A PROPOSITO DEL GOVERNO MONTI. FINE DELLA POTESTAS POPULI? – di Pietro Giubilo

di Pietro Giubilo

 

Mentre assistiamo all’insediamento ed ai primi atti del governo Monti non dimentichiamo la definizione di S. Tommaso di democrazia come potestas populi e ricordiamo il senso del radiomessaggio di Pio XII del Natale 1944 che il padre Messineo così riassume nella voce democrazia dell’Enciclopedia cattolica “ in essa il cittadino deve avere il diritto di esprimere il proprio parere sui doveri e sacrifici che gli vengono imposti , non essere costretto a ubbidire senza essere ascoltato”.

Alla realtà ci riporta quanto scrive , l’autorevole professor Francesco d’Agostino nell’articolo di fondo dell’Avvenire del 21 dicembre 2011 nel quale , pur rilevando che “l’espressione ‘democrazia sospesa’ non sembra corretta”, riferisce l’opinione di chi “sottolinea un dato di fatto indiscutibile: nessuno dei membri dell’attuale governo risulta mai essere stato eletto, nessuno tra essi è stato mai impegnato in una battaglia elettorale, nessuno ha presentato al popolo sovrano, prima di diventare membro del governo , un suo programma politico, né lo ha discusso con l’elettorato”.

bah!L’operazione realizzata dal presidente Napolitano si è tuttavia svolta secondo “formalismi costituzionali” in linea con la Carta attuale in quanto l’indicazione è avvenuta dal Capo dello Stato e il Parlamento ha accordato la fiducia al governo.

L’ultimo governo della democrazia nata in questo dopoguerra si configura quindi come l’espressione di una classe dirigente che mai si è confrontata con il popolo, ma che tuttavia risponde a procedure costituzionalmente corrette.

E’ il senso di quell’espressione che adoperò don Gianni Baget Bozzo sul Foglio del 3 aprile 2009: “le istituzioni divengono così un limite alla democrazia, una riduzione del suo potere di affrontare decisioni ultime sulla base dell’unica legittimità possibile: quella del consenso popolare”.

Questo è il paradosso al quale è giunta la parabola politica dell’Italia che nonostante una crisi profonda di carattere costituzionale, mai ha voluto prendere in considerazione ed approvare quelle riforme che ormai si presentano come assolutamente indispensabili per la tenuta della democrazia.

Il sistema parlamentare in crisi , un tempo palestra della massima espressione dei partiti tanto da far crescere la deformazione partitocratica, ora sta diventando la tomba degli stessi partiti non solo e non tanto per quella condizione di necessità, senza alternative, nella quale sono stati posti dall’iniziativa presidenziale, ma dall’approdo al quale si vorrebbe arrivare dopo questa fase politica.

Eugenio Scalfari , infatti, è arrivato a teorizzare come il governo Monti costituisca un modello di governo del Presidente che, pur permanendo il sistema parlamentare, non debba più consentire ai partiti di deciderne la composizione ( Eugenio Scalfari ).

La giustificazione di questa operazione è che essa sarebbe realizzata nell’interesse del popolo e tuttavia in democrazia, per la verità, non si può governare per il popolo, senza il popolo.

E’ evidente quale sia l’obbiettivo che Eugenio Scalfari ha in mente: quello di dare un fondamento ed una giustificazione ad una visione di istituzioni senza democrazia, in quanto nell’attuale sistema parlamentare i partiti rappresentano, ancora formalmente, l’espressione della volontà popolare.


E’ indubbio che tale espressione può essere commisurata alla necessità di ridurre i rischi di una involuzione partitocratica – che prevalse in alcune fasi del sistema parlamentare italiano prima del 1992 – ma ciò può avvenire solo favorendo una riforma della Costituzione che ampli i poteri di scelta degli elettori con l’elezione diretta del Capo dell’esecutivo o con un presidenzialismo di tipo francese.

In termini di democrazia è solo possibile un trasferimento del potere dal Parlamento al corpo elettorale.

La riduzione o addirittura l’annullamento del ruolo dei partiti non bilanciato da una ampliamento del ruolo del “cittadino arbitro” (Roberto Ruffilli ), significa soltanto consentire l’espandersi delle posizioni lobbistiche che detterebbero le scelte sulle quali si orienterebbero le decisioni di un capo dello stato che nel suo lungo settennato non dovrebbe render conto né ai partiti , né agli elettori.

Vengono alla mente quanto scriveva un grande filosofo del diritto Giuseppe Capograssi a proposito del valore impegnativo delle elezioni e dei programmi presentati e scelti dal voto.

Qui si vede esattamente il valore giuridico che assumono i programmi elettorali, poiché un partito e un governo non possono essere ammessi a sollevare ed a risolvere una importante questione legislativa, se le elezioni non furono condotte sopra tale questione”. “ Ritorna sempre più netta l’idea – aggiunge Capograssi – che la volontà elettorale è non pura e semplice volontà di scelta , ma è volontà positiva la quale si afferma sopra quelle idee e quegli indirizzi concreti che sono stati agitati nella lotta elettorale”, concludendo che ” la manifestazione di volontà dell’elettore avviene non sopra la scelta di questo o di quell’individuo, ma avviene sopra la scelta di questa o di quella soluzione dei problemi pubblici più importanti sui quali la consultazione elettorale è stata impostata”.

Così” – rilevava infine – “ l’elezione diventa un vero e proprio atto positivo di sovranità e non una delegazione o un mandato o un conferimento di rappresentanza” ( Giuseppe Capograssi, La vita etica , Giuffrè editore. pag 1121 ).

La teoria di Scalfari va in direzione opposta scindendo il governo dal vero “sovrano politico” rappresentato dal corpo elettorale e non dal Presidente della Repubblica.

Il “carattere” dell’esecutivo Monti non deriva dal solo fatto di essere guidato da un ritenuto autorevole professore universitario.

Prestigiosi insegnanti universitari sono stati presidenti del consiglio in passato, e precisamente, per fare qualche esempio, Aldo Moro professore di diritto penale , Amintore Fanfani professore di Economia, Giovanni Leone professore di diritto e procedura penale, con , tuttavia, una significativa differenza: nessuno di essi ha ricoperto incarichi di governance o di alta consulenza in società private.

Non è, infatti, la caratura universitaria che contraddistingue il tecnocrate, ma la sua attività manageriale.

Come teorizzato dal Burnham “nelle società dei managers la politica e l’economia sono fuse l’una con l’altra in modo diretto” ( citato in C. Pellizzi: Una rivoluzione mancata , Il Mulino Bologna 2009 ) ed è evidente come la figura del tecnocrate si collochi nella governance economica.

Sono interessanti, peraltro – e le riferiamo per mera curiosità – alcune riflessioni che svolse il noto sociologo americano sul carattere dittatoriale della politica dei managers fino alla famosa considerazione circa il patto Stalin-Hitler dell’agosto 1939 ritenuto essere una intesa fra “ i rappresentanti della futura società dei managers”.

Ora, a parte la presenza di altri illustri managers bancari presenti nel governo, quello che ha caratterizzato l’attività del professore della Bocconi, come di altri, è il ruolo attivo nelle gestioni private che lo vide fare parte dell’esecutivo FIAT insieme a Franzo Grande Stevens e Gianluigi Gabetti . Il professor Monti è stato anche vicepresidente della Comit e membro dell’advisory board della Coca-Cola Company.

Peraltro, anche l’altra caratteristica del nuovo premier posta in evidenza e cioè l’appartenenza a organismi bancari o a “clubs” èlitari internazionali quali la Commissione Trilaterale, il gruppo Bilderberg o la Goldman Sachs appare del tutto inusuale rispetto a coloro che dal dopoguerra fino ad oggi hanno assunto l’incarico di Capo dell’Esecutivo (sulle caratteristiche di questi organismi vedere quanto pubblicato da Il Foglio del 25 novembre 2011 che riporta valutazioni e giudizi della più accreditata stampa internazionale ). Tutto ciò evidenzia la caratura extrapolitica del personaggio.

Appare, poi, del tutto irrilevante quanto hanno affermato l’on. D’Alema ed altri quando annoverano tra le ragioni di un “alto impegno politico” l’essere stato commissario europeo per 10 anni, poiché è di tutta evidenza la realtà del carattere tecnocratico di tale organismo, reso ben evidente dal fatto che le designazioni avvengono prive di voto popolare.

Siamo, in Italia, di fronte ad una clamorosa novità che non presenta caratteri di eccezionalità, ma che è destinata ad incidere sul futuro del sistema politico nel suo complesso per tre ragioni: la procedure con la quale si è dato vita a questo governo e i “lavori preparatori” che si sono svolti in ambiti e riunioni sin dai mesi precedenti, il peso oggettivo degli interessi scesi direttamente in campo con l’appoggio mediatico espresso dalla stampa “imprenditoriale”, il “ritrarsi” del ruolo politico dei partiti e la loro “debolezza” anche a fronte del devastante attacco da parte dell’antipolitica.

Qui, già l’idea che una situazione di emergenza venga affidata ad una personalità espressione di ruoli tutti al di fuori della politica e dei partiti segnala una debolezza ed una decadenza significative che non possono non ingenerare una ulteriore sfiducia nelle classi politiche e negli organismi di rappresentanza elettorale. Ma è ancora più evidente come alla cultura politica ed ai suoi programmi si sostituisca la cultura aziendale: il manager privato diviene il miglior uomo di governo.

La stessa idea che al consenso si debba sostituire la razionalità economica e l’efficienza aziendale costituisce il trionfo dell’omologazione e l’annullamento delle diversità sulla quali si fondano l’offerta politica e le scelte degli elettori.

Se a questo quadro complessivo aggiungiamo la marginalizzazione del ruolo che il consenso popolare sta sempre più subendo nel sistema costituzionale italiano avvertiamo che da questa vicenda non può non aprirsi la questione della natura e della stessa sopravvivenza del sistema democratico.

Ma , in questi giorni, si va aprendo un’altra questione: governare per il popolo dovrebbe anche significare far crescere il senso dell’unità nazionale.

Siamo convinti che le divisioni, un tempo ideologiche, che hanno spaccato il Paese, siano riapparse, negli ultimi anni, in forme diverse, ma forse ancor più perniciose.

L’avversario politico è considerato un nemico; al confronto anche aspro del tempo del dopoguerra, si è sostituito il livore giacobino e giustizialista, l’opposizione al centrodestra è stata equiparata alla lotta antifascista ( il vice direttore di Repubblica ha scritto un libro sostenendo questa tesi ).

L’Unità nazionale viene proposta, anche autorevolmente, come un’”idea forza” , cioè un mito, invece di assumere il carattere di un processo unitario che sappia interpretare tutta la nostra storia e le tradizioni maggiormente identitarie , per l’affermazione di un comune sentire, di una pacificazione che cancelli una volta per tutte la lunga linea rossa dell’odio, che, come un fiume carsico, riappare nei momenti e nei luoghi più diversi, come ad esempio nelle sgradevoli contestazioni verso Berlusconi nel giorno delle sue dimissioni.

Questa esigenza di unità, ma non intesa come un mito, dovrebbe, invece, poter affermare un modello diverso del sistema statuale che, mentre rafforzi i più elevati aspetti costituzionali unitari, rispetti e favorisca le identità, i mondi vitali dei territori, il pluralismo sociale, imprenditoriale e culturale di un regionalismo ricco di storia.

Un “governo per il popolo” deve porsi la questione di una “unità” non mitizzata, ma ricostruita nei comportamenti e , forse, con un cambiamento del sistema.

C’è, infatti, in Italia, anche una questione costituzionale.

Nel mezzo del dibattito sulla “democrazia sospesa”, il senatore Quagliariello ha rilanciato, con forza, il 20 dicembre , nella trasmissione televisiva Matrix, l’idea di una grande mobilitazione per una riforma costituzionale in senso presidenzialista.

L’introduzione dell’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Repubblica e della forma di governo semipresidenziale, proprio perché darebbe al simbolo più elevato dell’unità nazionale il sostegno del voto popolare, potrebbe anche consentire all’Italia una riforma federale che non diverrebbe lesiva della sua unitarietà.

Si contribuirebbe a contenere le spinte separatiste che rischiano di accentuarsi per la crisi economica e l’impennata del carico fiscale dovute alle recenti decisioni del governo.

Su questi temi di grande intensità e portata il Presidente della Camera Gianfranco Fini si muove in totale controtendenza, spiegando, in una intervista a Repubblica, del 21 dicembre, come oggi non sia più necessaria ”una competizione in cui si sceglie il premier, la coalizione, i partiti”.

Abbandonato definitivamente il presidenzialismo, per Fini, il futuro politico dell’Italia si dovrebbe muovere “mettendo insieme persone di buona volontà su una base programmatica”.

E’ la logica del Terzo polo che pensa ad un sistema proporzionale, cioè a governi che si formino dopo il voto, in sede parlamentare e su presunte affinità programmatiche.

Invece, a fronte delle vicende che hanno portato alla nascita del governo Monti , al di là dei suoi contenuti di politica economica e fiscale pesantemente recessivi, si afferma una questione di carattere costituzionale che pone al centro il ruolo della sovranità popolare.

A tale questione si può rispondere o con un forte contenuto democratico e innovatore, come propone il PDL o, con argomenti opportunistici come dimostrano le proposte di Gianfranco Fini, il quale non solo ha rinnegato il passato, ma anche le sue stesse idee più recenti.

E’ anche la dimostrazione di come si presenti l’inadeguatezza delle forze politiche di fronte alla chiusura verso qualsiasi azione di riforma costituzionale che sarebbe, poi, quella “rigidità cadaverica” della Costituzione del 1948 che comincia ad essere denunziata recentemente da alcuni intellettuali come Galli della Loggia e che rappresenta il vero punto debole dell’Italia.





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