ALFREDO PANZINI (seconda parte) – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

SECONDA PARTE – per leggere la prima parte, clicca qui


panzini

 

Ho nominato, all’inizio di questa esposizione, il verismo di Alfredo Panzini. Ne Il padrone sono me (1922) è il figlio dei coloni a narrare e ad esprimersi a modo suo. Coi suoi occhi, con le sue sensazioni, vediamo il padrone illustre scienziato, la di lui moglie borghese intransigente, il loro figliolo, suo compagno di giochi avventuroso e azzardoso, i villeggianti, la ragazzina americana sbrigliata, un po’ cinica, volgaruccia e calcolatrice, i paesani irretiti dai politicanti socialisti, i carabinieri che già lasciano correre con ladri e delinquenti: sebbene, ovviamente, la mano dello scrittore discerna ed ordini. Perché Verga resta incancellabile e Panzini no? Il discorso sarebbe lunghetto.

L’accompagnatrice della vivace Dolly, mandata dagli stati Uniti al mare di Bellaria per acquistare carne e salute:

“La Dolly le dava un gran da fare; e quando veniva su dalla spiaggia dopo essere stata e tener su l’ombrellino, gocciolava per il sudore da tutte le parti. Ma il suo dietro – come lo chiamava lei – le dava anche più da fare.

“Guai, andarle a dire che era grassa! Se ne aveva a male! – Io essere carina, aver sottile gamba! – e faceva vedere un po’ della gamba. Ma era il suo dietro che le faceva star gonfie tutte le sottanelle. Ci dava dei colpi con la mano. Ma sì! Per dimagrire le avevano detto di far molti bagni, e lei allora stava in mare come un’anguria nel pozzo. A tavola, poi, aveva fame, e la roba le faceva gola: ma per paura di ingrassare, faceva penitenza. Bisognava vedere certe sere quando c’era movimento, che la cuoca mandava su un piatto di frappole e fiocchetti inzuccherati. Ne pigliava uno, due, li mangiava come una religione. […] La Dolly, invece, per comando del medico, doveva mangiare più del doppio. E il padrone quando la vedeva mangiare con appetito, provava piacere come quando si vede la terra secca che beve acqua”.

Si ripresenta il mondo contadino quando serpeggia la sobillazione e la pretesa comunista sta per compiere i soprusi e le violenze. Gli interventisti borghesi e il contrario popolo romagnolo sono due fazioni in guerra. La malattia si è portato via il proprietario che s’era guadagnato villa e podere attingendo ai modesti proventi della sua professione.

panzini libro2Il giovane figlio di papà è un puro. Deluso dall’americana che amava, capitato in zona di operazioni tra ufficiali smaliziati sotto un rozzo comandante, rifiuta una destinazione favorevole che la madre gli otterrebbe: gli è caro non lasciare l’amico che ora milita nel suo reparto, il compagno di giochi in quel lembo di terra rurale e litoranea. Costui, vinto dalla paura, si sente male al momento dell’assalto. L’amico tenente, di vivo spirito militare e patriottico, vista l’inettitudine del compagno, lo destina a portaferiti; e muore nell’azione. Il contadino scarica il ferito deceduto e si defila.

La pace. Il reduce assiste alla cattiveria di sua madre verso la vedova che inneggiava alla guerra ed è stata ricompensata dalla perdita del figlio. Con tutti di suoi difetti, ella resta fedele ai suoi ideali. Ma i tempi e gli uomini le sono ostili. I sovversivi hanno alzato la testa, molti vecchi proprietari devono piegare la testa. Neppure i villeggianti tornano sulla riviera di Romagna. Vengono i nuovi ricchi, che spendono e godono. I disertori beneficiano della grazia. Azioni predatorie, ville svaligiate, prepotenze, scioperi, boicottaggi. L’innata furbizia contadina del padre adopera espedienti per spaventare la padrona e comprare a buon prezzo la proprietà. Il giovane non vuol più lavorare i campi, e va alle fiere con un banco di rivenditore. Quasi per un moto atavico, la famiglia si è girata assecondando il vento. Però è un vento sgarbato, e l’anziano mezzadro si rammarica d’aver mutato condizione. Di lì a poco, renderà l’anima a Dio. Prima di spirare chiede i conforti religiosi, viene assolto, lascia benevole raccomandazioni. Anche la moglie rancorosa, pratica devozioni. L’erede incredulo del destino eterno, subisce tuttavia l’avversione della lega rivoluzionaria, che esige la sua tassa e lo disprezza per aver chiamato il prete al capezzale paterno.

Un giorno, sbarca da un panfilo il ricco industriale che fu il fidanzato e poi il marito della ragazza americana, perìta da crocerossina in un ospedaletto a ridosso della prima linea. Egli si è dato alle navigazioni, con minimo equipaggio; si accampa sulla spiaggia in una tenda confortevole, appare irriconoscibile al villico, a suo modo, rifatto. Riandando i bei tempi, ragguagliandosi sui fatti intervenuti nelle loro vite, egli dice che adesso “il padrone sono me”.

Panzini scrisse anche pregiati diari di viaggio attraverso l’Italia (p.e. La lanterna di Diogene), e fu novelliere prolifico.

Nel 1925 esce il suo romanzo più intenso e drammatico, nonostante qualche incertezza di struttura della sequenza iniziale: La pulcella senza pulcellaggio. La vicenda, ambientata nella fine del secolo, si divide fra un borgo montano e Bologna. Si approfondisce per noi l’ingresso in un’epoca, partecipiamo dei risvolti, delle pieghe dimenticate, entriamo nell’intimo del paesetto come del capoluogo.

Serafino, di umile estrazione arricchita, studia per diventare avvocato. Per prendere la laurea, il giovane si mette a pensione nella grassa Città. A un veglione, incontra una fanciulla attraente, dalla spiccata personalità; ed è un colpo di fulmine.

“Allora fu preso da grande spavento.

“Egli aveva detto in chiesa, il dì delle ceneri: memento homo; aveva cantato miserere, e non ci aveva mai pensato. Quella mattina ci pensò. Perché Amore fa pensare alla morte? Oh, non aveva mai amato, Serafino? Sì, ma l’amore, prima di quella notte, era stato per lui una cosa gaia: come di estate, andare a caccia delle quaglie. Ora era una cosa diversa: terribile e immensa”.

La moglie del sindaco: “La signora Genoveffa […] era ancora una bella donna, prosperosa e forte, tanto che il marito aveva per vezzo di dire: – Che bel pezzo di donna gustosa sarebbe quella là, se non fosse mia moglie! […] Ella era massaia grandissima. Portava sempre le chiavi alla cintola; e quando andava alla messa, metteva una sottana nuova sopra la vecchia; ma non abbandonava mai le chiavi. La mattina la si sentiva, per l’aria chiara, chiamare, plì, plì, plì, e chiamava i polli per dar loro da mangiare. Aveva il più bel pollaio della Faggiola: galline padovane, galline faraone, tacchini con certi colli a verruche coralline che erano una bellezza, schiere di papere e anche pavoni. […] La signora Genoveffa segnava le uova col numero progressivo per saperne la età e la freschezza. Male si azzardavano i faggiolani col suo pollaio, prima perché ella aveva grossi cani, poi perché una notte si sentì i cani urlare e il pollaio agitarsi, e Gerolimino non c’era, si levò lei dal letto, imbracciò la schioppa, aprì gli scuri e sparò senza dire: Chi va là. La mattina, trovò del sangue e forse non era sangue di faina o donnola! – La mia schioppa – diceva, – è carica di pallini grossi”.

Serafino si persuade a corteggiare la figlia del sindaco.

“Parve tanto savio a Serafino il consiglio del nonno [il quale con metodi poco ortodossi aveva procurato bei terreni alla famiglia] che cominciò a tubare e far la ruota attorno alla Fanì, come fanno i piccioni: passava sotto la finestra di lei, o con un garofano fiammante all’orecchio, o con in mano un mazzetto di erba melissa, che vuol dire: t’amo, e non oso dirtelo. Se la Fanì appariva alla finestra, lui si metteva il dito indice alla bocca, e faceva l’occhietto dolce in segno di desiderio. La Fanì da prima si ritraeva dalla finestra e poi ci rimase; lo stava a vedere quando sul baroccino, tendendo le redini, faceva imbizzarrire il cavallo, e lo domava con la frusta”.

Accanto ai tratti coloriti, che disegnano le radici utilitarie e scaltre da cui il ragazzo non si saprà liberare, si svolge la sua avventura favolosa, il suo innamoramento, che ha ben donde d’essere straordinario. La pulcella Berenice appassionata e incantevole, che racchiude e armonizza in sé i vari caratteri femminili, cadde quasi suo malgrado nelle spire di un conte, da cui fu romanticamente l’affascinata. La relazione è finita, ma egli resta un idolo per lei, che pure si dà a Serafino con dolcezza e schietto sentire. Ne nasce un raro idillio, in cui tutti i sensi si stemperano prodigiosamente. E quale futuro può avere? Non sarà la diversità delle due nature a rompere l’incantesimo, ma il sindaco sceso a Bologna. Né sarà stata la brutta posizione dell’universitario nei confronti della promessa sposa, ma un buon affare, che distoglie il padre della fidanzata, venuto a chiedere lumi legali per condurlo in porto. Così Serafino è riafferrato dal suo mondo. Il conte, figura di anacronistico cavaliere rovinato dalla prodigalità, tronca le grinfie del bisogno suicidandosi. Berenice non regge al dolore e, rimettendosi al suo innamorato, gli chiede di portarla lontano. Viceversa, egli cede ad una grama reazione. Quando, ammonito dalla padrona di casa, cerca di raggiungerla, ella ha ormai seguito l’insana dipartita del suo antico amore.

Forse il seguito dello storia poteva essere risparmiato. Ma l’autore si induce a descrivere l’evoluzione delle cose, quasi a saldare un debito sociologico. Serafino sposa Fanì, si barcamena nella politica, coglie al volo le speculazioni. I paesani si fanno rivoluzionari, volendo guadagnarci e non essere da meno.

“Ma siccome alla Faggiola venivano altri organizzatori che si proclamavano puri e volevano che i faggiolani si iscrivessero alle leghe, così Serafino per sembrare più puro di quei puri, diceva: – Faggiolani, non inscrivetevi nelle leghe, se no diventate borghesi. Tutti i faggiolani diventarono così entusiasti del lavoro che quando stavano all’osteria, e vedevano passare un borghese, gli gridavano dietro: – Lavorare! – E quando passava il brigadiere dei carabinieri coi due militi mormoravano: – Vagabondi. Mangia pane a tradimento”.

Egli, in seguito, desidererebbe un’opposizione che facesse ordine. Intanto si crea una posizione di deputato. Per finire, si trasferisce a Roma in una villa lussuosa, intitolata Verba manent, in attesa d’essere nominato ministro.

Nel 1925 Panzini, sostanzialmente mite, anche se aveva rispettato l’olocausto della guerra, sottoscrive il Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile. Nell’introduzione al volume documentario Il nuovo volto d’Italia (1934), scriverà: “Ecco una ferrea porta novissima scorrere sopra un binario: dall’apertura delle due valve si scorge la cupola di Michelangelo. È l’ingresso della ferrovia della Città del Vaticano. Quella porta ha aperto due libertà. Il riconoscimento italiano della religione dei padri e della realtà della vita spirituale, è grande cosa che deve essere ricordata […] e questa cosa tanto più è notevole se messa in confronto con altra rivoluzione, che ha proclamato l’abolizione delle religioni dei padri e della vita spirituale”.

In Legione decima, dello stesso anno, libro che verte sulla conversazione d’un vecchio professore con un ragazzo arruolato nella X legio, al quale illustra Cesare e le sue imprese militari, anteporrà, in una pagina d’esordio, che “noi andiamo spesso, al mattino e al tramonto, a piedi lungo la spiaggia del mare, sino alle rive del Rubicone […] Laggiù è Ravenna con Giustiniano nel tempio d’oro, e il libro delle leggi; con Cristo giovane nel tempio azzurro, fra i gigli e gli agnelli. Oh, molto amata Italia, noi non abbiamo bisogno di viaggiare il mondo per tutto vedere. Questo libro è nato qui, ed è nato così”.

Un lungo apologo singolarmente fantastico, I tre re e Gelsomino buffone del re (1927), rappresenta, a faccia a faccia, un regno tradizionale, collocabile tra il ‘600 e il ‘700, e una democrazia novecentesca alla conquista del globo, globalizzatrice. Il reame del vecchio sovrano viene aggredito dal paese della Libertà, che può contare su ministri, prelati e principi corrotti e felloni. Il libro non è manicheo, ma assai profetico nell’osservare ai raggi x la veniente umanità delle macchine coi suoi esponenti ignobili e ipocriti, con le sue aride brame, con le sue barbare distruzioni, con le sue pervertite parificazioni.

Conversazione al ricevimento offerto agli ambasciatori del re della Libertà:

“- Oh, regal damigella, – rispose Probo – come potrei io spiegarmi? La civiltà del nostro regno tende verso un regime di uguaglianza, e perciò anche i sessi aspirano a confondersi; il sesso mascolino entra nel femminino e il sesso femminino entra nel mascolino […] – Non portano chiome le vostre donne? – Rispose Probo: – Sempre per il principio dell’uguaglianza, gli uomini lasciano crescere il ciuffo, le donne recidon le chiome. – Pardon, se interrompo,- disse l’abate Papera – ma la cosa mi interessa molto. Con queste chiome recise, voi non potreste mai magnificare una dama cantando con l’antico poeta: Eran le chiome d’oro all’aura sparse, / che in mille dolci nodi l’avvolgea. Rispose Probo: – Gli antichi poeti sono stati aboliti, signor abate. […] Delicatamente parlò allora la Regina e disse: – Signor ambasciatore, a me sembra che con questa uguaglianza dei sessi, vi priviate della più gran gioia che è l’amore”.

Gelsomino, pastorello suonatore di flauto, è l’uomo pacifico, incolto e fedele, nonostante tutto. Strappato da madre e sorella a insaputa del sovrano, viene creato buffone del re. Questi lo prende a ben volere. La regina, la principessa Violante, il principe ereditario, il ministro Floridoro, l’abate Papera, i paggi, gli addetti al castello, o sono indegni e riottosi, o tramano ai danni della corona. Il re addolorato confida a Gelsomino che non può ricorrere a punizioni, ed eleva il giullare al grado di gentiluomo, al suo personale servizio. Per sbaglio, egli mangia una vivanda avvelenata preparata per suo signore, che lo invia in un passaggio sotterraneo, al termine del quale troverà, fuori porta, chi lo curi: un uomo somigliante all’augusto protettore. L’uomo, che è gran giustiziere, e la sua giovane figlia lo guariscono.

Si annunciano gli ambasciatori dell’Incorruttibile, il re della Libertà. Il monarca non intende trattare con loro. “Sono uomini senz’anima! O almeno con un’anima differente da quella che noi abbiamo […] Il sole, la luce, i pianeti sono per essi vani ornamenti del cielo”. Il loro capo “è un freddo fanatico, che ha mandato a tutti i Re della terra questo bando di volere essere lui solo il Re del mondo, riducendo tutto a sua somiglianza”. Egli, re Eugenio, non si sottomette. “Saremo martiri e santi in Paradiso!” dice al gran preposto. Per il momento, decide di mettere al proprio posto il boia che gli assomiglia. A Gelsomino gli inviati dichiarano che l’aggettivo nobile è abolito, che “ogni uomo è Dio”, che “virtù dei popoli morti è cortesia. I popoli vivi sono squisitamente scortesi”. All’udienza, intimano al “tiranno” di abdicare, pena la sua morte e lo sterminio. Il vice-re, al cui fianco è comparso un littore, li fa cadere in un trabocchetto. Finiti in una fetida segreta, essi rinnegano la libertà e sono alloggiati bene. Ma tramano con Papera e il duca Florindo, onde questi ultimi ritentino il regicidio. Colui che indossa la veste regale fa allestire per gli ospiti un banchetto, cui non potrà intervenire. È l’occasione per ampliare, nelle conversazioni degli stranieri con le dame, il sagace e arguto confronto dei costumi. Il sovrano dà la risposta attesa dai messaggeri: prenderà le armi dell’onore. Scoperti, contemporaneamente, Floridoro e Papera venduti al nemico, il carnefice si rivela, e gli ambasciatori fuggono sul bolide rosso con cui sono venuti. La via del ritorno è bloccata; le guardie li riportano ad assistere al giudizio e alla cruenta esecuzione dei traditori. Quindi, graziati per la loro immunità diplomatica, devono rimpatriare immantinente.

L’esercito di montagna ha cominciato l’offensiva cannoneggiando con vecchie bocche da fuoco. Il boia viceré spedisce Gelsomino al quartiere del sovrano in battaglia. Incontra un viandante, che si dice re – il terzo re – di un reame senza confini, interiore, e tuttavia l’ha perduto cercando di scrivere un libro veritiero. L’enigmatico personaggio viene dal paese della Libertà.

Gelsomino ne chiede notizie. “Perché si chiama della Liberta?”. “Perché è un bel nome. Ma se non hai le tue carte in regola ti troverai male. Là in ogni cantone trovi i gendarmi che ti fermano se tu sei diverso dagli altri”. I cittadini sono “gente tutta uguale, come i salami di Vienna, puliti, ben fatti, ben torniti; ma senza il sapore dell’anima. Corrono sempre per i loro affari. Riceverai molti urtoni se vai là”. E “mai domandano scusa! La prora della loro nave è rivolta verso la vita; ma il cielo è morto, coelum perit. Essi vivono per le loro macchine, e sono macchine anch’essi”. Il loro re “è un uomo che lavora in frittate: sì, ragazzo mio! Non si stanca di rompere uova. Io mi salvai perché lui mi disse: – Tu sei un uovo marcio! – E mi fece  condurre nella casa dei matti”.

Il re vegliardo chiama giorno natale il domani di battaglia, quando passeranno a nuova vita. Gelsomino non vorrebbe morire. Al risveglio, osserva lo spettacolo terribile dei pastori in sella con addosso pelli di animali, alla testa delle schiere. Intonano un inno alla Madonna dipinta su un grande stendardo. Avanzando, li riceve il crepitare delle mitragliatrici, sennonché, per prodigio, una nube, precedendoli, ha abbattuto o stordito i nemici, altri di loro si danno alla fuga. I pastori fanno strage, e il re li trattiene. San Michele ha fatto il miracolo. Invece è stato un mago, strumento del demonio, che risiede nel vicino castello del maresciallo. Gli arcangeli si servono pure del diavolo.

L’Incorruttibile è fatto prigioniero. Sperava di condurre il re davanti al popolo e di ghigliottinarlo con grande spettacolo, e corsa di folla intesa a procurarsi souvenir insanguinati. La principessa, tramite gli ambasciatori, aveva mandato una lettera all’Incorruttibile offrendosi a lui. Il quale promette di prendersi la fanciulla. Si considera vincitore, anche se lo uccidessero. “Io sono l’uomo” sostiene. “L’uomo di quale umanità?” “Di una umanità che sta per venire, e non avrà più mistero”. “Un’umanità orrenda” dice il re. L’altro disprezza la parola “orrenda”. Anzi, vanta il disprezzo per la quantità di omicidi che avvengono nel suo stato. “Ogni giorno la stampa si diverte a mettere in rilievo i particolari sempre più strabilianti dei delitti di sangue […] una infinità di pubblicazioni, che contribuiscono, per loro conto, a promuovere la depravazione degli appetiti. Ebbene, tutto questo non ci commuove, tutt’al più commuove le compagnie di assicurazione”. “E voi […] ubriacate il popolo con le parole di pace, di fratellanza, di giustizia?…” “E tu,” dice il re della Libertà […] “Non ubriachi anche tu i tuoi popoli quando nei dì delle feste metti il vino nelle fontane?” “Non io misi il vino nelle fontane,” risponde il vecchio Re “io bevvi l’acqua pura alle sorgenti dei monti, coi miei pastori”.

Vanno al maniero del maresciallo dove il negromante opera i sortilegi. Egli ha prodotto la nube tossica, che non è letale. E tiene in serbo uno strumento di sterminio straordinario. L’Incorruttibile vorrebbe pagarlo milioni. Egli non accetta. Si viene a sapere che non è altri che un chimico, con grande delusione del re Eugenio.

Ritorno in trionfo. Sfilano nella parata quelli che non hanno combattuto e i felloni, compreso l’abate Papera già decapitato e, non si sa come, di nuovo con la testa sul collo. Il re darebbe sua figlia Violante al vinto, ma lei non vuole più. Egli dichiara l’Incorruttibile nuovo sovrano, credente nella sua nuova religione, ed abdica a suo favore, dicendosi un re morto.

Papera, diventato primo ministro, ha ricevuto una lista di proscrizione dei fautori dell’ancien régime. La ghigliottina lavorerà con un boia cittadino. Il bel parco reale appartiene al popolo e, in breve tempo, resta sconciato. Il dottore avvelenatore e il duca della congiura hanno un monumento di martiri della libertà. La reggia sarà trasformata in casinò, nei progetti dei ministri, che intanto vi abitano. E lì regna l’Incorruttibile, chiuso con la sposa Violante, per la quale spasima morbosamente, non corrisposto.

Gelsomino vorrebbe seguire il vecchio re. Non lo trova. Nell’elenco dei condannati c’è lui pure, che, rintanato nel palazzo, assiste alle abiette profferte d’amore del re della Libertà per la sua regina. Ella vuol sedurre Papera affinché uccida il marito. Gelsomino, innamorato della bella, esce fuori dicendole di mettersi in salvo dalle mene del perfido Papera. Ella accusa l’abate di aver spiato le disgustose viltà del gelosissimo consorte, ed è la fine di Papera.

Gelsomino se la svigna, trova il vecchio giustiziere che sta per partire dalla sua casetta nel bosco. Negli adii, sua figlia veggente rivela come il vecchio re fece bene ad andarsene. L’antico pastorello buffone torna da madre e sorella, ma sogna Violante. Rifiuta le ragazze del contado. Raggiunge il re in un convento dove si è ritirato. Egli osserva la regola, taciturno. Non chiarisce il motivo della sua abdicazione. Al re non si fanno domande. Ormai vaga nell’incredulità: in cielo ci sono soltanto le rondini. Più tardi, sembra un po’ consolato. Muore. I pastori scrivono sulla lapide tombale: Non mai popoli vissero più liberi come sotto la tirannia del buon re Eugenio. Il re della Libertà ordina di rimuoverla e metterla negli archivi segreti di Stato, e di essa si perderà la memoria.

Ultima memorabile opera di Panzini fu Il bacio di Lesbia. Storia romanzata, in una Roma augustea, scolpita nei pregi e nei mali ormai pressoché irrimediabili. Elegiaca sublimazione dell’amore pagano di Catullo con la donna della sua vita, donna deliziosa e presto tornata irrequieta. Prima e dopo il nucleo dello splendido accordo amoroso: l’aspirazione sensuale e dolente; gli spasimi della privazione, amaramente e smodatamente espressi dal poeta, che incappò nelle crude invettive; questo e quello trattati con grazia finissima.

Il professore imbevuto di classicismo, non seppe di terminare con questo lavoro la sua carriera terrena. Tuttavia, alle pagine che cantano con qualche indulgenza le caste preziosità delle delizie proibite – e bensì caduche -, succede l’ora in cui il grande poeta latino “cominciò intanto a non uscir di casa, e si lasciò crescere la barba, e avvertì gli amici che intendeva mutare vita, darsi a pratiche religiose; e se per il passato aveva scritto poesie d’amore, ora intendeva scrivere poesie sacre: insomma aveva deliberato di abbandonare la strada del vizio per la strada della virtù. Diceva Catullo a Catullo così: ‘Arriva il momento della vita in cui ogni uomo che ha fior di senno, segue il consiglio di Prodico: si leva dai voluttabri del vizio e si avvia per il sentiero della virtù. Perciò abbiamo deciso di lasciare, e per sempre, la Signora’”.

Ella invano tornerà a cercarlo. Egli andrà nelle lontane province orientali a servire l’Impero, e dalla Grecia riporterà i sensi della più antica purezza.

 

(fine)

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