A PROPOSITO DEL "RICCARDO III" DI SHAKESPEARE – di Dionisio di Francescantonio

di Dionisio di Francescantonio

 

 

La critica shakespeariana tradizionale sottolinea volentieri che il personaggio di Riccardo III è privo di sfumature o complessità psicologiche. Egli è assolutamente disumano nella sua sadica perversità e nella sua consapevole e sfrontata ferocia. Ma lo scenario in cui si dispiega la nuda e atroce volontà di potenza di Riccardo è appunto quello governato dagli appetiti, dalla violenza, dalla frode, dall’abiezione e, soprattutto, dalla febbre del dominio, un mondo che assomiglia in modo straordinario alla contemporaneità. Forse sfugge, a tanti critici, il carattere spesso anticipatore di Shakespeare, capace di disegnare tipi umani forgiati nella e dalla modernità; modernità che prende per l’appunto le mosse più o meno al tempo di Shakespeare  e andrà ad affermarsi via via sempre più nettamente nelle ere successive fino a trionfare al tempo nostro.

mrGli Hitler e gli Stalin, tanto per citare solo i personaggi storicamente più esposti della modernità più recente, in che cosa differiscono, nella loro ferocia derivata da una volontà di potenza smisurata e sovrumana, rispetto alla depravazione morale e alla volontà malefica di Riccardo III (quella che si situa “al di là del bene e del male”, teorizzata come concetto e addirittura come guida di vita anche da certa filosofia nichilistica molto seguita, non a caso, nel mondo contemporaneo)? Si contrappone spesso Iago a Riccardo per la sua perfidia tanto più raffinata ed evoluta della sua, meno rozza e violenta e assai più intelligente, più sottile, più insinuante; ma, nella sostanza, i due personaggi non sono mossi dallo stesso sentimento, quell’afflizione del bene altrui che è l’invidia? Iago è un personaggio che agisce nell’ombra, nascondendosi dietro un aspetto dimesso e l’aria di agire “per il tuo bene”, mentre Riccardo, essendo un istrione, ostenta  la propria ferocia e perversità, dichiarando pure di gioire di esse.

Certo, il suo carattere fortemente istrionico lo rende una maschera, ma forse era proprio questo lo scopo di Shakespeare. Egli voleva creare un personaggio radicalmente malvagio proprio per imporre questo tipo o maschera “nuova” nel suo repertorio e  nel teatro elisabettiano e, per farlo, dovette partire da quello che la tradizione gli forniva (non dimentichiamo che il Riccardo III è un’opera giovanile; in seguito, con l’esperienza acquisita e una maggiore padronanza dei propri mezzi, il grande bardo potrà permettersi di volgere completamente le spalle al passato, proponendo perfidie più sornioni e melliflue appunto come quelle di Iago e di Edmund), e l’unica tradizione a cui poteva guardare era quella di colui che è “segnato dal demonio” anche nell’aspetto, cioè la figura allegorica del Vizio così come appariva nei canovacci medievali che si recitavano alle fiere e sui sagrati delle chiese fino alle soglie del Rinascimento, una figura connotata da elementi esasperati e grotteschi proprio come quelli che esibisce Riccardo. E poi Shakespeare era un drammaturgo, un teatrante, e la figura di Riccardo doveva “funzionare scenicamente”, come si usa dire in linguaggio teatrale, risultato che nessun critico si azzarda a negare, pur insistendo, probabilmente più del necessario, sulla rozzezza strutturale del dramma e sulla sua immaturità linguistica.

Di fatto, l’efficacia teatrale del Riccardo III è straordinaria, ed è straordinaria proprio in virtù della forza del personaggio, della sua malvagità luciferina che si esprime attraverso un virtuosismo istrionico e un dinamismo vitalistico che, sprigionando una sorta di attrazione dove si mischiano carisma e terrore, che per giunta si avvale spesso di uno humour sinistramente ilare, coinvolge e affascina il pubblico più di quanto questo sarebbe disposto ad ammettere. La verifica la può fare qualunque spettatore allorché, nella scena della seduzione di Lady Anna, di cui ha assassinato il marito e il suocero, Riccardo adotta un tono e un linguaggio col quale lusinga spaventa e seduce la donna ma al tempo stesso soggioga anche chi assiste alla scena, provocandogli una sorta di sentimento sadomasochistico per il solo fatto di essere lì a guardare (per distrarsi, per divertirsi?), condividendo quindi con Riccardo il piacere colpevole ch’egli prova nell’inserirsi nell’animo della vedova per suscitarne voglie malsane.  E questo è un risultato che ci indica, con buona pace di tanti critici, quanto fosse già sviluppata la capacità di Shakespeare nel condurre i fruitori del suo teatro là dove egli voleva, una capacità straordinaria che verrebbe da definire demiurgica, anche se, in questo caso, il demiurgo sembra voglia proprio “provare” il proprio potere di suggestione nei confronti del pubblico.

D’altronde la potenza drammatica di quest’opera è concentrata tutta  sul personaggio principale, il gobbo scellerato che, avendo deciso di ottenere la sovranità regale contro ogni impedimento della natura, della legge dinastica e del diritto morale, elimina uno dietro l’altro tutti i rivali potenziali grazie a spietate manovre, all’inganno e all’assassinio. Gli altri personaggi del dramma sono perciò tutti destinati a scomparire durante il cammino efferato del protagonista, anche se scompaiono solo dalla vita, riapparendo più volte sulla scena come ombre ammonitrici nei confronti dell’artefice della loro morte, costituendo una sorta di coro di un’umanità dolente e ferita in contrapposizione alla spietata malvagità del protagonista. E il cui scopo sarà quello di suscitare nel loro massacratore, apparendogli in sogno alla vigilia della battaglia fatale di Bosworth e profetandogli la sconfitta e la morte, il terrore e la disperazione per l’esito di un cammino scellerato che ha voluto intraprendere solo perché “una perfida natura” lo ha “defraudato d’ogni armonia di tratti e d’ogni lineamento aggraziato” e lo ha spinto a “tramare complotti e avviare insidiosi tranelli”.

Queste parole compaiono all’inizio del dramma, nel primo monologo di Riccardo, quello che comincia con “Ormai l’inverno del nostro scontento s’è tramutato in fulgida estate sotto questo cielo di York”, dove l’animo del protagonista e il suo programma di morte viene subito delineato. Espressioni come quella in cui dichiara di sentirsi “in questo mondo di vivi, solo per metà sbozzato/ e talmente claudicante e goffo/ che i cani mi abbaiano quando gli passo accanto arrancando” ci indicano immediatamente la capacità ineguagliabile dell’autore nel mettere in evidenza il senso di estraniamento dalla vita e la rabbiosa solitudine del personaggio, cui corrisponderà l’invocazione finale, gridata prima d’incontrare la morte, “Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!” a sottolineare, estrema ironia degli umani destini, l’inanità e fallacia d’una empietà sfrenata attuata per conquistare un potere che all’ultimo momento si baratterebbe volentieri col cavallo che potrebbe aiutarti a sfuggire alla morte.

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