di Piero Nicola
Barna Occhini (1905 – 1978) fu giornalista, scrittore e storico dell’arte. Divenne caporedattore de Il Frontespizio, quindi la sua opera principale consistette nei tomi de L’arte classica e italiana: Dalle origini a tutto il Trecento Vol. I, 1940 – Il Quattrocento Vol. II, 1942 – Dal Cinquecento al Novecento Vol. III, 1947, che ebbero varie ristampe per oltre un decennio dopo la loro prima edizione. Egli vi mise in luce le successive epoche del nuovo classicismo che esprimeva, mediante i nostri artisti sommi o meno grandi, lo spirito del nostro insuperabile deposito civile e spirituale.
Barna Occhini non negò la validità delle esperienze diverse e d’importazione, che vanno dal gotico all’astrattismo, giunse anzi a ritenerle utili per l’efficace rientro di pittori e scultori nel neo-classicismo d’ogni tempo, ma, mentre valutava le migliori creazioni negli stili stranieri, ne contestava il valore ideale: espressioni di mondi, di modi di vita e pensieri errati, decadenti, decisamente inferiori alla formula Grecia+Roma+Chiesa.
Nel 1971 l’editore Volpe pubblicò il suo Italia e Civiltà, restituendo al pubblico l’imperitura trattazione politica risultante da articoli stampati a Firenze sulla omonima rivista settimanale, che uscì l’8 gennaio 1944 e terminò con l’ultimo numero del 17 giugno, quando la città stava per essere presa dagli Alleati. L’antologia riporta gran parte delle pubblicazioni e ha un indubbio carattere storico riguardo a ciò che fu il fascismo sino alla sua caduta del 25 luglio 1943, e al secondo fascismo repubblicano.
La schietta critica costruttiva, talvolta persino eccedente, nel suo intento di stimolo a non ripetere gli errori del Ventennio e a dare una prova esemplare nei frangenti dell’ora tragica, guadagna il riconoscimento del documento storico, pur trascurando così le proficue realizzazioni compiute, per lo più considerate sottintese, e puntando a un regime ideale conforme a un’ardua dottrina.
Ora, interessa specialmente la visione delle alternative soluzioni ideologiche e pratiche, che scaturisce dalla difesa di tale dottrina giudicata degna, salvifica, applicabile, e dai rilievi mossi alla prassi fascista, ritenuta viziata da errori sostanziali, dimostrati dallo sfacelo del 25 luglio 1943, quando i dirigenti si rivelarono vili, incapaci o traditori, e il popolo risultò privo delle virtù presunte e predicate, nonché alquanto ansioso di radicale cambiamento.
Potremmo individuare nella vicenda ventennale, inserita tra i sistemi partitici e parlamentari, gli elementi della tragedia shakespeariana. Il futuro dittatore, alla testa di un piccolo movimento rivoluzionario inteso a riportare l’ordine compromesso, perviene al governo, riscuote favore di popolo, ridà onore al sacrificio della recente guerra e orgoglio nazionale nondimeno per la vittoria. Quantunque presto tra i suoi e nella classe dirigente insediata si manifestino i sintomi di una certa corruzione, incompatibile con il ricupero della romanità e con i proclami d’esservi fedeli, i cittadini si sentono rappresentati dal duce e confidano nei suoi provvedimenti. Le varie imprese civili, le provvidenze sociali e la conquista dell’Impero hanno successo. Ma poi interviene il distacco tra la massa e il vertice, provocato dai poteri intermedi, impersonati da uomini cortigiani, imborghesiti, profittatori, retorici e, insomma, inferiori al compito e al magnanimo disinteresse necessario. Scema la diretta collaborazione del cittadino con lo stato, la sua responsabilizzazione. La rinuncia a una certa libertà non è compensata da una critica benefica che giunga al dittatore. Le categorie partecipano a metà alle decisioni. Il progetto corporativo ha avuto insufficiente realizzazione. La dichiarazione di guerra è bene accolta, ma le ragioni della guerra non sono di comprensione immediata ed efficace, non si è fatto sì che coinvolgessero fortemente gli animi. La propaganda nemica comincia a suscitare la mollezza, a far presa sui cattivi istinti. Quando giungono i rovesci militari, cui contribuiscono assai gli alti comandi felloni, anche gli uomini del partito, i governanti, accettano la sconfitta, contando di salvarsi come avevano contato di uscirne bene i congiurati che pugnalarono Cesare. E questo Cesare, che pure mancò, soprattutto per l’umana debolezza, della doverosa vigilanza, cade in disgrazia anche presso il re; è lasciato solo, senza più alcuno che lo sostenga.
Ho ricostruito la storia come si desume dagli scritti di Barna Occhini e dei collaboratori da lui chiamati a scrivere su Italia e Civiltà, fra i quali primeggia Ardengo Soffici. Ma, se gli accadimenti servono a inquadrare il discorso politico, questo va spogliato dal contingente per assurgere a lezione di ordinamento civile.
Nella prefazione l’autore chiarisce come il foglio di 4 pagine, in bella veste tipografica di buona carta, ospitasse firme di studiosi e di artisti che non partecipavano alla politica attiva e non erano vincolati al fascismo, pur aderendo alla Repubblica sociale, in quanto essa costituiva la sola opportunità per la propugnazione e l’instaurazione dello Stato in cui essi credevano, ed era l’unico baluardo per il nome di Italia da rimettere in onore. Si voleva introdotta nel regime la libertà conveniente e utile, anche sfidando i biasimi e le eventuali censure. Si mirava all’obiettività, alla moralizzazione delle gerarchie, indispensabile alla coerenza ideale e al riacquisto del credito. Solo più tardi, dice il prefatore, si ebbe a costatare che il profitti illeciti dei gerarchi erano stati gonfiati alquanto dalle dicerie, e la commissione istituita per giudicare quella disonestà trovò poca materia. Il malcostume della succeduta democrazia era stato molto più grande, “tale da riabilitare largamente il regime fascista”. Tuttavia, allora, lo scandalo era sussistito; andavano represse le sue ricomparse. E le inefficienze, il disfattismo, l’esterofilie più o meno sotterranee, che avevano condotto alla perdita dei valori manifestatasi con la caduta del sistema, ricadevano sulle spalle di Mussolini.
Il primo numero uscì aprendosi con un articolo di Giovanni Gentile, che il 15 aprile sarebbe stato ucciso in un agguato tesogli dai partigiani fiorentini. Il celebre filosofo proponeva la “questione morale”, da risolversi “affinché l’Italia ritrovi se stessa, la sua vita, la sua volontà, la sua anima”. “Questione d’onore”: fedeltà ai principi e alla parola data, dignità nella giustizia e nel rispetto della legge fatta rispettare sotto la sola bandiera accettabile, levata dal Capo dello Stato e del Governo, coscienza che la Patria, in ogni modo, non può morire.
Il Direttore vergò molti interventi.
Nei 45 giorni del governo di Badoglio, quelli della classe colta che determinano infine l’opinione pubblica, che erano stati scettici, anglofili, venuta la loro ora si riempirono la bocca di onestà, giustizia e libertà, e mostrarono come i loro ideali si traducessero in rinuncia e servilismo, complesso di inferiorità, ignobile passione dell’oro: che appartenga pure allo straniero, purché se ne possa approfittare. Denigrazione delle conquiste fatte, dopo aver previsto il naufragio dei nobili intenti, odio per il tedesco che resta in piedi anche senza ricchezza, ammirazione per la furbizia anglosassone, stima per la vile mediocrità, rigetto degli esempi migliori degli antichi italiani; tutto ciò era la premessa del nuovo da stabilire, ed altro non poteva essere che il vecchio parlamentarismo. “Per venti anni, pur tra colpe ed errori, abbiamo respirato con altri polmoni ben altra aria che quella di Giolitti o di Badoglio”.
Nella pratica non esiste forma di Stato migliore o ideale. La forma di regime è richiesta dal tipo di civiltà e d’indole di un popolo. Per ottenere il miglioramento occorre che il popolo acquisti una buona qualità. Prima del 25 luglio (caduta del regime), il fascismo aveva perso il vigore. Ma l’antifascismo venuto in auge ha dato una grama prova. L’8 settembre, dalla stessa parte, si è offerto lo spettacolo obbrobrioso d’una pace fatta di nascosto dall’alleato tedesco, conclusa dall’oggi al domani e schierandosi col nemico di ieri contro l’alleato di ieri.
Non sono tutti in mala fede gli intellettuali e gli artisti alieni dal tradizionalismo e che, quasi puristi dell’arte, si estraniano dalla vicenda nazionale. Ciò non toglie che siano affetti da uno spiritualismo esasperato, intenti a una specie di disciplina yoga. Tale pratica di distacco dal pensiero, dalla storia e dalla natura per giungere e operare in un mondo disincarnato, avulso dalla realtà, li immette in una strana forma di ascesi. Allora “fanno dell’arte una vergine infeconda”. “Il problema non è di escludere dal campo visivo or un interesse ora un altro, per salvare le ragioni dello spirito, ma di salvare con le ragioni dello spirito un campo sempre più vasto d’interessi molteplici”. Questo fecero Dante, Leonardo, Goethe. “Si legge che il yogin, quanto più diviene ottuso, quanto più, a forza di violentarsi e macerarsi, riesce selvatico, gretto e mentecatto, tanto più solitamente insuperbisce e giudica con sprezzo i suoi simili. Allo stesso modo, molti dei nostri avanguardisti dell’arte e in generale della cultura, più si castrano, più si fanno guerci e balbuzienti, e più li vedi pigliare un’aria tronfia…”
I cristianucci temono l’inferno allorché giungono sul punto di morire; guariti, tornano ai compromessi con la fede. Si comportano parimenti in tempo di guerra: quando le cose vanno male, scoprono il Vangelo, diventano dubbiosi e tiepidi, fratelli di tutti. Quant’è cristiano porgere l’altra guancia! La politica non li riguarda, “è bassura e sudiciume, dove ci si sporca le mani”. Non c’è dovere che tenga: essi pensano a salvare l’anima. “Pensano al Buon Pastore, e si fanno agnelli, mentre sono agnelli cresciuti e sviluppati in magnifiche pecore. Dimenticano che il Cristo, lui si fece crocifiggere”. Altri, però, scendono in campo valorosamente.
“Cristo non venne a portare pace soltanto, sibbene anche guerra. Non Cristo ha detto che la pace è il fine principale dell’uomo. Il fine è altrove”. Colui che deve soprintendere alle virtù cristiane, “smascherare le false, incitare le vere e dare l’esempio”, e “irradiare la luce, l’insegnamento sul mondo cristiano e cattolico”, ha disatteso le aspettative. “Con tutto il rispetto che dobbiamo all’autorità sublime che emana dalla cattedra di Pietro, attestiamo che quella luce e quell’insegnamento sono stati attesi invano”. Tanti invocano la pace, tanti imbelli invocano una pace abietta. La guerra, oltre agli orrori, produce occasioni di eroismo, di sacrificio splendido, ed è infine un castigo, una giusta espiazione, che un vicario di Cristo non dovrebbe ignorare augurando la pace. Si vorrebbe invece un papa “scrutatore possente di valori ideali, piuttosto che noiosamente occupato a sospirare la fine di un conflitto, il quale, al postutto, coinvolge anche interessi supremi della cattolicità”.
Barna Occhini, trascorsi 40 giorni, darà modo a Antonio Marzotto di prendere le difese di Pio XII, e Marzotto specifica che trattasi nuovamente di opinioni personali. Il Capo della Chiesa non può prendere partito su fatti contingenti, egli dà giudizi predicando per tutti. E lo ha fatto senza riguardo per alcuno.
Da parte sua, Don Ildefonso E. Troya, dal Monastero di S. Trinita in Firenze, si espone con un ardito parallelo: “Altra cosa è il fascismo, cioè la dottrina mussoliniana, e altra sono i fascisti. È stato forse il fascismo che ha rovinato e tradito l’Italia? No. Sono stati bensì i cosiddetti fascisti di poca fede che, tradendo il fascismo, hanno disonorato l’Italia […] Allo stesso modo altro è il Vangelo, altro sono i sacerdoti e i fedeli […] Dunque cerchiamo di spiegare le cose al popolo, al popolo che è ora avvolto in un’atmosfera di sospetto…” Anche i preti hanno trascurato di educare la gente spiritualmente ed eticamente. Occorre rifornire le coscienze, restaurare le virtù private. Una forte disciplina è necessaria.
In un Chiarimento, il Direttore afferma che, nella disparità dei pareri, c’è una coerenza, “ed è che, intanto, tutti difendiamo il cattolicesimo […] con la convinzione […] che il cattolicesimo è un elemento integrante e principale della civiltà italiana”.
Egli riprende Massimo Bontempelli per avere, in una Avvertenza preposta a un’antologia della lirica (1943), dichiarato la superiorità della poesia rispetto alla storia (ma forse accennava alla politica), che la vorrebbe assoggettare essendo nemica del cielo, materialista. In tal guisa, Bontempelli – nel frattempo divenuto astioso, ingiusto, sconoscente dei benefici ricevuti – agguagliava ogni sorta di epoca storica. Adesso, esponeva concezioni mondialiste ante litteram: una “internazionale dei popoli” che eliminerebbe la guerra, con scambio dei “frutti della civiltà in concordia amorevole”. “Spento l’orgoglio di nazione, diluita la coscienza nazionale nel vagheggiamento umanitario, in ogni punto del globo ciascuno non si sentirà che cittadino di una sola, illimitata patria. Fiorirà il cosmopolita”. Invece “la nazione è un fatto, l’internazionale è un mito; ed è un mito che quando si traducesse in realtà non sarebbe in vantaggio della civiltà, ma in danno”. “È la nazione il primo e supremo fattore di ogni importante civiltà”. “Mutano e spariscono le nazioni, ma non muta e non sparisce il fenomeno nazione, per l’instancabile vicenda di natura e storia nell’associare e dissociare. Quando i fattori associanti, unificanti prevalgono, è ancora per effetto di un popolo che per alcun tratto di tempo riesce a diffondere un proprio concetto religioso, estetico, etico, o alto che sia, tra altri popoli, che lo coloriscono della loro individualità”. “La civiltà greca, la civiltà romana, la civiltà bizantina, la civiltà gotica, la civiltà del Rinascimento, le quali con diversa autorità si diffusero in più o meno vaste regioni umane, emanarono tutte da centri nazionali determinati. Non furono civiltà anonime…”
Occhini riprende il concetto di uno Stato che si propone di restituire “la salute non soltanto dei muscoli e dei nervi, ma anche dell’animo e della mente”, giacché “l’uomo malato e decaduto è capace di valori spirituali”, che però comportano la decadenza, la patologia. Se in una società prevalgono gli intellettuali e gli artisti pessimisti, depressi, irreligiosi e quelli euforici, vitalisti, affetti da superomismo, la massa sarà trascinata nel nichilismo. I valori spirituali autentici e benefici verranno sommersi. L’arte e la cultura romantiche, d’un romanticismo inteso in senso lato, produssero tale effetto. Poe, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Leopardi, Oscar Wilde, Strindberg, Ibsen, D’Annunzio, Kierkegaard, Marx. Nietzsche, ecc, con lo spleen, l’ipocondria, il titanismo, la perversione sessuale, le rivoluzioni, le ricercatezze, le voluttà malsane, i paradisi artificiali, e i grandi letterati russi degenerati, abulici, isterici, maniaci, spostati, vinti, pseudo umanitari, emanarono nel Novecento la loro atmosfera e vi ebbero i loro epigoni. Le avanguardie, lungi dal retrocedere e dal reagire ai precedenti indirizzi, inventarono espressionismo, cubismo, futurismo, surrealismo, dadaismo, ermetismo, che si salvano soltanto per la ricerca espressiva, per il resto sono evasione e sovversione, sono antitetici al salubre equilibrio della classicità rinnovata.
La nobiltà italiana, nel suo insieme, ha smarrito il suo esemplare codice cavalleresco e la sua storia. Gli ultimi nobili, i giovani in particolare, si abbandonano allo snobismo esterofilo, acquisiscono costumi ineducati e gusti piuttosto barbari. La loro spregiudicatezza è in fondo volgare. Fanno lo stesso, i soliti borghesi che ne sono le scimmie, e molti intellettuali ed insegnanti. Così si rovina la stessa buona e nobile forma.
Goethe provò a Roma il senso dell’uomo, si sentì uomo e ne fu felice. Tuttavia quel ricordo lo rese malinconico e ne rifuggì. Roma è completezza, è vertice di Atene e di Gerusalemme insieme. Firenze fu incompleta senza Roma. I sommi fiorentini furono romani. Cristo è romano nella Chiesa universale. Roma perdura come pietra di paragone infallibile. Un’umanità che ha perduto, che ha dimenticato Roma è un’umanità decapitata.
Sulla rivista scrisse il suo editore Carlo Cya, e vi completarono il pensiero culturale e politico Gentile, Soffici, Dainelli (scienziato), Paribeni (storico), Serpieri (economista), Sacchetti, Guerrini, Conti, Ramperti, Giovanni Spadolini, Tosi, Cattaneo, Franchini, Carlo Martini.
Facendo il bilancio delle realizzazioni seguite ai punti programmatici di Castelvecchio, Cya rivendica la fedeltà a tale organizzazione statale, che doveva essere definita da un’Assemblea costituente la quale, nel disegno originario origine, avrebbe dovuto essere formata dall’emanazione di tutte le componenti del corpo sociale. La Costituzione e i punti relativi ai poteri dello Stato attendevano d’essere attuati, stanti gli impedimenti della guerra in corso e la ricostruzione dell’esercito considerata preliminare.
La Repubblica avrebbe avuto un Capo, altresì Capo del governo, eletto dai cittadini e in carica per cinque anni; i ministri nominati dal Capo della Repubblica; una Camera dei rappresentanti, con funzione di controllo e di segnalazione, eletti dal popolo; un solo partito custode dei pregi nazionali. La semplicità e la funzionalità di questo organismo schematico (collegato al popolo con precise responsabilità di uomini in carica, esente da quei presunti bilanciamenti e controlli reciproci dei poteri, che si volgono in remore e contrapposizioni paralizzanti), l’abolizione dei partiti ideologici (la cui concorrenza genera pure faziosità e privilegio degli interessi di parte), rappresentavano un sistema istituzionale suscettibile di efficacia e di rendere l’Italia indipendente nel mondo.
Barna Occhini, genero di Giovanni Papini e padre dell’attrice Ilaria Occhini, fondò ancora e diresse la Casa editrice L’Arco (1947) e la rivista Totalità (1966-1968), alla quale collaborarono Giano Accame, Fausto Gianfranceschi e Vintila Horia.