ALBERTO COLANTUONI, DRAMMATURGO E COMMEDIOGRAFO – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

 

C’era una volta la pochade, che non è da rimpiangere: una commedia tessuta su trame macchinose, improbabili, con una sequela di situazioni licenziose. Era uno spettacolo cui la maggior maestria dell’autore non toglieva il sudiciume e un andamento da barzellette circolanti nelle combriccole  lascive.

Tuttavia i casi strani della vita coinvolgono persone a modo, che non cedono con disinvoltura alle occasioni boccaccesche, non ne approfittano con esibizioni di spirito, non si compiacciono di maliziosità. Umanamente la tentazione sussiste, ma resta imprigionata nell’onestà abituale e quindi smaltita, o viene senz’altro rintuzzata. È questa la stoffa dei personaggi nella commedia brillante di Alberto Colantuoni, anche quando nel suo ultimo lavoro di successo Un sigaro avana (1950) essi, a causa di una coincidenza imprevista, vengono a trovarsi nell’imbarazzo di una intimità accidentale e ingiusta fonte di scandalo. Ci si potrà chiedere perché l’encomiabile scelta di scartare ambienti e soggetti infrequentabili, quantunque reali, non abbia pure evitato il caso scabroso. Invece, poiché si arriva in fondo essendo stati al pulito, ci si può rallegrare di questa prova superata, mentre resta innegabile lo sfruttamento degli spunti spassosi, e permane ammirevole la giustezza con cui Colantuoni plasma a tutto tondo le personalità.

Camillo, plurilaureato e bello spirito ridotto sul lastrico, che non sa come passare la notte alla vigilia della Fiera Campionaria di Milano, incontra Leone, un vecchio compagno d’università, ingegnere affermato, la cui moglie è partita per Varallo Sesia. Il marito sta recandosi a San Pellegrino dove troverà compagnia, dunque offre all’amico ritrovato di dormire a casa sua, gli lascia le chiavi. Al mattino la cameriera, portando la colazione, sveglia nello stesso letto matrimoniale tanto Camillo che Giannina, la sposa di Leone tornata a tarda ora avendo perso una coincidenza di treno. Entrambi hanno dormito pesantemente, ignari della loro vicinanza sconvenientissima. Scoppia un putiferio attorno al pacifico personaggio, reso filosofo da ben altre catastrofi. Dapprima, la signora è scappata credendolo un malintenzionato. I vicini curiosi sono subito desti. Il commissario di polizia, sentito il presunto intruso, si sollazza all’idea che il marito lo abbia messo al proprio posto nel talamo. Leone ritorna con gli amici da San Pellegrino, dove è andato a divertirsi all’insaputa di Giannina, sicché, nelle varie entrate e uscite dalla stanza coniugale da cui l’ospite aspetta di andarsene, l’imbarazzo giunge al colmo. La pubblicità compromettente sta ormai dietro l’angolo, e minaccia di farla scoppiare un cronista cha ha carta bianca nel giornale cittadino. Egli tiene moltissimo a tener viva la sua rubrica mondana con notizie piccanti, da cui dovranno trapelare i nomi dei protagonisti. Ma egli è anche una canaglia patentata, che ricatta Giannina proponendole uno scambio disonesto. Quando la donna sta valutando se sacrificarsi per la pubblica onorabilità della famiglia, ultimo colpo di scena: Camillo fa il gesto generoso e ardito sfidando a duello il giornalista, che pure è un consumato spadaccino e ha sulla coscienza svariati ferimenti in singolar tenzoni. Lo scontro alla sciabola si risolve con tagli piuttosto superficiali, e la tranquillità è ricuperata. Tuttavia l’incolpevole incidente, quel disordine venuto a produrre gli impulsi del sospetto, della collera sconsiderata e la disposizione all’espediente illecito, lascia infine uno strascico, un moto di simpatia della donna verso il singolare Camillo, causa involontaria dello scandalo e cavaliere della riparazione.

Un sigaro avana (il sigaro lasciato da Leone sul comodino era di una qualità oppiata, soporifera, complice del caso beffardo) fu il canto del cigno di Colantuoni (1874-1959), pubblicato nella collana Amena di Garzanti; sebbene quest’uomo attivo e sociale continuasse a impegnarsi per il teatro e per l’arte anche quando vecchiaia e malattia lo relegavano nell’isolamento.

Il suo curriculum reca l’impronta d’un temperamento esuberante: giornalista, polemista, coinvolto in duelli; per il resto, ricalca le orme di parecchi scrittori interventisti, pluridecorati e promossi per meriti di guerra, difensori dei sacrifici militari. A parte i racconti di Una casa qualunque (1945), la sua produzione riguarda il teatro, da quello di rivista a quello dialettale milanese e veneziano; fornì libretti d’opera, scrisse commedie e drammi.

ccNel 1954 l’Editore Gherardo Casini in Roma, per la Collezione del teatro italiano contemporaneo ripubblicò in un volume La guarnigione incatenata (1935) e Tra le due vite (1946), opere drammatiche, e la commedia Lettere a nessuno (1939).

Si rendeva così giustizia specialmente alla messa in scena, nell’immediato dopoguerra, di Tra le due vite, stroncata da una “platea in tumulto”, da un “dissenso iroso”, da una “raffica” “annunciata, settimane prima, con minacce enormi e intimazioni, di cui un giornale cittadino aveva già dato notizia”. E tutto perché, trattando di caduti della Grande Guerra, spiriti aleggianti sopra il Rifugio-Albergo del Monte Grappa, a cui negli anni 1941 (primo e secondo atto) e 1943 (terzo atto) veniva fatto convergere il pellegrinaggio di parenti dei morti, l’autore aveva dato un minimo cenno ai partigiani e perché la politica era rimasta fuori dalle tragedie personali.

Prudentemente, la nota introduttiva non oltrepassa il rilievo dei pregi artistici, si sofferma a distinguere la lettura del testo dalla sua rappresentazione, e rivaluta quest’ultima nell’adattamento radiofonico trasmesso nel 1949, che aveva riscosso i consensi dei critici e degli ascoltatori. – Che fine faranno, viene da chiedersi, tanti capolavori di riduzione di lavori teatrali e letterari efficacemente contenuti nei soli mezzi suggestivi della parola, dei suoni e delle musiche?

Il fulcro delle pene toccate ai congiunti dei militari è la loro recisa scomparsa. Non già semplici strascichi dei lutti, ma conseguenze impreviste, terribili incomprensioni e dissidi in seno a famiglie, cui solo gli estinti potrebbero ovviare. Ed allora le loro anime compaiono sui gioghi delle trincee e dei sepolcri, dialoganti fra loro e partecipi dell’esistenza dei loro cari, come dimorando in un limbo spesso doloroso per un’impotenza a provvedere: una condizione che dura fino a quando cadranno gli affetti che li legano ai vivi. La finzione spazia oltre le conoscenze rivelate e accertabili, tuttavia l’ipotesi riceve qualche conferma dalle manifestazioni di trapassati, che lasciarono impronte tangibili di sé in questo mondo; e la Chiesa proibisce la ricerca di comunicazione con i morti, senza escluderne l’evenienza, ovvero la possibile loro presenza emotiva al nostro tempo attuale.

Ottobre del 1941, secondo anno di guerra. L’albergo sta per chiudere. Tre reduci del conflitto 1915-18 fanno da legante tra le note personali o le vicissitudini, emerse nei dialoghi, dei parenti venuti alle tombe e a vicenda entrati in scena. Un trio formato da due ragazze eccentriche e un giovane sportivo, superbo e insolente, capitati lì come per caso o per capriccio, completa l’ambiente nel quadro dell’epoca, insieme alla costante figura di Don Giulio che, su un’opposta sponda, distribuisce conforto, offre appianamenti e, discorrendo dei soggiorni, risponde all’albergatore di non credere ai richiami del subcosciente, ma ad una coscienza col passare degli anni messa a fuoco.

C’è un babbo austriaco venuto ai sepolcri di due figli, e ne ha un terzo colonnello in Africa. C’è una famigliola: una bimba con i genitori assillati dalle sembianze di un figlio rimasto a casa, straordinariamente somigliante al defunto primo marito della donna, Silvia, che non manca di venire a portargli i fiori lassù. Giungono, all’ultimo momento, un colonnello e sua figlia, signorina. Sono arrivati per il fratello generale, il cui figlio è capitano all’Asmara. La ragazza è inquieta; l’albergatore ha fatto intendere che suo cugino, l’anno precedente, compì la visita pietosa con una compagnia femminile. Ella accusa un malessere e non segue il padre.

Ora, prendono forma tre ombre scese nell’albergo deserto: il primo marito di Silvia, amorevole e sconsolato, con due compagni che non vedono l’ora di ascendere di nuovo alla montagna, donde, nel successivo atto secondo, anime più numerose vedono in ogni dove i loro familiari, ampliandosi così la gamma delle fedeltà e dei tradimenti, dei memori e degli immemori.

Uno soffre per la figlia datasi alla cattiva vita. L’altro continua a trepidare per la sorte della sua vedova rimaritata e madre del ragazzo che gli assomiglia quasi egli ne fosse il padre vero. Il generale parla accorato del figlio che vede giacere ferito a morte in Eritrea, senza che abbia potuto riparare col matrimonio l’aver messo incinta la cugina; e accusa la negligenza di suo fratello, genitore la cui debolezza ha macchiato un’illustre casata.

Ma il generale può dar conforto all’Eroe Giovane, tormentato da una donna indegna che, tornata a lui ostentando l’omaggio reso alla sua tomba, profana tutto il cimitero; e rincuora l’Eroe Giovane allorché questi dice il suo rammarico di non potersi rendere fiamma in testa ai combattenti della guerra in corso, e ritiene che siano ignari come lui e i camerati erano inconsapevoli che nella bandiera stracciata, davanti all’assalto, c’era il sacrificio dei Caduti, come se la morte fosse sempre sciupata. “No, vedrai” risponde il generale. “Nessuna aurora è mancata mai alla sua legge. Verrà anche quella che aspettiamo noi”.

Il filo centrale, conduttore dal principio alla fine, è animato da Anna, una signora sulla soglia della disperazione, seguita nei luoghi della memoria da un malinconico spasimante, che ella fugge e respinge. Pietro Roveda, il marito roso dal sospetto ficcato in mente da una lettera anonima, preda d’una gelosia irragionevole quanto potente, lasciò il reparto al fronte per spingersi fino al suo paese. Ma, al momento dell’inutile appostamento per sorprendere la fedifraga, quando i carabinieri lo presero e il suo destino fu segnato, alla vista del suo rivale immaginario egli ebbe la rivelazione che Anna non lo tradiva. Lei e il loro pupo componevano una maternità degna del Cielo. Così, gli apparvero dopo essere stato fucilato. Tuttavia la rassicurazione della purezza venne sommersa dall’angoscia per il disonore piovuto sui suoi, perché Anna non avrebbe saputo che egli si era ricreduto, e perché il sospetto, possedendo il figlio con l’esito d’una tremenda certezza, gli avrebbe fatto ripudiare la madre. Ella, abbandonata, ora va ai tumuli senza riconoscere, tra gli anonimi, quello del giustiziato. Pietro non si dà pace del diaframma insuperabile che separa i viventi dalle anime degli uccisi, tra i quali è un sacerdote che gli sta accanto e pone il dubbio che il Signore onnipotente non abbia illuminato Anna secondo quanto egli vorrebbe dirle, essendo sua moglie diversa dalla donna da lui apprezzata. Egli invece è certo di lei, e che il Signore, “l’Imperscrutabile”, così ha voluto  nonostante tutto.

Dopo l’intermezzo d’una visione di Anna e un commilitone di Pietro, i quali lo ricordano ravvivando lo strazio, il prete risponde a due degli astanti che chiedono chi possa ottenere la grazia desiderata dal compagno d’armi accasciato: “Chi di noi sarà il più piccolo e il più buono” egli dice. Non si sa però quando e in che modo ciò possa avvenire.

L’atto termina con una squadriglia di aeroplani calata per gettare fiori sulla statua della Madonnina, ferita a un braccio, e sui morti, che salutano vivamente. In mezzo ad essi, Pietro Roveda chiede agli aviatori di riferire ad Anna ogni cosa per la consolazione di entrambi.

A maggio del ’43, l’albergatore ha riaperto nonostante le ristrettezze e gli impedimenti del momento. Alcuni ospiti si ripresentano essendosi arrangiati coi mezzi di trasporto. Don Giulio medita persino il progetto di una gita turistica, che rianimi il posto. La mattina, una cameriera ha trovato Anna rannicchiata contro un muro esterno. Ha passato la notte fuori senza che si sappia con quale vettura sia arrivata; ed è presto scomparsa. La corriera scarica tre aviatori in licenza, gli stessi che fecero il lancio dei fiori; dietro di loro scende Balestri, il signore che va appresso ad Anna, e questa volta sta sulle tracce di Daniele, il figlio di lei. Cresciuto e venuto a conoscere le circostanze della morte di suo padre, egli era scappato inorridito, emigrato in Argentina, quindi è ritornato per servire la Patria. Balestri ha informazioni sicure che il giovane si trova nei paraggi. Infatti, sebbene abbia cambiato nome e, dopo aver alloggiato nell’albergo, stia per partire, l’uomo riesce a individuarlo e a parlargli. Sopraggiunge la madre di ritorno dal giro tra le casematte, e incontra il figlio sommergibilista. Riconoscimento, riapertura di ferite insopportabili, svenimento della donna, sue recriminazioni, chiarimenti e abbraccio commosso.

Il giovane ha saputo da un marinaio, che accompagnò al Grappa suo padre reduce di quelle trincee, il luogo dove è sepolto Pietro Roveda. Ma Anna ha un sacro timore di avvicinarsi ai resti mortali di un anima risentita e travagliata. Daniele ha potuto esplorare la sepoltura e ne ha preso un medaglione che dovrebbe racchiudere l’effigie della mamma. Egli ha aspettato a forzarne il coperchietto sigillato dagli umori della terra. Se il babbo conservò all’interno l’immagine della sposa, significa che la serbò nel cuore. E difatti Anna è rimasta dentro alla piccola custodia d’argento. Ella rammenta un ricorrente sogno premonitore in cui un soldatino le porgeva il medesimo medaglione. Ogni garbuglio è sciolto. Si va a pregare sopra le ossa del martire di sè stesso e di un destino doloroso, ma infine redentore. Il prete dica pure a Balestri che è perdonato.

Colantuoni nel 1930 partorì anche una tragicommedia molto diffusa all’estero, I fratelli Castiglioni, portata sullo schermo cinematografico con lo stesso titolo dal regista D’Errico, nel 1937, e sui palcoscenici italiani da artisti del calibro di Gilberto Govi e Ettore Petrolini. Questo testo teatrale venne ripreso nel dopoguerra e trasmesso dalla RAI. È la storia di un tiro birbone giocato da un morituro ai suoi avidi eredi, e portato avanti da un amico del defunto gabbamondo.

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