ATTUALITÀ DI MARGHERITA SARFATTI – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

 

Se ciò che non perisce e conserva validità resta attuale, una particolare attualità spetta alle opere che, risalendo il corso del tempo, troviamo immediatamente notevoli, dopo un periodo di loro complessiva insulsaggine e bruttezza giunta sino a noi. Mi riferisco segnatamente all’architettura.

Margherita Sarfatti, molto colta nel campo umanistico, giornalista di vaglia, scrittrice, critica d’arte, fu una colonna del Novecento italiano: movimento culturale che fissò i canoni, gli indirizzi di un nuovo stile conforme allo spirito dell’epoca e alle migliori tradizioni. Nella pittura e nella scultura, esso diede un comune denominatore a diverse personalità artistiche; nell’architettura, pur nelle diverse influenze di tipo regionale, il Novecento attualizzò la nostra classicità nel nostro clima civile; fu inconfondibile situandosi degnamente e con supremazia rispetto al precedente liberty e al successivo non-stile architettonico, invalso salvo poche eccezioni. Ma anche per le altre arti figurative dello stesso ultimo periodo, il valore va ricercato piuttosto in qualche artefice, piuttosto che in scuole o mode: tutte destituite di elevatezza atta a produrre catarsi, incapaci di suscitare dalla vita le bellezze eterne, per analogie o per contrasti, inette ad elevare questa vita.

Grazie al Novecento italiano si trascese il razionalismo internazionale, il cui stesso nome ne denuncia l’aridità – per quanto, alcuni architetti stranieri seppero in qualche modo nobilitarlo; grazie ad esso avemmo pittori e scultori originali e potenti: superato il futurismo con altre forme che guardarono agli antichi fasti, a partire dall’antichità etrusca e, attraverso quella classica, fino ai secoli aurei del Trecento, del Rinascimento.

La nostra autrice di Storia della pittura moderna (1930) indica i principi informatori della promossa creazione: “Noi, critici e artisti novatori, o incoraggiatori dei novatori e rivoluzionari del Novecento, primi e per molto tempo soli, abbiamo riconosciuto e predicato la bellezza, la bontà e l’eroismo dell’arte rivoluzionaria dell’Ottocento (…) oggi, si butta l’Ottocento trai piedi dei novatori del Novecento, per imbarazzar loro la strada, per creare attorno a loro la stessa atmosfera di diffidenza, di incomprensione, di odio e di indifferenza …”

“Al Novecento l’austera volontà di grandezza, l’imaginazione vigorosa, e la ferrea laboriosità della ricostruzione eroica (…) senza rinunciare, o cercando di rinunciare il meno possibile alla acuità e ingenuità estrema del mondo di vibrazioni nuove, così duttili, così intense, scoperte dall’impressionismo…”

“Il Novecento dovrebbe prendere coraggiosamente, generosamente partito, e consentire quelle mutilazioni, quelle unilateralità e quei sacrifici, senza i quali non è dato toccare le cime della grandezza (…) I modernissimi stentano a rinunciare alle gloriose scoperte e conquiste impressioniste, pur volendo attuare e restaurare di nuovo, in modo assoluto, i valori della composizione”.

Ella riferisce i consigli di prudenza dei critici: “Dica la pittura italiana modeste parole e frasi semplici, se non sa, se non può consegnare il grande periodo e la pagina storica. Ardengo Soffici, stando a capo dei fiorentini, e in modo diverso, Oppo, Bartoli (…) ed altri del gruppo romano, mostrano di pensare così”.

“‘Quattrocento’ e ‘Cinquecento’ designano periodi dell’egemonia italiana nel mondo del pensiero. Disse allora qualcuno, a questo proposito, a Milano, nel 1920, in quel crocchio di amici: ‘Il nostro secolo sento che vedrà ancora il primato della pittura italiana. Sento che ancora si dirà nel mondo e nel tempo: Novecento italiano’.

“Era un atto di orgoglio. Certo, era un atto di fede in quei primi anni grigi e bui del dopoguerra (…) Così sorse in Milano il gruppo del Novecento Italiano, con quel nome come parola d’ordine (…) In realtà, quegli artisti volevano soltanto proclamarsi italiani, tradizionalisti, moderni. Affermavano fieramente di voler fermare nel tempo qualche aspetto nuovo della tradizione.

“La prima ‘Esposizione del Novecento Italiano’ inaugurata il 1926 in Milano con un memorabile discorso agli artisti di Benito Mussolini, segna una data e una tappa decisiva di questa rinascita. Già quel primo aggruppamento coerente, logico, disinteressato, severo e non settario di avanguardisti, d’ogni genere e d’ogni regione d’Italia, dimostrò la possibilità di giungere a una pratica concretezza d’ordine artistico…”

Quindi, passa a elencare nomi già affermati come quelli di Arturo Tosi, di Mario Sironi, Achille Funi, e le promesse.

“Ora, si torna a riconoscere ‘l’idea di bellezza’ come tema degnissimo dell’arte. Si torna ad aspirarvi. Di ciò, le opere dei nostri migliori pittori e scultori danno chiaro segno. Deità lungamente profughe, le idee generali, le idee maestre ritornano, tenendosi per mano, al dominio delle arti plastiche. Era naturale, che il concetto e l’aspirazione alla idea di bellezza, dovesse venire con loro in corteo”.

“Intorno a questi movimenti di idee, destinati a divenir fatti, a vincere e dar fecondo frutto di sé nell’azione, aleggia una speciale aura – quasi un alone – di volontà risoluta ed entusiastica (…) Moda? No, ma proselitismo fatale delle verità, mature e convenevoli al tempo in cui sorgono e che esse, antecipandolo, contribuiscono a preparare (…) Artisti provetti, taluni già innanzi negli anni (…) sentirono la necessità di rinnovarsi. E se per qualcuno fu esteriore mutamento di veste, per molti si trattò di sincero rinnovamento interiore, negli spiriti e nelle forme; e condusse a risultati spesso interessanti e, comunque, notevoli.

“Sopra tutto, l’opera dei giovani di qualche valore dimostra per unanime modo quanto sia ricca e feconda la strada della moderna classicità, per la quale con mirabile fervore e costantissimo impegno, si è avviata la nuova arte d’Italia”.

“Precisione nel segno, decisione nel colore; risolutezza nella forma; sentimento profondo e sobrio, scavato e scarnito attraverso la meditazione, l’eliminazione e lo studio; aspirazione verso il concreto, il semplice e il definitivo; ecco i tratti comuni – l’aria di famiglia – di questa generazione di artisti che aspira a dare un volto e un’impronta – cioè un ideale collettivo al quale convergere – cioè una linea e uno stile – all’arte, alla vita, ai bisogni morali, estetici e sentimentali del nostro tempo”.

Il prodigarsi della Sarfatti per questa causa ebbe inizio nel 1922, allorché patrocinò la prima riunione di pittori presso la milanese Galleria Pesaro, dove, l’anno successivo si tenne la prima mostra. Nel 1924, se ne tenne una seconda, meglio caratterizzata, alla Biennale di Venezia. Il gruppo venne poi rifondato, sotto la direzione della patrocinatrice, come Comitato direttivo del N. I. riscuotendo parecchie adesioni, inclusa quella dello scultore Adolfo Wild. Alla Permanente di Milano, nel 1926, ci fu la prima mostra annuale del movimento, cui seguirono molte altre rassegne in Italia e all’estero.

duxLa Sarfatti va ricordata per la sua militanza politica. Nata a Venezia nel 1880 da ricca famiglia israelita, convertita al cattolicesimo, per sentimenti di giustizia e di carità si arruolò nelle fila del socialismo, contro il volere dei suoi, sposò il socialista ebreo Cesare Sarfatti. Fu redattrice dell’Avanti! Sincera interventista, seguì Mussolini al Popolo d’Italia. Scrisse la famosa biografia The life of Benito Mussolini (1925), apparsa in una prima edizione inglese, pubblicata in patria col titolo Dux, tradotta in 18 lingue.

“Tutto fa male, alle creature troppo superiori al proprio ambiente, come era la signora Rosa. Fasci di nervi martoriati, forma piaga nel loro cuore ciò di cui gli altri si liberano con una facezia e una risata. Una corazza di apparente stoicismo li difende, non dalle ferite, solo dalla compassione altrui; e non la scambierebbero con la felicità degli esseri senza pudore spirituale. Al suo adorato primogenito, Benito, trasmise con orgoglio la parte migliore di sé”.

Intanto Margherita Grassini Sarfatti ha perduto il primo figlio diciottenne, volontario al fronte, caduto eroicamente nel 1918, fregiato di medaglia d‘oro; nel 1924, è rimasta vedova. Dal 1922 dirige la rivista Gerarchia, fondata dal Capo del fascismo.

Del 1929 è il suo romanzo Il Palazzone. Vi fissa i suoi sentimenti di donna e di cittadina formando una possibilità parzialmente da lei vissuta, una vicenda di possibile attuazione. L’amore della coppia viene espresso nelle sue condizioni più propizie: onestà, educazione, salute, affinità, agi. Presto, gli urti delle due nature, cui non sono estranee un’incompresa irrazionalità femminile e un’istintiva, egoista possessività maschile. Poi, nei due giovani ben nati, anche attraverso le prove degli accidenti esterni (un famigliare drammaticamente intromessosi e la guerra mondiale sopraggiunta), viene la maturazione e la felicità; però stroncata dalla morte in battaglia dello sposo, immolato dal suo slancio, mosso da onore nativo, gloriosamente generoso. Sarà a suo tempo il cognato a rendere felice la ragazza, una volta che, di nuovo drammaticamente, si sarà dissolta la gelosia, l’eccessivo attaccamento del figlioletto alla madre.

Qua e là, nello scritto compaiono ricercatezze di espressione o soverchia ricchezza nel descrivere le menti e gli stati d’animo, e un’aura di sensualità sorvegliata, immersa nel purificante trasporto amoroso. Nel complesso, il campione della nobiltà di provincia cui appartengono i due fratelli giunge edificante, e la buona borghesia, di cui è figlia la giovinetta a loro successivamente legata e maritata, non sfigura oltre misura.

“Con il sentimento di vivere in sogno, una visione appariva ella stessa: incoronata da quell’alone splendente e umile, altero e pieno di grazia che è il diadema della perfetta felicità giovanile. Alla giovinezza ignara del male, non decaduta da quell’antica divina vocazione alla felicità, felicità e trionfo giungono naturali come ai polmoni l’aria. Solo in quell’atmosfera la giovinezza respira, e non può esistere senza di essa, seppur di rado respiri appieno. Negli anni che dovevan seguire, attraverso più umane gioie, più dense e accese, sempre la donna ricordò il giorno di felicità, insapore per serafico modo, come elemento senza misture…”

Segue il viaggio negli Stati Uniti: conferenze, interviste, conoscenze, visita del paese in lungo e in largo. L’America, ricerca della felicità (1937) accenna la sua infatuazione per l’ottimismo americano, nonostante le illusioni e le smentite ad esso attinenti; infatuazione per un entusiasmo vitale, che ha qualcosa a che vedere con la sua indulgenza verso certe eresie nordamericane e il modernismo teologico, considerato, quest’ultimo più tardi, in Acqua passata (1955), e verso l‘affascinante e gentile Casanova (Casanova contro Don Giovanni, 1950), avendo, per il resto, lo scrupolo d’essere obiettiva. Ella non si rese conto, o non volle credere, che spesso il bell’ottimismo, alla stregua del pessimismo, travisa la realtà per un difetto morale.

Ella contemplò la maestosa compagine dei grattacieli, pari, col loro eccelso profilo, alle grandezze dei paesaggi naturali americani. Ammirò la giovinezza di quel popolo, la sua industriosità, la sua fede in sé e nel progresso; tuttavia ricordando le moltitudini dei disoccupati, dei licenziati, di quelli che vivevano con i sussidi; mentre i magnati, i finanzieri, forti di certe libertà intangibili, non derogavano dalle ignobili leggi del profitto. Riconobbe anche che la storia della maggior potenza economica e militare, a lungo imperialista più di quanto ancora non apparisse, costellata di crimini interni ed esterni, dallo sterminio dei pellerossa alle spogliazioni delle colonie inflitta alla Spagna, alla fomentazione di rivolgimenti e rivoluzioni nei paesi del Sud, e storia di proprie cattive traversie sociali, di corruzione delle polizie, colluse con il gangsterismo. Riconobbe che se l’americano “non vede tutto fine, qualcosa in lui crolla; è l’esaurimento, la nevrastenia e il suicidio”. “Proprio perché ormai la frontiera è morta, la crisi ha provocato una ‘depressione’ e delle ripercussioni tanto più gravi che non le crisi del passato. Il frontierismo era l’evasione…”

“L’ideale degli Stati Uniti ha deviato, se si vuole, verso il tipo del business man, ma fondamentalmente rimane ancora quello antico del gentleman britannico”.

Ma “lo straniero stupisce della ferocia impulsiva, al tempo stesso che metodica e meticolosa, con la quale si applica questa tradizione di brutalità e immoralità, anche oggi, anche nella vita spicciola quotidiana del business”. “Con tanta aria di libertà e democrazia in giro, non vi è in America reazione di opinione pubblica, né pubblica o privata difesa, o tutela di legge, regolamento, organizzazione, costume (…) contro questa brutalità spoglia di scrupoli e persino di ipocrisie (…) Si biasima, come enorme violazione della libertà individuale, la campagna del presidente Roosevelt per il riconoscimento delle organizzazioni di operai e salariati, che vorrebbero limitare questo sommo diritto e somma ingiustizia”.

“‘Far denaro’ si considera virtù sociale e patriottica. Il culto del vitello d’oro, grossolano e materiale, si camuffa con un sofisma ben più sottile, che lusinga anche le anime bennate, e che bisogna chiamare: il misticismo del biglietto da mille”.

“Così si forma l’equivalenza ‘bene, uguale virtuoso, uguale ricco’, con la reciproca riversibile: ‘merito, uguale denaro, dunque denaro uguale merito’. Questa riversibilità ultra-conformista è feconda di energiche e pericolose idolatrie”.

Su questa base di false virtù e del sacro diritto alla ricerca della felicità, comperata, si comprende il germe della decadenza dilagata attualmente.

“Wilson per via della guerra; Franklin Roosevelt per via della crisi, accrebbero con l’autorità della loro persona i poteri dittatoriali della carica. Oggi più che mai il processo continua, con le severe misure di polizia e legge criminale unitaria (…) E si estende al campo del denaro, tabù sin qui inviolabile della democrazia, della plutocrazia e dell’industria libera, attraverso il New-Deal di Roosevelt. L’economia programmata e accentrata della (…) National Recovery Act, potere nuovo, degno di molta meditazione, se non altro come esperimento, sembrò morto. Ma Roosevelt con dolce ostinazione, e le circostanze con ferrea tenacia, gli risusciteranno un altro volto”.

Egli, cercando rimedio alle ingiustizie sociali per il risanamento della società statunitense, aveva dovuto tentare una modifica della costituzione federale, cui si appellavano i padroni del vapore. Il tentativo fallì, quantunque si fossero fatti alcuni passi avanti, e sul presidente ricaddero accuse di mire dittatoriali.

“Roosevelt preconizzava (…) uno Stato forte e un’economia controllata, sul tipo del fascismo…”

“La più seria obiezione alla politica di Roosevelt è quella di aver messo il carro dell’economia dittatoriale davanti ai buoi della politica elezionista, che spingono in senso opposto. Mussolini ha favorito gli operai e i contadini con leggi sociali, corporazioni e tribunali del lavoro, ma prima, ne aveva spezzato il potere politico. Quando invece Roosevelt si trova a urtare gli interessi dei ricchi (….) i suoi collaboratori e lui, partono in guerra di vituperi contro la plutocrazia…”

In Acqua passata (scritto dopo il suo rientro in patria, essendo espatriata nel 1938, anno delle leggi razziali), si distende una galleria di grandi personaggi conosciuti per alcuni incontri o frequentati. Le sue indiscrezioni, talvolta sconcertanti, non riguardano il Presidente degli anni ’30 e ’40, che nel 1934 ella aveva ammirato di persona, per la preparazione culturale, per la conoscenza dei fatti politici e sociali internazionali, per l’affabilità e la forza d’animo. Sennonché deplora il successivo decadimento del suo spirito, delle sue doti di statista, e che egli avesse acceduto al terzo mandato elettorale, in deroga alla tradizione degli USA che ne prevedeva soltanto due consecutivi. Indirettamente, senza mai nominarlo, sembra alludere al Capo del fascismo, che non avrebbe saputo cedere il potere a tempo opportuno.

 

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