di Piero Nicola
Fu uno dei padri del cinema italiano, una cima in quello mondiale. Nato a Roma nel 1892, scomparve nel 1957.
Diede impulso alla nostra decima musa, ancora muta, come sceneggiatore e regista di una settantina di pellicole, risollevandone la decadenza che l’afflisse durante gli anni ’20. Giovane fermo, animato da passione disinteressata per unanime riconoscimento di amici e collaboratori, trasmetteva sicurezza e fervore con l’autorevolezza della signorilità; per quanto, dicendo che il regista, “personaggio tragico”, “diventa comico quando si arrabbia”, affermi di non essere “meglio degli altri, sebbene con gli anni mi sia un po’ calmato”. Il suo “sincero spirito di italianità” lo rimemora Blasetti, avendo avuto con lui un sodalizio culturale e di artefici. Tra i suoi vari lavori memorabili del muto troviamo Addio giovinezza (1927), che F.M. Poggioli rifece nel 1940 magistralmente e con sicura vena sentimentale.
“L’astro maggiore del tempo – astro nascente all’orizzonte ancora crepuscolare dell’arte nuovissima – era Augusto Genina, romano, allora giovane di venticinque anni e che alla cinematografia era stato chiamato da irresistibile vocazione. Era alle sue prime prove e tuttavia già si affermava con mano maestra in un suo particolare modo di rappresentazione cinematografica di più largo respiro e d’infallibile gusto”. Così Lucio d’Ambra in Sette anni di cinema sulla rivista Cinema nel 1937, a proposito di La signorina Ciclone (1916), commedia ammirata all’estero per le sue innovazioni.
Lavorò in Francia e in Germania, prima di ritornare nei nostri stabilimenti e teatri di posa. Del 1930 è sua Miss Europa – Prix de beauté, una delle prime prove del sonoro, che precedette il parlato. Fu un’altra dimostrazione di stile, di vivacità narrativa, di viva drammaticità, spogliata del tono melodrammatico e patetico. Sull’amore pressoché vicendevole di una giovane coppia monta l’ambizione, la rassicurazione del successo e, sull’innamorato, soffocante e perduto dalle ristrettezze, prevale la follia che ne arma la mano omicida.
L’anno successivo è la volta di Paris-Beguin, film sulla malavita parigina, che lanciò i forti attori Jean Gabin e Fernandel.
Fra le messe in scena germaniche di Genina, universalmente apprezzate, spicca il suo impegno nel dirigere il celebre Beniamino Gigli in Non ti scordar di me (1935); anche questo riedito a colori da una produzione italo-tedesca del 1957, protagonista Ferruccio Tagliavini, tenore-attore che, al pari di Gigli, godette di un pubblico affezionato.
Dal 1936 Genina si dedica a soggetti e intraprese nazionali. Comincia con Lo squadrone bianco, girato ampiamente in Libia, premiato a Venezia con la Coppa Mussolini. Un giovane snervato da un amore fallito, si arruola con destinazione un fortino in un’oasi del deserto. La disciplina e l’esempio del comandante ottengono il suo raddrizzamento. Egli si tempra nel carattere e si sviluppa nello spirito durante le dure spedizioni contro i ribelli. Si immedesimerà nella missione come un apostolo, sostituendo il comandante caduto in combattimento, rinunciando alla donna che amò, ritornata a lui ravveduta, partecipe d’una visita alla guarnigione organizzata per i turisti.
Seguono altri film di argomento bellico e politico. L’assedio dell’Alcazar narra l’eroica e nobile difesa dai nazionalisti nel palazzo-fortezza di Toledo, circondato dai repubblicani, e dove si sono rifugiati molti civili, molte intere famiglie. Il rifiuto del colonnello Moscardò di accettare la resa in cambio della salvezza del figlio adolescente, caduto nelle mani dei miliziani; il sentimento nato tra un ufficiale dell’accademia e una giovane viziata, ma presto ravveduta; il matrimonio celebrato in articulo mortis tra la buona mica di lei e un altro ufficiale ferito; l’assoluzione impartita alla massa dei fedeli in pericolo di soccombere sotto il cannoneggiamento, e altri episodi drammatici, vengono raccontati con assoluta naturalezza, sì che anche i detrattori riconobbero tacitamente il valore del film.
Nel 1942 Bengasi tratta dell’avanzata inglese che conquista la città, e del ritorno delle truppe italiane. Di nuovo, il lavoro (intessuto di casi umani più ancora che guerreschi, legati alla resistenza opposta agli occupanti) esce degno dei riconoscimenti ricevuti all’epoca, e posteriori.
Passato sullo Stivale il rullo compressore delle armate alleate, e sfogato lo scatenamento degli odi fratricidi, bisogna aspettare il 1949 perché il grande regista ricompaia all’opera con Cielo sulla palude.
“Realizzare un film religioso, o di ispirazione religiosa, o con un fondo religioso, è un’impresa estremamente difficile (…)
“Quando il signor Bossoli, uomo tenace, ritornò a trovarmi per propormi una seconda volta di dirigere il film” Genina registra nelle sue memorie, “mi pregò di leggere, prima di dargli una risposta definitiva, il testo del processo di beatificazione di Maria Goretti. Egli ebbe ragione di suggerirmi quella lettura, perché fu precisamente in quelle pagine che io trovai la soluzione del problema (…) Nel processo di beatificazione di Maria Goretti io intravidi (…) questa possibilità: partire dalla terra ed innalzarsi fino al cielo. Programma molto ambizioso, come si vede, seminato di insidie e di pericoli. Ma, in caso di riuscita, che basi solide per conseguire il successo!
“Ecco perché i premi ricevuti a Venezia mi riempiono di una grande gioia, perché mi dissero che avevo raggiunto lo scopo che mi ero proposto: fare della vita di Maria Goretti un film interessante, commovente, suscettibile di piacere a tutti i pubblici; un film che, attraverso un’azione vera, veridicamente riprodotta, potesse mostrare a nudo il volto di questa martire…”
L’approvazione della Chiesa dovette giocare un ruolo decisivo nel determinare la critica a decisioni favorevoli e nel sopire i risentimenti verso la trascorsa adesione al regime. Ma per le tre pellicole da lui girate in seguito, le recensioni giunsero non solo esigenti, furono ingiuste, nell’ansia che sul nome di Genina calasse il silenzio.
Tralasciando L’edera (1950) e Tre storie proibite (1953), che pure non sono disprezzabili, veniamo al successivo Maddalena (1953) con cui egli riprese il tema religioso. Una povera giovane prostituta mantiene una bimba in collegio. Essa è la ragione della sua vita, non tende a nessun altro affetto. La bimba muore in un incidente durante una funzione in onore della Madonna, e da allora la madre la ritiene responsabile della tragedia. Le manovre d’un sindaco di paese e della tenutaria della casa chiusa, fanno sì che ella accetti di impersonare la Vergine nella rappresentazione sacra che si tiene al villaggio, dove viene presentata sotto le mentite spoglie di un’educanda. In lei cova un proposito di vendetta sacrilega, ma, all’ultimo momento confessa al parroco la sua intenzione colpevole e vorrebbe andarsene. Sembra tardi per la rinuncia: la gente l’ha conosciuta, le ha attribuito una guarigione miracolosa, inoltre la sua presenza ha sciolto le rivalità delle comari che gareggiavano per candidare le loro figlie al sacro ruolo. Del resto Maddalena è stata assolta al sacramento della penitenza. Ma durante la processione, il sindaco, che avrebbe voluto farla sua, persino sposandola, si vendica del rifiuto e la denuncia come meretrice. La folla, aizzata da un padre ringhioso, prende a lapidarla, quasi per un moto inconsulto. Il giovanotto innamorato di lei, un altro pretendente che ella con saggezza ha dissuaso, non riesce a salvarla, ed ella spira martirizzata davanti all’edicola con l’immagine della Santa Madre, posta sul cammino. Nella generale contrizione, il pretone, giunto in ritardo, la solleva sulle braccia e la porta alla canonica.
Siamo all’ultima fatica dal titolo leggero, volutamente lieve: Frou Frou (1955); mentre la storia della protagonista, trattata con invariabile eleganza, diviene via via più greve e drammatica, come accade alle vite semplici e gaie, quando non sanno evitare le situazioni apparentemente innocue, e tuttavia disdicevoli per il buon senso comune.
Dicevo la lievità, il tocco squisitamente oggettivo, per cui il significato da trarre sta a noi, soltanto in noi, e tuttavia la probità vi ci costringe.
C’è però dell’altro e del nuovo, c’è una sfida ironica, abbinata da Genina al suo onesto prodotto. Egli adotta i mezzi del mestiere americano per rifinirlo.
La critica che va per la maggiore, oggi stesso, messa alle strette, deve convenire che l’apice dell’arte della celluloide, la sua età dell’oro, si situa all’incirca nel decennio che inizia con la metà del secolo scorso; anche se alcuni registi – come Hitchock e Bergman – forgiarono poi ancora cose di fattura pregevole e, riguardo al prima, si insiste sul neorealismo e su qualche lavoro anteguerra. Beninteso, gli infatuati del progresso ci ammasseranno davanti nomi e produzioni d’epoche recenti, ma dovranno sempre fare i conti con quel periodo fortunato, che gravitava su Hollywood e, mentre riempiva i cinematografi, scampava dall’eccessiva e smaccata corruzione.
Genina sembrò lanciare la sfida alle apparenze di quell’oro, con grande garbo e sottile ironia. Fece un filmone franco-italiano, con attori di grido, scene doviziose, e che avrebbe potuto riuscire una sorta di romanzo d’appendice. Non che al suo confronto i ben torniti e ben calibrati cavalli di battaglia d’oltreoceano risultassero pacchiani. Le americanate erano scomparse da un pezzo, soprattutto nelle mani di esperti in materia venuti dall’Europa. Però l’interno veniva scoperto agli occhi puliti che ancora non l’avessero intravisto, e non tanto quello del lieto fine, ma quello di certi principi, vuoi puritani, vuoi liberali, ossia quanto l’arte non riusciva a depurare e a mascherare del costume mercantile, borghese o del Far-West. Genina finge di misurarsi con l’intelligenza hollywoodiana, in realtà la denuda, un po’ come ardì fare Claude Leluoch, che ha percorso incompreso l’ultimo cinquantennio, maltrattato dagli invidiosi, dagli usurpatori di podi, cattedre e pagine elette. In Fou Frou spira aria di parodia verso i colossi minati nell’ossa dal diritto alla felicità, dalla sovranità dell’amore purché corrisposto, logorati nei tendini dal diritto di poter volere, guasti nel sangue dall’assoluta possibilità per i buoni e i giusti – o presunti tali – di aver la meglio sull’alea misteriosa, invece determinata dalla Provvidenza disconosciuta, falsati nell’anima da un’irreale uguaglianza delle indoli e delle coscienze.
La vicenda? Un gruppo di nobili e ricconi adotta per simpatia una fioraia graziosa e incantevole per il suo candore. Alla primitiva concordia succede la disparità di vedute tra i soci, e qualche buon padrino manifesta la sua velleità idealistica, diventando un cascamorto. Dall’istruzione dell’educanda, si passa al lancio della sua bella voce sul palcoscenico. Inevitabilmente Frou Frou s’innamora nell’ambiente che le è toccato, cioè d’un gentile mascalzone. Ormai la china è presa. Frou Frou sacrifica l’amore tra lei e un giovane pittore scegliendo la sistemazione matrimoniale; che sfuma a causa del suicidio dell’artista mediocre e spezzato dalla delusione. Nessuna scusa, però: ella si assumerà la colpa. Soltanto lotta perché la sua figliola illegittima, che ha allevato da sola con molte rinunce, non cada in errori simili ai suoi. Ma la ragazza ha poca stima della madre, e sta per lanciarsi in un’onesta avventura, sta per raggiungere oltremare il suo amato, un emigrante di belle speranze, per giunta conosciuto da poco tempo. Il sipario cala sulla partenza contrastata e le usuali raccomandazioni d’esile speranza. Il succo è quello di sempre: la bontà, il buon carattere non basta, resta debole e, senza Dio, pecca di presunzione.