BREVE EXCURSUS SUL COSTUME FEMMINILE NELL’ULTIMO SECOLO – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

 

beChe cosa dire, che non sia risaputo, sull’evoluzione del modo di vestire e di comportarsi, venendo dalla Belle Epoque ai giorni nostri? Ma le cose risapute sovente sono poco considerate e non riescono istruttive.

Sappiamo che gli esseri umani, il sesso debole, sono sempre andati soggetti alle medesime debolezze, alle inclinazioni naturali più o meno corruttibili. Invece i costumi no. Il gusto vigente varia, variò moltissimo. Ed è pure noto che esso influenza non poco le vite, frenandole o sfrenandole, secondo i casi.

Abbiamo presenti gli abbigliamenti muliebri di prima della Grande Guerra? Le gonne lunghe coprivano la caviglia. Il corpetto col collo grazioso escludeva le scollature, limitandosi a modellare il busto quanto basta. Il resto delle forme restava nell’intuito e nell’immaginazione. Certamente il fidanzato, ed anche il libertino, andava incontro a qualche sorpresa meno che esaltante. D’altra parte, le scoperte erano vere, anziché scontate. Non sembra poco. Il volto dell’amata e la linea della figura formavano la promessa, la base dell’attrattiva necessaria.

Il cappello per signore e signorine era di rigore. Soltanto le popolane potevano vedersi in capelli.

Delle bagnature, dei primi stabilimenti balneari, i cui spogliatoi somigliavano alle tende dei capitani Crociati, abbiamo ampia documentazione fotografica. I costumi da bagno vestivano i corpi per intero, con volant prudenziali.

Sarebbe davvero superficiale ritenere che tanta castità fosse sé stante, un nascondimento vezzoso. Ad essa corrispondeva l’idea della donna. Ella veniva apprezzata per determinate virtù: la pudicizia, la modestia, l’illibatezza, le buone maniere, una leggiadria né provocante, né civettuola, almeno all’apparenza. Se poi in quel corredo di pregi s’insinuava l’ipocrisia, questo è un altro paio di maniche. Giova ripeterlo: sarebbe folle pretendere che la donna fosse incorruttibile e angelicata

Bastarono cinque o sei anni, e la rivoluzione del vestire fu cosa fatta. Rapidamente le gonnelle si accorciarono al ginocchio, la vita attillata salì a mettere il seno in evidenza, le chiome fluenti, in cui gli uomini sognavano di affondare le dita sensibili, vennero drasticamente sacrificate. Le zazzere alla maschietta, il tipo della donna-crisi, spavalda e quasi anoressica, giunsero al ritmo del charleston. L’emancipazione femminile progrediva così: l’America cominciava a dettar legge nelle usanze.

Di nuovo, la moda significava un atteggiamento, una mentalità. La figura della madre, rappresentata dal bacino ampio, dal petto generoso, subiva la concorrenza della femmina già indotta a scimmiottare il maschio. La parola maschietta imperversava nelle canzoni e nelle maschili conversazioni. Il diritto a svolgere mansioni prima ritenute prerogativa di chi portava i calzoni, ebbe le sue conquiste. La promiscuità dei sessi negli uffici e nelle fabbriche fu ritenuta innocua o trascurabile. Le sportive attive o tali per le loro maniere, aumentarono. Gli spiriti delle maschiacce e delle procaci godettero d’una pericolosa via libera, ebbero immeritati apprezzamenti, dato il loro esempio.

Va tuttavia ricordato che, da noi, la moda, accolta e seguita, intaccò gli strati superficiali degli usi precedenti. Certe tutele della natura prettamente femminile restarono in vigore. La verginità manteneva il suo peso. L’onore perduto o violato aveva senso.

La seconda guerra mondiale, con la bomba atomica, recò il bikini. Il due pezzi, sino ad allora riservato alle ballerine d’avanspettacolo, comparve sulle spiagge. Dopo l’immediato dopoguerra, scollacciato e scettico sin nel popolo lavoratore e nella borghesia, le gonne, sovente plissettate tornarono al polpaccio. Poi comparvero le gonne soleil, sempre sotto il ginocchio. Le brave donne di media condizione non si vergognavano di mostrare la peluria sugli stinchi. Le capigliature, già prima della guerra, coprivano il collo con grazia di arricciature. I cappelli, invece, erano generalmente scomparsi per le strade; e con essi le velette, che conferivano al viso alcunché di misterioso.

Negli anni cinquanta, vennero in voga le maggiorate, le prosperose, sull’esempio delle nostre dive Sofia Loren e Gina Lollobrigida. Si videro grosse cinture segnare la vita, gonne a tubo fasciare i fianchi, camicette, tutto sommato, non troppo ardite, magliette, invece, assai aderenti. Alla donna era concessa una certa procacità; in compenso il modo di vestire più comune era nostrano, era nostro. Anche l’eleganza era nostra, dall’alta sartoria alle carrozzerie delle automobili (le migliori di serie e le  fuoriserie), ai transatlantici; era insuperabile allora ed è tuttora insuperata.

Per inciso, vale la pena ricordare che, un anno, l’abito più diffuso fu il sacco. Un specie di tunica che scendeva al ginocchio, lasciandosi appena improntare dalle sinuosità della persona. Era senza dubbio una trovata, che aveva qualcosa a che vedere con la malizia del velo.

Col boom economico italiano, cominciò il disorientamento della moda come dei cervelli. Vennero fuori acconciature cotonate, barocche, che sapevano di artificio e di finzione. E, dalla testa in giù, il buon gusto scomparve. Addio spontaneità popolana. Finezza o raffinatezza declinavano. Il conformismo livellatore aveva preso il sopravvento.

Tra i ricchi, vecchi e nuovi, aveva preso piede un nuovo snobismo: lo smettere di vestirsi, permettendosi un’ulteriore libertà antiborghese. Era il casual, più tardi scimmiottato universalmente, anche con l’uso costante degli orribili blue-jeans, indumenti da lavoro responsabili di artrosi alle ginocchia, essendo indossati in ogni stagione. Per la verità, erano stati importati fin da quando avevano fatto furore le pellicole del giovane bruciato Jeames Dean e del selvaggio Marlon Brando, dopo essere stati il pantalone dei pionieri. Le ragazze misero abbigliamenti jeans molto più tardi.

Intanto per le mogli degli impiegati e le spose degli operai, il loro diritto al lavoro, la liberazione che le faceva madri, spose e realizzate nelle aspirazioni lavorative, era diventata una necessità, una servitù, cui molte si adeguavano volentieri alla ricerca del di più e del meglio che sempre ci manca. Lo stipendio o la paga del capofamiglia non bastava più per avere elettrodomestici, utilitaria, arredamento della casa secondo le riviste autorevoli. Cominciava l’era del consumismo. Dalla frugalità passavamo ai falsi bisogni, all’allettamento del superfluo. I nonni godevano ancora della loro indipendenza, ma, tempo un decennio, parecchi di loro si sarebbero trasformati in bambinaie.

Intorno al fatidico Sessantotto venne in auge la stravaganza architettata bensì dai produttori di vestiario. Di punto in bianco: camicie e calzoni attillatissimi; poco dopo, i calzoni a zampa di elefante, con la stessa svasatura di quelli dei marinai americani; per cui, bisognava disfarsi del guardaroba ancora buono per far posto agli arnesi à la page. E tutto in nome dell’anticonformismo…

Per continuare, i produttori di vestiario, quando non sapevano che pesci prendere, rispolveravano articoli che erano stati di moda diverso tempo addietro, con lievi modifiche.

A un certo punto, anzitutto le giovani furono vestite di nero da capo a piedi, pur lontanissime dalla compunzione del lutto. Finita la passione di quella tenuta, esse dovettero scoprire una buona striscia di ventre e di reni, mostrando l’ombelico. Ma nessuna osò ribellarsi per il mal di pancia o la lombaggine che s’era buscata. Il recente vezzo della spalla scoperta è stato passeggero, e tuttavia responsabile di chissà quante periartriti delle meno giovani. Di certo ho dimenticato alcuni passaggi rimasti impressi in mente alle signore. A proposito di effimero nell’ornamento personale, gravido di disturbi della salute, meritano una nota il piercing e il tatuaggio; negli uomini, la barba sempre lunga di quattro o cinque giorni, l’orecchino e il cranio rasato a zero o, talvolta, con la cresta dei Moicani. Niente di nuovo, considerando i popoli selvaggi.

Non dimenticherò il fenomeno principe della minigonna, che ha attraversato gli ultimi quarantacinque anni e, nonostante abbia superato ampiamente la maturità, promette di conservare  un’eterna giovinezza.

A questo indumento, che fece risparmiare ai fabbricanti milioni di metri quadri di stoffe, si è accompagnata l’abitudine di esporre il più possibile le proprie nudità. Prescindendo dal mero esibizionismo, che non può essere generalizzato, e a parte l’incuria del pudore, la generale spregiudicatezza del mettere in mostra al massimo le grazie corporee al primo venuto, ovvero a tutti quanti, ha il difetto, per le donne prive d’un legame, di attirare senza vaglio alcuno gli aspiranti d’ogni sorta e, per le altre, di esporsi ad ogni attenzione tentatrice. Mentre i più idonei aspiranti, sebbene abituati alla sensuale aggressione, intimamente non potranno stimarla conveniente. Ma credo che le incaute, al pari delle loro nonne, obbediscano anzitutto alle costumanze. Probabilmente hanno ragione, in quanto anche l’altro sesso vi si conforma, evitando di formalizzarsi.

In tanto fervore di invenzioni intese a vestire ed abbellire, sfido chiunque a trovare, non dico la finezza, ma soltanto una certa armonia con l’intelligenza e con le bellezze del Creato: dai fiori e dalle piante, agli animali. Ora, sia da parte degli artefici (non scendo a parlare dei cosiddetti stilisti), sia da parte delle fruitrici dei loro manufatti, doveva essere così, doveva essere quello il suscitamento del gusto e l’andare incontro ai gusti, stante lo spirito e la filosofia di questa vita.

Sia reso onore agli autentici anticonformisti, femmine e maschi, che oggi si fanno beffe della moda.

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