ACHILLE CAMPANILE – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

 

Chi non ha una fede solida e non agisce con coerenza cattolica, può danneggiare i credenti con le sue pubbliche manifestazioni, siano scritti o discorsi. Ma quando i credenti potevano ancora disporre di una chiara dottrina su cui regolarsi, il pericolo era scarso per loro. Gli altri, i tiepidi o i miscredenti, se non traevano giovamento da pensatori piuttosto autonomi, in qualche misura presuntuosi, tuttavia evitando di mettere in dubbio Dio e l’autorità della Chiesa, erano almeno intrattenuti nell’area diurna, fuori dalle tenebre.

Questo cappello riguarda Achille Campanile (Roma 1899 – Velletri 1977) umorista pensatore. Non che i toni satirici o paradossali diano licenza di scherzare con gli argomenti che implicano il centro e lo scopo della vita, tuttavia la passione di servirsi della propria testa, in un mondo pigro e conformista, merita rispetto, soprattutto quando, pur esercitandosi su problemi già egregiamente trattati o toccandoli soltanto, non ne intacca gli aurei scioglimenti. Ma allora, si dirà, qual è il pregio di queste elucubrazioni? Il loro pregio sta in una originalità di approcci, di scelte e nella forma elegante, penetrante, sollazzevole. E se, in seguito, certe tenie – come L-F Céline li chiamava – si diedero a chiosare e saccheggiare il nostro Autore, conformemente alle loro visioni terragne e vermicolari, che colpa egli ne ebbe?

drf6Egli ebbe fortuna dal secondo al quarto decennio del ‘900 per romanzi e racconti in cui figuravano personaggi caricaturali, situazioni al limite dell’assurdo o fantastiche, con inserimento di storielle, di apologhi, di note spietate sui comuni sentimenti, come l’umano amore tra i due sessi. Ma che cos’è questo amore (1927) ebbe ripetute ristampe a distanza di mezzo secolo.

Il cane: “quando riceveva una pedata, si metteva a guaire, temendo che il padrone si fosse fatto male al piede”. Il viso mostrato dall’amata: “Lucy lo guardò con gli occhi di una gazzella ferita a morte, ma soccorsa in tempo, curata e completamente ristabilita”. Il mare è un mistero, perché nessuna sua definizione è soddisfacente. Di regola, le malattie sono un bene; infatti, guarendo, guarisce il male che le ha precedute, da cui furono generate.

Sull’esile trama d’uno schiaffo dato al buio di una galleria, in uno scompartimento ferroviario occupato da Carl’Alberto e da altri signori attorno alla bella Lucy, incidente che ha un seguito nel loro successivo soggiorno a Capri, dove il protagonista vive un amore con lei, mentre si cerca di scoprire chi ricevette il ceffone, su questo canovaccio si innestano i discorsi banali, le manie, le gelosie inevitabili, i capricci degli innamorati e degli altri, le femminili pretese tiranniche di sentir parlare, di sentirsi intrattenere e divertire; e capitano le intromissioni inopinate dell’autore, che immette storie estranee del tutto o solo in apparenza. Anche per questo si vagheggia un florilegio del libro, non perché esso appaia datato o prolisso, ma perché il meglio legato insieme sembra più bello, un bello che sarebbe spettato a Palazzeschi comporre e a nessun altro.

Il barone Manuel, membro eminente della compagnia, inventò che l’amico Pasotti fosse moribondo, per poter uscire da solo dicendo di andare a trovarlo e frequentare invece Gabriella. Ora che lei ha stretto una tenera amicizia con un passeggero del traghetto che li ha portati sull’isola, il barone ha fatto morire l’amico, in modo da poter piangere liberamente sulla delusione e riconciliarsi con la baronessa sua moglie. Colpo di scena: Pasotti vivo e vegeto compare a estinguere le furie omicide del principe Gelsomino, il quale era uscito a reclamare soddisfazione per lo schiaffo ricevuto. Entrambi presero posto nell’oscurità con lo stesso intento di baciare Lucy, e scomparvero non visti; lo schiaffeggiatore Pasotti inseguendo Gelsomino nei corridoi del convoglio.

A causa dello schiaffo non venuto dalla bella, ma da un uomo dato a un altro uomo, ingannati dal buio nel volerla abbracciare, adesso scoppia un epico scontro fra Pasotti e il principe. “Nella lotta sollevarono un polverone che li nascose agli occhi dei presenti, e per alcuni minuti non s’udirono che gridi soffocati e rudi colpi, e s’intravide solo, attraverso la cortina di polvere, il lampeggiamento degli sguardi accesi”.

Terminata la vacanza a Capri, Lucy deve partire per l’Egitto. La girandola dei sentimenti, che indussero Carl’Alberto a chiederla in moglie e mossero entrambi alle più commoventi dichiarazioni, si arresta con i teneri addii e le promesse evanescenti. “L’amore è un male che come viene se ne va”. “Noi non sappiamo che cos’è l’amore, ma sembra molto simile a una cosa, che neppure sappiamo che cosa sia”. “L’amore è come la vita, che è sua figlia: senza che noi la chiamiamo, viene ci tormenta un po’ e poi passa”. “L’amore, come la vita, si fa sentire finché ci strapazza. E, quando ha finito di strapazzarci, non esiste più”.

Sino alla pubblicazione de Il povero Piero (1959) le novità di Campanile, stampate dopo “Celestino e la famiglia Gentilissimi” e “Il diario di Gino Cornabò” (entrambi del 1942), ebbero scarsa risonanza. Sul trapasso avvenuto dal raggiungimento del benessere (quando ancora, come sottolinea Longanesi, il piccolo borghese assicurava la salute fisica e mentale della società) al benessere fruito e abusato, in quel punto critico il Nostro giunge a tempo per ridicolizzare certi vezzi e debolezze del ceto medio: un pungolo che avrebbe incontrato sempre meno soggetti idonei a profittarne, e sarebbe stato lo spunto delle pretestuose e malevole irrisioni dei progressisti denigratori.

Piero giace nella stanza tipica del malato grave per lunga malattia. Lo assistono la moglie Teresa, un’amica di lei, la signora Ribadella, e Angelica, la donna di servizio. Le due signore, stando al capezzale, leggono libri polizieschi. Appassionate di quel genere, ne traggono sollievo. Nella mente dell’infermo passano rottami di ricordi, immagini spezzate di cose, di ambienti naturali, le lontane tranquillità dell’infanzia, i rimorsi. Annunciano il distacco doloroso da tutta una vita. Una vita paurosa, esigente, invadente. Esiste lei sola, malandrina, beffarda, riduce la morte a uno zero. Burlona, non ammette che si giochi con lei. Morire è grande stento e fatica: la vita s’attacca tenacemente, con una scia enorme di atti compiuti. Piero non è rassegnato ad andarsene, ma verso l’alba se ne va.

Riassumendo la vicenda, ci si stupisce di come vi si trovino amalgamati i rapidi svolgimenti di temi severi con le piccole follie, le ridicole incongruenze psicologiche, che sogliono passare inosservate nella consuetudine quotidiana e nel complesso delle convenzioni.

Le scene della circostanza porgono il loro copione ai protagonisti. Le menti e i cuori si fanno dirigere da esso, più o meno convinti, consenzienti e anche grati del suggerimento, delle opportune suggestioni. Ecco la vedova disperata e i contriti genitori di lei. Ecco suo fratello Luigi e l’amica di famiglia Ribadella a frugare nei cassetti, a cercare il tasto segreto che farebbe aprire la custodia di documenti, di oggetti preziosi, di ultime volontà. Ella può, deve occuparsi delle occorrenze ragionevoli, per quanto indicate dalle sue letture di romanzi gialli. Naturalmente l’esito sarà nullo. La sola volontà lasciata da Piero è che venga resa pubblica la notizia della sua dipartita a esequie avvenute e non prima. La disposizione sembrerebbe di facile adempimento, invece ne nasceranno equivoci, complicazioni e imbarazzi a non finire.

I luoghi comuni. Se i congiunti fossero davvero uccisi dal dolore per la perdita di un loro carissimo, ben preso l’umanità si estinguerebbe. I parenti non reggono al pianto della vedova, la incitano a smettere di versare lacrime. Ma se la poverina si sforza di ubbidire, c’è subito qualcuno che si scandalizza per la sua secchezza e vorrebbe che almeno fingesse. D’altronde gli stessi che non possono vederla bagnata di pianto, si preoccupano vedendola silente, chiusa e oppressa dall’ambascia, augurandosi che riesca a darvi sfogo da quegli occhi aridi e fissi. “Le lacrime sono un dono del cielo”.

Le gramaglie, il lutto e i suoi segni esteriori, le debolezze un po’ ipocrite: ogni cosa garbatamente messa alla berlina. Quanta acqua è passata sotto i ponti da quando ciò poteva avvenire. Nessuno, se non vado errato, che adesso ardisca far dell’ironia sui battimani fragorosi tributati alle bare, sui penosi e strampalati discorsi tenuti nel presbiterio da amici e familiari, che sembra non abbiano la più pallida idea del destino delle anime e, diciamolo pure, anche sulle cerimonie fantasiose, quasi festose e poco serie svolte intorno al feretro, sugli accompagnamenti al cimitero moderno quasi spoglio di croci, dove si ha occasione di prendere una boccata d’aria tra alberi e fiori fuori porta.

A un certo segno dell’esistenza di ciascuno s’innesca il processo che lo condurrà a spirare. Le più incredibili reazioni si verificherebbero quando suonasse in noi il campanello di quell’inizio. Dovrebbe colpirci la vanità del tutto, attestata da Salomone In questa incessante e interminabile perpetuazione della specie, siamo un minimo anellino, che avrebbe potuto non esistere. Senza l’anima e l’aldilà tutto è vana biologia, una fabbrica di morti. Ognuno vivendo fabbrica un morto: se stesso. Disprezzo della morte: i martiri, per il disprezzo dei beni terreni; gli avidi odierni la spregiano per conseguirli.

Piero ha speso i suoi soldi, tranne quelli serbati in una busta per le spese del funerale. Teresa ancora ripete: “No, ditemi che non è vero”. “Piero!” lo chiama, “Perché? Te ne sei voluto andare”. Concetto falsissimo: egli avrebbe voluto restare. Adesso bisogna bandire i lamenti. Sennò, si capirebbe che lui è mancato, e fu suo desiderio che si venisse a sapere più tardi. La domestica, ragazzotta paesana sempliciotta, dimostra un’insospettata pietà, sembra una fontana, ma non deve. È arduo insegnare all’ingenua ragazza come esprimersi con allusioni e doppi sensi, al fine di non tradirsi. Bisogna avvertire il portiere, cui riesce bene di mostrarsi impassibile, e raccomandare il silenzio alle pompe funebri. Il loro incaricato già bussa alla porta. Purtroppo egli stesso ha una salma in casa: la moglie adorata. Le farà un trasporto funebre di lusso, per placare il rimorso di averle negato la soddisfazione di un capriccio. Anche Teresa vuole un funerale di prima classe, con sei cavalli e la banda.

Mentre Luigi e suo padre Marcantonio, suocero di Piero, si sono recati dal marmista, un uomo elegante e una ragazza avvenente giungono in visita, annunciano il loro matrimonio. Il signor Demagisti fu ricoverato in clinica con Piero, e già si mostrò amico impiccione. Le donne di casa abbozzano, per non destare clamori dicono che il malato riposa e non è il caso di disturbarlo.

Sopraggiunge un operaio delle officine elettriche. Deve entrare nella camera da letto per certe riparazioni alla linea esterna. La solerte e forzuta Angelica è stata svelta a trasportare Piero nel bagno. Nella stanza, le donne allibite costatano che non sono rimasti segni del defunto e del suo arredo. Frattanto Demagisti, che fece il voto di sposarsi se fosse guarito, si accorge di non esserlo, sicché il matrimonio con la fidanzata Lola deve andare a monte. Egli ha necessità di lavarsi le mani sporche d’inchiostro ed entra nel bagno. La vedova, informata delle manovre della ragazza, cade in deliquio. Ma Angelica ha già provveduto a riportare il morto sul letto. Sennonché egli è scomparso anche di lì, introvabile nell’appartamento. Si presenta un altro operaio. Costernato, viene a informare la padrona che è successa una disgrazia. Il suo collega, durante un’operazione sul cavo dell’alta tensione, creduto privo di energia elettrica, ha colpito con lo spezzone di filo il dormiente, che è rimasto folgorato. Quindi l’ha nascosto nell’armadio ed è fuggito. Sentendo ciò, Demagisti, tornato dal bagno, dice: “Povero Piero”, che è passato “dal sonno alla morte”.

Ai fidanzati manca il coraggio di rivedere le poverine raccolte attorno alla spoglia ricomposta. Essi però intendono aiutarle. Usciti, vanno all’ufficio postale per trasmettere la ferale notizia ad amici e parenti. All’operaio non par vero di mantenere il silenzio sull’accaduto sino ad esequie avvenute, secondo il desiderio dei familiari.

Qui si apre la scenetta di Luigi che, nella bottega del marmista, elabora l’epigrafe da apporre sulla lapide; azione corredata di osservazioni sugli angeli di pietra, sulle statue preparate dai laboratori: di personaggi che calzano sempre scarpe vecchie. L’elenco di coloro che lodano il caro estinto si vuole lungo, affinché le persone citate partecipino alla spesa. Un produttore di salami che, trovandosi presente, ammira l’abbozzo dell’iscrizione, si offre di contribuire, venendo aggiunto del suo nome con la propria qualifica. Altrettanto singolari accortezze usano Demagisti e Lola compilando gli avvisi da spedire e l’annuncio sul giornale.

Al ritorno dall’aver pranzato in trattoria, suocero e cognato di Piero trovano il portone addobbato a lutto. Dentro, il registro delle firme già molto annerito dai visitatori. Tutto si svolge secondo gli usi. Un critico, che scriverà il necrologio sul quotidiano, intervista la signora Teresa. Essa gli chiede perché, in vita, suo marito non venne apprezzato. “Uno scrittore deve sgobbare anni a scrivere un libro e spesso nemmeno se ne occupano, se non fa atto di sottomissione e d’omaggio a un partito politico”. Altrimenti, deve morire.

La casa è diventata un porto di mare. Commenti e domande di curiosi, fotografie della buonanima passate di mano in mano. Come un fulmine a ciel sereno, arriva la notizia della morte improvvisa e recentissima di Demagisti. Lacrime per lui, male interpretate. Gelosa e offesa, la signora il cui consorte giace a pochi passi, oltre l’uscio della sala. Ella apprezza e rispetta soltanto chi non dà manifestazioni di cordoglio e perciò non è sospettabile.

Oh, meraviglia! Demagisti fa il suo ingresso in vive carni ed ossa. I congiunti di Piero, ancora risentiti, lo accolgono freddamente. Da ogni parte vengono rimproveri a colui che ha dato il falso annuncio; la cui fonte, il cavalier Giamboni, nega la sua responsabilità: egli è stato travisato quando, dal dentista, disse di Demagisti: “Ha finito di soffrire”. Ilarità per l’equivoco e indignazione dei parenti di Piero. Presi da una crisi nervosa, anch’essi ridono perché non si può, non si deve ridere.

Altra meraviglia! Piero, in piedi nel vano della porta: redivivo. Egli richiama la moglie: di là c’è una candela che frigge – reclama il solito pedante – e non l’hanno smoccolata. E redarguisce i presenti per il loro accesso di riso. Protesta perché aveva espresso il desiderio di essere seppellito in incognito. Le spiegazioni giungono difficili, inascoltate. Un invitato contesta la validità della pretesa che non si vada ai propri funerali..

Demagisti giustifica la pubblicità data alla morte di Piero, dicendo di aver spiegato così il rinvio delle sue nozze: dovuto al decesso dell’insostituibile testimone. Viene portata una corona, con dispetto di Piero che chiese fosse osservata la sacrosanta norma: non fiori, ma opere di bene.

Demagisti allenta la tensione proponendo di festeggiare seduta stante i suoi sponsali con Lola e il risuscitamento dell’amico. Questi è rimasto scalzo. Le sue scarpe nuove dovrebbe averle il portiere, ma, quando gliele chiede indietro, ai piedi di costui ci sono scarpe vecchie ricevute da Luigi, che si è tenuto quelle nuove. E il portiere ha gettato via le sue logore calzature: qualcuno rimarrà scalzo. Anche altri indumenti e oggetti sono finiti al suocero e al cognato.

Alla duplice festa, il cav. Giamboni tiene il discorso augurale. Dopo altri malintesi sul matrimonio, viene introdotta la cassa destinata a Piero. Gli addetti alla consegna non possono riportarla indietro. Fortunatamente, l’impiegato delle pompe funebri propone di ritirarla per la sua perduta sposa.  Versando un compenso conveniente ad entrambe le parti, egli rileverà tutto l’apparato del funerale.

Avendo risposto agli avvisi, arrivano da fuori città i parenti di Piero. Sua sorella piangente chiede se lui ha capito di morire. Con la bocca piena di pasticcini, egli si volge a rispondere di sì. La poverina sviene. Suo marito, sta salendo adagio le scale, è malato di cuore e gli sarebbe fatale la rivelazione della morte apparente. Occorre che continui a credere Piero trapassato. Egli si rifiuta di fare il morto per suo cognato Pantaleo, il quale è in preda a un impulso suicida, andando a rendere onore alla bara chiusa.

In sala consumano il gelato prima che si sciolga, e si balla. Il buon Pantaleo è scandalizzato. Gli dicono che tutto ciò corrisponde alla volontà del defunto. Lo stupore del pover’uomo giunge al colmo, quando gli operai vengono a ritirare il feretro e consegnano l’assegno dell’acquirente. Pantaleo tuttavia intasca l’assegno. Poi il parentado segue la bara vuota, ma, in strada, il cardiopatico marito di sua sorella vede Piero alla finestra. Allucinazione? No, lo rassicurano, egli è risuscitato. L’affettuoso uomo emozionabile sviene per gioia, mentre Piero, alla vista del carro e della banda approntati per lui, si sente male, muore davvero, irrimediabilmente.

In mezzo ai vivi agitati, disordinati e fuori posto, egli è l’unico a rimanere composto, compreso della sua parte, impassibile come si conviene.

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