ANCORA SULLA C.D. “INTERPRETAZIONE ERETICA” DEL CONCILIO VATICANO II – A PROPOSITO DI UN RECENTE INTERVENTO DI P. GIOVANNI CAVALCOLI, OP – di Paolo Pasqualucci

di Paolo Pasqualucci

fonte: Conciliovaticanosecondo.it

 

 

mmSul sito “Riscossa Cristiana”, l’11 gennaio del corrente anno, il P. Giovanni Cavalcoli OP è intervenuto a favore della straordinaria opinione espressa di recente (sull’Osservatore Romano del 29.11.12) da S.E. Mons. Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (opinione già criticata sul presente sito), secondo la quale chi propone “l’ermeneutica della rottura” nell’interpretare il Vaticano II, sia sul versante “tradizionalista” che su quello “progressista”, si rende per ciò stesso colpevole di una “interpretazione eretica”.

Il P. Cavalcoli OP ha ritenuto opportuno sottolineare la novità che sarebbe qui apparsa: “per la prima volta si parla di ‘interpretazione eretica del Concilio’ in riferimento all’esegesi della rottura, che viene addebitata tanto ai “tradizionalisti” quanto ai “progressisti””.  Tralasciando i “progressisti”, questa taccia di eresia affibbiata a chiunque critichi il pastorale Vaticano II, che cosa implica per i “lefevriani”, che rappresentano notoriamente il ferro di lancia dello schieramento rimasto fedele alla Tradizione della Chiesa?  È presto detto.  “Le posizioni di Mons. Lefèbvre e dei suoi seguaci non sono semplicemente “scismatiche”, come per molto tempo si è creduto e la stessa S. Sede ha detto, ma sono eretiche”.  E perché lo sono?  “Perché Mons. Lefèbvre fece al Concilio delle gravissime accuse dottrinali negando la sua infallibilità sotto pretesto che non contiene dogmi definiti, accusandolo cioè di liberalismo, naturalismo, indifferentismo, illuminismo, antropocentrismo, tutte cose che se fossero vere, renderebbero eretico lo stesso Concilio.  Ma accusare di eresia le dottrine dogmatiche di un Concilio è dar prova di essere a propria volta eretici” (P. G. Cavalcoli,L’”interpretazione eretica” del Concilio Vaticano II, p. 1 di 2).

1.  Assurda accusa di eresia a Mons. Marcel Lefebvre. Questo dunque l’argomento contro Mons. Lefèbvre per accusarlo di eresia:  aver negato l’infallibilità del Concilio “sotto pretesto che non contiene dogmi definiti”.  L’assurdità dell’affermazione è palese, tant’è vero che ,in passato, mai Mons. Lefebvre è stato accusato di eresia dalle autorità romane.  Anzi, nel 2005 il cardinale Dario Castrillón Hoyos, allora Prefetto della S. Congregazione per il Clero, dichiarò pubblicamente che:  1. “La FSSPX non è eretica”; 2. “Nel senso stretto del termine, non si può dire che sia scismatica”, dato che non aveva dato vita a nessuna “Chiesa” parallela né mostrato mai una volontà effettivamente scismatica (Intervista a Canale 5, 13 nov. 2005, alle ore 9 a.m.).  Il “pretesto” usato da Mons. Lefebvre per negare la supposta infallibilità del Concilio sarebbe dunque stato quello della mancanza di “dogmi definiti” nei suoi testi.  Il P. Cavalcoli vuol evidentemente dire che nel Vaticano II non ci sono “definizioni dogmatiche” ma che, nello stesso tempo, tale mancanza non può essere utilizzata come pretesto per affermare che l’insegnamento del Concilio non è infallibile ossia non è dogmatico.  Ma, osservo, la mancanza di “definizioni dogmatiche”, impedendo di per sé l’infallibilità dei deliberati di un Concilio ecumenico, non può evidentemente costituire “un pretesto” per dichiarare che quell’infallibilità non esiste.  E non esiste perché l’infallibilità di un Concilio  non può prescindere dalle “definizioni dogmatiche”. E secondo la plurisecolare tradizione della Chiesa, esse devono risultare da ben precise formulazioni, rivelatrici di una chiara voluntas definiendi, ossia di un’esplicita volontà di definire una verità di fede come dogma (come verità da credersi “di fede divina e cattolica”, nel modo di esprimersi invalso). Questa volontà deve, pertanto, risultare anche da determinati segni esteriori, ossia da un determinato linguaggio, solenne, che comprende a volte quella caratteristica sanzione rappresentata dall’anatema o scomunica inflitta a chi non voglia accettare la verità di fede all’uopo proposta.  Perché l’esistenza della “volontà di definire” deve risultare da segni esteriori certi?  Perché il semplice credente deve sapere quando si trova di fronte ad una verità da credersi come dogma di fede, dal momento che non ottemperarvi significa cadere nel peccato di eresia (“l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa” – CIC 1983, c. 751); peccato gravissimo, mortale, l’eresia, poiché  offende direttamente la verità rivelata da Dio ed insegnata come tale dalla Chiesa.   Rilevare che il Vaticano II “non contiene dogmi definiti” non significa, pertanto, negare una sua inesistente “infallibilità”; significa limitarsi a prendere atto di una semplice e lapalissiana verità: il Vaticano II non contiene definizioni dogmatiche né condanne solenni degli errori.  E non le contiene per il semplice motivo che non ha voluto contenerle.

2. Il Vaticano II ha espressamente dichiarato di esser pastorale e non ha definito dogma alcuno.  L’eminente teologo Mons. Brunero Gherardini nelle sue recenti, ampie, precise analisi delle ambiguità e degli errori riscontrabili nei testi del Concilio, ha messo accuratamente in rilievo i vari aspetti in base ai quali non si può in alcun modo parlare di infallibilità dei suoi insegnamenti.  Rimando il lettore ai suoi libri e voglio qui ricordare solo questo suo argomento:  chi sostiene che il Vaticano II è dogmatico contraddice l’intenzione stessa del Concilio dal momento che è stato il Concilio stesso a dichiararsi non dogmatico e solo pastorale.  Infatti, cosa troviamo in appendice alle due (su quattro) costituzioni del Concilio, cui pur è stata apposta la denominazione di “dogmatiche”?   Troviamo una nota in calce nella quale si dichiara che l’insegnamento di queste stesse costituzioni deve ritenersi solo pastorale.  Ma un insegnamento che si autoproclama solo pastorale come fa a considerarsi dogmatico?  Il P. Cavalcoli è forse capace di spiegarcelo?  E come è stata possibile una contraddizione così clamorosa nei testi stessi del Concilio, si chiederà il lettore?  È stata possibile nell’ambito delle convulse e tormentate vicende che hanno caratterizzato il Vaticano II, occultate dalla storiografia dominante nelle sue varie manifestazioni e scuole e portate a conoscenza del gran pubblico  solo dalla recente Storia mai scritta del Vaticano II, del prof. De Mattei, opera a tutti nota.  Ma vediamo un momento le due “note” di cui sopra.

La costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa fu approvata il 21 novembre 1964, la costituzione dogmaticaDei Verbum sulla divina rivelazione lo fu il  18 novembre 1965.  In calce alla prima si trovano due Notificationes :  una concernente la “nota teologica” della LG ed una, chiamata Nota explicativa praevia, che illustrava il modo nel quale si doveva ritenere la nuova dottrina della collegialità insegnata dal Concilio.  Circa la nota teologica, vale a dire se il Concilio dovesse considerarsi dogmatico e quindi fornito dell’infallibilità oppure solamente pastorale (come per esempio tre Concili ecumenici tenutisi nel Medio Evo, che non avevano proclamato dogmi), la Notificatio citava alla lettera, come dirimente le opposte opinioni in materia, una dichiarazione del 6 marzo 1964 della Commissione Dottrinale del Concilio stesso, che vegliava (come dice il nome) su tutti gli aspetti strettamente dottrinali del lavoro delle Commissioni conciliari.  Ecco il testo:

“Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali [Ratione habita moris textum conciliaris ac praesentis Concilii finis pastoralis, haec S. Synodus ea tantum de rebus fidei vel morum ab Ecclesia tenenda definit, quae ut talia aperte ipsa declaraverit]”.  La medesima dichiarazione si ritrovava nella Notificatio in calce alla Dei Verbum.  Allora:  1.  Il Concilio ha un fine pastorale e non dogmatico.  Ciò significa che non vuole definire dogmi né condannare errori.  2.  Ne consegue che “esso definisce come obbliganti per tutta la Chiesa” ovvero che devono ritenersi dogmi di fede, che cosa?  I “ soli punti che esso stesso abbia apertamente definito come tali”.  E pertanto:  solo quei punti di dottrina che il Concilio stesso “abbia apertamente definito come tali”, abbia cioèesplicitamente voluto definire come dogmi di fede.   Ma questi “punti concernenti la fede o i costumi” oggetto manifesto di una definizione dogmatica, si ritrovano forse nelle sue due costituzioni “dogmatiche”?  In nessun modo e lo sanno tutti.  Tant’è vero che lo stesso P. Cavalcoli dice che l’assenza evidente di definizioni dogmatiche non può essere usata come “pretesto” per negare l’infallibilità del Concilio!

3.  Un concetto assurdo:  la dogmaticità surrettizia o implicita del Vaticano II.  Le affermazioni del P. Cavalcoli possono avere questo solo significato: nel caso del Vaticano II ci troveremmo di fronte ad un insegnamento dogmatico di tipo del tutto nuovo, perché impartito in modo surrettizioimplicito, senza le dovute forme richieste dalla plurisecolare Tradizione della Chiesa, indispensabili per far apparire in modo chiaro ed evidente la volontà di definire una verità di fede come dogma!  Credo che il P. Cavalcoli non si renda conto dell’enormità delle sue affermazioni, che, a mio modesto avviso, lo situano al di fuori della Tradizione della Chiesa ed fors’anche contro di essa.  Infatti, si può ammettere che un Concilio ecumenico coerente con la tradizione della Chiesa – e che, per di più, afferma di insegnare “cose nuove”(nova, dichiarazione Dignitatis humanae 1) naturalmente “in costante armonia con quelle già possedute” – possa aver modificato radicalmente (e senza dirlo) il modo plurisecolare di intendere il concetto stesso di insegnamento dogmatico? No, evidentemente.  Come si fa, allora, a sostenere che, con il Vaticano II, la Chiesa ci avrebbe insegnato veri e propri nuovi dogmi però nella forma dimessa di insegnamenti solo pastorali?  Quando mai in passato la Chiesa ha presentato in veste pastorale le pronuncie dogmatiche del suo Magistero straordinario, come è quello di un Concilio ecumenico? E chi si ostina a far valere come dogmi insegnamenti che tali non sono e non possono essere, è sicuro di fare il bene delle anime?

Ma il P. Cavalcoli come cerca di dimostrare la supposta infallibilità del Vaticano II?  In questo modo, postillando l’ipse dixit di Mons. Müller:  “[I “Lefevriani”] devono accettare le “dottrine” del Concilio, dottrine che, dato che suscitano la questione dell’eresia, devono essere dottrine di fede, anche se non si tratta di fede esplicitamente e solennemente definita” (ivi).  Questa complicata frase non fa affatto capire il vero significato dell’insegnamento di un Concilio ecumenico.  Esso è esercizio del magistero straordinario della Chiesa, unitamente alla definizione dogmatica. Straordinario, perché del Papa con tutti i vescovi in Concilio, cosa che non accade tutti i giorni. Non gli si può perciò applicare la nota dell’infallibilità del magistero ordinario, come sembra far qui il P. Cavalcoli.  Infatti, il magistero ordinario è notoriamente quello del Papa e di tutti i vescovi dispersi sulla terra, i quali, nonostante la dispersione geografica ed il trascorrere del tempo, hanno insegnato sempre e ovunque le medesime verità di fede (per esempio: l’indissolubilità del matrimonio e il suo carattere monogamico; il dogma della Santissima Trinità; la nullità intrinseca e a tutti gli effetti dell’ordinazione sacerdotale di una donna; la validità del battesimo impartito dagli eretici, se fatto secondo le forme prescritte, battesimo che non incorpora l’acattolico battezzato nella Chiesa ma lo ordina ad essa in voto).  L’infallibilità di un magistero straordinario deve, invece, risultare in maniera espressa nelle forme dovute (vedisupranell’occasione stessa nella quale si manifesta, ossia nei deliberati di un Concilio ecumenico  quando definiscono un dogma o anche nel decreto del Sommo Pontefice da solo, quando a sua volta definisce un dogma, come nel caso del Beato Pio IX e di Pio XII allorché proclamarono i due noti dogmi mariani.  Perciò, se manca la definizione “esplicita e solenne” di una verità di fede come dogma, l’insegnamento del magistero straordinario del Concilio ecumenico non può ritenersi dogmatico, se non, come è stato ripetuto ormai tante volte, là ove riproponga insegnamenti dogmaticiprecedenti, appartengano essi al magistero straordinario od ordinario della Chiesa.

4.  Le “parti discutibili” del Vaticano II si riscontrano nelle dottrine, oltre che nella pastorale.  Dopo aver chiarito che, secondo le categorie teologico-canonistiche accettate e consolidate, l’insegnamento del Vaticano II non può in alcun modo considerarsi dogmatico e quindi infallibile, vengo ad un’altra tesi di P. Cavalcoli, ugualmente inaccettabile.  Egli afferma:  “Se nelle trattative della S. Sede con la Fraternità S. Pio X la stessa S. Sede ha ammesso che vi siano parti discutibili del Concilio, ciò evidentemente non va riferito alle dottrine, ma a quella parte della pastorale, la quale non essendo garantita dall’infallibilità, può certo contenere cose meno prudenti o che un domani potranno essere cambiate o addirittura  abolite” (p. 2 del suo intervento).

Non vi sono dunque “parti discutibili” nella “dottrina” insegnata dal Concilio?  Che dire di tutte le numerose e approfondite critiche a certe nuove dottrine presenti nei suoi testi?  L’elenco completo sarebbe abbastanza nutrito.  Mi limito a ricordare:  [I].  La famosa definizione della Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa Cattolica, unitamente ad “elementi di santificazione e verità” che, pur trovandosi “al di fuori dell’organismo” della Chiesa Cattolica, appartengono “per dono di Dio alla Chiesa di Cristo” (Lumen Gentium 8.2, da leggersi congiuntamente con l’art. 3 del decreto Unitatis redintegratio sull’ecumenismo, ove l’inclusione degli Acattolici (tutti eretici e scismatici) nella Chiesa di Cristo è ancora più evidente);  [II].  gli artt. 8-10 della Dei Verbum, nei quali (come ha messo ripetutamente in rilievo Mons. Gherardini) si professa un concetto di Tradizione che non dà il necessario rilievo al significato dogmatico della Tradizione stessa mentre si afferma addirittura che:  “la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio (DV 8.2)”, come se questa “pienezza” la Chiesa non la possedesse ancora, dopo venti secoli; come se il Deposito della Fede non si fosse compiuto con la morte dell’ultimo Apostolo, giusta l’insegnamento perenne del Magistero;  [III].  L’art. 11 della Dei Verbum, uno tra i più contestati dell’intero Concilio, il quale sembra voler ridurre l’inerranza biblica alla sola “verità salvifica”;  [IV].  L’art. 22 della Gaudium et spes, dedicato a “Cristo l’uomo nuovo”, nel quale si giustifica l’attribuzione all’uomo di una dignità sublime in questi termini:  “Infatti, con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo (GS 22.2)”.  È o non è, anche quest’ultima, un’affermazione del tutto nuova, che getta nella confusione il dogma dell’Incarnazione, divinizzando l’uomo ed aprendo verosimilmente la strada all’errore dei “Cristiani anonimi” e della conseguente salvezza “garantita a priori a tutti” o Allerlösung? [V].  E devo rammentare in dettaglio le critiche riversatesi sulla nuova dottrina della collegialità di Lumen Gentium 22, che sembra aver istituito addirittura due titolari della suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa:  il Papa da solo (come da Tradizione) e il Collegio dei vescovi con il Papa suo capo?  Non il Papa da solo e il Papa in collegio con i vescovi:  il Papa da solo ed il Collegio con il Papa; il Collegio come soggetto giuridico, anche se, quanto all’esercizio di siffatta potestà, occorre sempre ai membri del Collegio l’autorizzazione del Papa loro capo (prerogativa pontificia che attenua ma non elimina la rivoluzionaria novità introdotta).

5. Anche  S.S. Benedetto XVI ha criticato dottrine del Concilio, dobbiamo forse ritenerlo per ciò stesso un eretico? Quando il Romano Pontefice ha dichiarato, poco tempo fa, che la dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle religioni non cristiane è manchevole perché ha ignorato le forme “malate e disturbate di religione” presenti nelle religioni non cristiane, non è forse questa una critica che concerne la “dottrina” proposta nella Nostra Aetate, accusata implicitamente dal Papa di averci dato un’immagine edulcorata e quindi falsa di quelle religioni?  E quando egli ha detto che la Gaudium et spes, per carenze dei suoi principali propugnatori (vescovi e teologi francesi), è mancata nel darci una definizione soddisfacente di modernità, ciò non significa forse che è mancata proprio nel suo concetto informatore e quindi nella sua dottrina?

Faccio poi presente al P. Cavalcoli che una critica dottrinale implicita al Concilio, Benedetto XVI l’ha espressa proprio in relazione all’art. 22 della Gaudium et spes, appena richiamato.  Nel Compendio del CCC fatto pubblicare nel 2005 lanuova e singolare dottrina sull’Incarnazione in esso contenuta risulta tacitamente abrogata, sostituita dal chiaro e limpido dettato del Magistero di sempre sull’Incarnazione:  si vedano i nn. 85-89 del Compendio, che nel n. 88 riporta il passo del Concilio di Calcedonia (AD 451) che definisce infallibilmente i concetti di “vero Dio e vero uomo”.  Il Romano Pontefice non ha utilizzato qui la Tradizione della Chiesa, quale corpo consolidato di dottrine infallibili, per sbarazzarsi di un’ ambigua dottrina penetrata nel Vaticano II?  Ed i “tradizionalisti”, che criticano le nuove ed ambiguedottrine individuabili nei testi del Concilio, non si servono in modo simile della Tradizione?  Essi non si ergono affatto “a giudici del Magistero, in nome di un loro arbitrario immediato contatto con la Tradizione”, come erroneamente sostiene il P. Cavalcoli nel suo particolare modo di esprimersi (p. 1, op. cit.).   Fanno quello che fa il Papa, quando critica certe “nuove” dottrine del pastorale Vaticano II o quando ripropone una dottrina tradizionale, come quella definita dogmaticamente a Calcedonia, al posto dell’ambigua “nuova”, sulla stessa verità di fede .   Un lavoro di “restaurazione” che, a Dio piacendo, è solo all’inizio.

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