra vita, ovvero la Gloria di Dio, è quello di ricercare la santificazione personale, la quale non potrà mai essere senza il supporto costante della preghiera. Niceforo il solitario, monaco italiano del XIV secolo, ritiratosi poi sul Monte Athos, dice giustamente che «chi volge nel suo intimo lo sguardo, e con pura preghiera cerca di dimorarvi, considera le cose esteriori prive di valore e di pregio». La tendenza di peregrinare ricercando la santità chissà in quale luogo cozza con quanto il Signore stesso ci riferisce: «Il Regno dei Cieli è dentro di voi». Scendere nell’intimo del proprio cuore, cioè in quella cella interiore riflesso della cella celeste, vuole dire umiliarsi, vergognarsi di se stessi, sperimentare la contrizione, cioè quella contritio cordis che porta le lacrime, lo spezzarsi del cuore nel dolore della propria miseria per purificarsi e rinascere in Dio per mezzo del Figlio.  Sempre Niceforo il solitario, nel suo trattato Trattato molto utile sulla sobrietà e sulla custodia del cuore, suggerisce un metodo: «Mettiti seduto, raccogli il tuo spirito e introducilo nelle narici; è il cammino che l’aria segue per andare al cuore, insieme con l’aria inspirata. Quando vi sarà giunto, vedrai la gioia che eromperà: nulla avrai da rimpiangere [..] A questo punto hai bisogno di un altro insegnamento: mentre il tuo pensiero dimora nel cuore, non fare silenzioso e ozioso, ma costantemente sii impegnato a gridare “Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me”, e non ti stancare. Questa pratica, tenendo lontano il tuo pensiero dalle divagazioni, lo rende invulnerabile e inattaccabile alle suggestioni del Nemico, e ogni giorno lo eleva all’Amore e alla nostalgia di Dio». La pratica a cui fa riferimento Niceforo in questa antologia inclusa nella Filocalia è la cosiddetta “preghiera del cuore”, o esicasmo. Poco conosciuta e poco praticata in Occidente, essa costituisce un aspetto molto importante nella spiritualità ascetica, e a cui in particolare i padri del deserto, e tutti i padri esicasti, si sono ampiamente rifatti.  Per poter parlare in modo esaustivo e corretto della preghiera del cuore c’è bisogno di qualcuno che non solo la conosca nella teoria, ma che soprattutto la pratichi e la sperimenti nell’intimo del proprio cuore e della propria cella, in questo caso veramente monastica.  Ho avuto la possibilità di intervistare padre Beniamino Lucis, un monaco cattolico che da molti anni vive in monastero, dedicandosi alla preghiera secondo le esigenze proprie della spiritualità monastica. Con lui, oggi, approfondiamo il tema dell’esicasmo e della ricerca interiore di Dio, quel “quærere Deum” verso cui tutti siamo chiamati ad indirizzare i nostri sforzi. P. Beniamino, può spiegarci che cos’è la “preghiera del cuore” e chi furono i primi a praticarla? La cosiddetta preghiera del cuore ha origini molto antiche. I primi a praticarla furono i Padri del deserto nel IV secolo, anche se non nella formula che conosciamo oggi. Si chiamava piuttosto “preghiera monologica” e consisteva nella ripetizione del nome di Gesù, da solo o con altre espressioni libere e variabili. La ripetizione continua del nome del Salvatore aveva lo scopo di stabilire l’attenzione e l’anima nella presenza del Figlio di Dio, invocandone l’azione purificatrice nel cuore dell’orante.  Qual è il testo preciso, e in quale lingua è consigliabile recitarla? Oggi la formula specifica è questa: “Gesù, figlio di Dio, pietà di me peccatore”. Ma, come detto, non si tratta di una formula fissa. Alcuni aggiungono altre espressioni, pur sempre brevi. L’efficacia di tale formula sta nel fatto che è completa in sé: nella prima parte si invoca Gesù e lo si definisce dogmaticamente per quello che è: figlio di Dio. Il nome è di per sé salvifico, perché Gesù significa “Dio salva”. La seconda parte indica la missione del Salvatore, ossia avere pietà di me, uomo, che sono peccatore, far quindi presente la sua morte di croce e resurrezione. Come lingua, trattandosi di una preghiera personale e non liturgica, la si recita nella propria lingua di casa.  Si sarebbe conosciuta con così tanta facilità se non se ne fosse parlato all’interno del celebre libro I racconti di un pellegrino russo? Probabilmente no. Qui in Occidente quasi nessuno ne sapeva nulla fino alla pubblicazione de “I racconti di un pellegrino russo” e della “Filocalia”, pubblicazioni che sono apparse in italiano nel secolo scorso. In particolare sono stati i racconti del pellegrino a far esplodere il fenomeno qui da noi. È lui il maestro di questa preghiera, per noi occidentali.  In che modo i padri del deserto hanno connesso il brano evangelico della preghiera del pubblicano con questa pratica? Il riferimento immediato è appunto la parabola del fariseo e del pubblicano. Gesù dice che il pubblicano andò a casa giustificato, mentre il fariseo no. Questo indica chiaramente che il modo di pregare, per essere efficace, esige il senso del nostro peccato e della nostra miseria, e al tempo stesso riconoscere che Dio può perdonarmi i peccati. Prega efficacemente allora chi ha il cuore contrito e si umilia davanti a Dio, non chi soddisfa degli obblighi religiosi, pur doverosi, ma senza il pentimento dei peccati.   Dal punto di vista pratico, allora, come si inizia la preghiera del cuore? I padri orientali indicano la tecnica del respiro, per facilitare la preghiera stessa. In sostanza suggeriscono questo: dire “Gesù figlio di Dio” mentre si inspira l’aria nei polmoni, e “pietà di me peccatore” mentre la si espira. Questo metodo fa sì che a ogni respiro completo si recita tutta la preghiera, per ricominciare poi al respiro successivo.  Tuttavia tale metodologia non è strettamente necessaria. L’esperienza insegna che ciò che conta non è tanto la tecnica del respiro, quanto piuttosto la ripetizione continua e prolungata nel tempo, anche per ore. Il pellegrino russo sostiene che dopo qualche tempo, anche senza volerlo, il cuore sente una viva compunzione e contrizione, un senso di infinità di Dio nel perdono, unita ad una grande pietà verso tutti gli uomini e tutte le creature. Facilmente sgorgano lacrime, perché il cuore contrito è come riempito dalla misericordia infinita di Dio, e il tocco divino produce le lacrime. In greco è chiamata esicasmo. Può spiegarci perché?  Esicasmo significa “quiete”, “stato di quiete”. In effetti l’anima contrita, pur nel senso della propria miseria, diventa umile, perché sa che senza la grazia di Dio nulla ella potrebbe fare. La quiete non consiste nella mancanza di passioni, ma nel rimanere sempre in uno stato profondo di insufficienza, povertà, ma amata da Dio. Essa non si preoccupa più di nulla, accetta tutto, si sente colpevole di tutto, e al tempo stesso perdonata di tutto. Questo provoca una fiducia e un abbandono interiore che si può chiamare giustamente “quiete”. Questa pace interiore, questa ricerca dell’unione con Dio a cui conduce l’esicasmo viene paragonata spesso allo yoga, tant’è che taluni hanno definito tale pratica come “lo yoga cristiano”. Quali sono le obiezioni, e in cosa si differenziano le due pratiche?  Tra l’esicasmo cristiano e lo yoga vi è una differenza abissale. Lo yoga è una pratica induista di ricerca di uno stato interiore di benessere, dove la mancanza di desideri e di passionalità dovrebbe procurare uno stato di dominio di sé, di pace interiore. Ma al termine del cammino di rilassamento non vi è nessuno, se non l’uomo racchiuso in sé stesso. Nella preghiera cristiana invece al termine vi è sempre un Altro, e precisamente Dio, Dio Padre che perdona per amore, c’è Gesù crocifisso e risorto che giustifica per amore, c’è lo Spirito Santo che illumina per amore. A rigore, uno yoga cristiano non può esistere, è una contraddizione in termini. Le poche immagini che abbiamo a disposizione ritraggono spesso gli esicasti in una posizione corporea rannicchiata, quasi come fossero richiusi su se stessi. Si tratta di una posizione proprio necessaria per la pratica? A dire il vero, i veri esicasti sono tutt’altro che uomini rannicchiati. Conosco un monaco che pratica la preghiera del cuore tutte le notti (poi riposa alcune ore del giorno, naturalmente). Egli non sta fermo un attimo: pratica la preghiera camminando su e giù nella sua stanza, pregando ora a voce alta, ora a voce bassa. Poi si ferma, si stende, si rialza, eccetera.  Gli esicasti vennero però accusati, in particolare nel XIV e XV secolo, di praticare l’onfaloscopia, ossia la contemplazione del proprio ombelico… Se qualche esicasta ha inteso assumere queste posizioni, diciamo rannicchiate, lo ha fatto come sua esigenza personale. Non è male questo, ma appunto si tratta di cose personali. San Serafino di Sarov, grande monaco russo del ‘700, suggeriva di non pregare mai ad occhi chiusi, ma guardando piuttosto un’icona della Vergine. Il motivo è anche pratico: si rischia di addormentarsi, o di farsi prendere dalle immagini e dalle fantasie interiori. Gesù e gli apostoli, se ci si pensa, non danno mai testimonianza di posizioni particolari o giudicate necessarie per pregare. Il cosiddetto Methodos esplicato probabilmente da un monaco del Monte Athos, invita a ritirarsi in un luogo solitario per concentrarsi sulla preghiera del cuore. Come è possibile, allora, addentrarsi in questa preghiera assidua abitando nel mondo?  L’esperienza ci dimostra che il vero monastero è quello interiore, del cuore. Uno può essere un “monaco” nella propria cella interiore anche se vive in una grande città, e magari è sposato con figli, mentre ci può essere il caso di un monaco che vive nell’eremo ma interiormente il suo riferimento e pensiero è sulle cose del mondo. Quest’ultimo allora sarà un “mondano”, nonostante l’abito, mentre il laico che vive nella cella interiore dove prega sempre sarà un vero monaco. Il luogo solitario per pregare può per altro essere utile di tanto in tanto, per “ritemprare lo spirito”, ma non sempre è facile trovare tempo e modi per ritirarsi qualche ora o qualche giorno.  Pensa possa riferirsi a questo tipo di preghiera, san Paolo, quando invita a “pregare incessantemente”? Direi di no. Nemmeno Nostro Signore pregava sempre. Quando mangiava o parlava con i farisei, non pregava – nel senso tecnico del termine. Il “pregare incessantemente” significa che noi possiamo passare di continuo da uno stato di preghiera attiva (dire delle parole a Dio, tra cui la preghiera del cuore) a uno di “senso di presenza di Dio”, che si mantiene anche senza accorgersene, facendo tutte le altre cose della vita, praticando la carità verso tutti ed evitando ogni peccato. In questo senso san Paolo diceva: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”. Se riusciamo a “rimbalzare” da uno stato all’altro, allora la nostra anima sarà incessantemente unita a Dio, quindi, in senso lato, in preghiera.  Perché in occidente non è molto contemplata questa sorta di dottrina mistica e, a volte, è quasi vista male anche in un certo ambiente che potremmo definire “tradizionalista”? Probabilmente perché si associa la preghiera del cuore all’idea della preghiera orientale nel senso di esperienza induista o buddista. Come detto, invece, non è affatto necessario praticare la preghiera di cui stiamo parlando assumendo metodologie o pose di quelle religioni atee. La New Age poi ha peggiorato il tutto, mischiando questa preghiera con forme di vita e pratiche induiste. Ci sono persone che dicono sì il nome di Gesù, ma come un mantra, come se Gesù fosse una forma divina intermedia, intercambiabile. Questo naturalmente è un inganno. Gesù è Dio, il termine di tutto, l’unico Salvatore.  Questa pratica spirituale di meditazione e preghiera può essere determinante nella vita di un cristiano? Dire “determinante” forse è troppo. La Madonna a Fatima chiede di dire il Rosario, e basta quello per cambiare le sorti del mondo. Per altro la preghiera del cuore aiuta molto a diventare umili. I padri orientali affermano infatti che il “me” della formula (Gesù, figlio di Dio, pietà di me peccatore) è un “me” collettivo; si inizia pensando ai propri peccati, e dopo un po’ si vive facilmente una solidarietà nei confronti di tutti gli uomini peccatori, sentendo proprio il peccato di tutti. Questo è un insegnamento tipico e molto importante di Silvano del Monte Athos, ma era sentito anche nell’ VIII secolo da un padre armeno di grande spessore, San Gregorio di Narek. Io infatti non sono diverso da tutti gli uomini, sono capace di tutti i peccati, e la preghiera del cuore mi aiuta ad avvertire tale solidarietà e quindi il bisogno dell’impetrazione universale. ]]>

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