di P. Giovanni Cavalcoli, OP
(immagine ripresa dal sito www.rosmini.it)
Il Beato Rosmini, giovane pio e portato alla mistica, racconta come all’età di 18 anni ricevette improvvisamente un’illuminazione circa il valore dell’essere, che poi fu alla base della sua vocazione e produzione filosofica per tutto il resto della sua vita, fu come la stella della sua speculazione.
Ebbe, egli dice, la rivelazione dell’“essere ideale”, una luce fulgidissima e incancellabile, che egli considerò un prezioso dono divino, che successivamente, nell’elaborare la sua gnoseologia e la sua metafisica, egli si convinse essere non un privilegio di alcuni, ma dono che Dio fa ad ogni mente umana “costituendola intelligente”, anche se non tutti si rendono conto di questa luce interiore che guida l’uomo nella conoscenza della realtà e della verità, sino a giungere alla conoscenza di Dio, Essere ad un tempo sommamente Ideale e Reale, identità di Pensiero ed Essere.
In tal modo il Card. Tarcisio Bertone, in occasione della beatificazione del Rosmini, ebbe a dichiarare che “egli muove dall’Idea dell’Essere e ne deriva ogni ulteriore conoscenza umana; e proprio a partire da tale idea fonda l’oggettività della conoscenza e dell’etica, ponendo un nuovo punto di partenza per la metafisica e la teologia”[1].
Sì, Rosmini “muove dall’Idea dell’Essere”, ma bisogna che ci intendiamo: non lo fa alla maniera degli idealisti tedeschi che hanno la pretesa di partire della conoscenza diretta ed originaria dell’“Assoluto”, quasi avessero in partenza la scienza divina, ma “parte da Dio” nel senso che riconosce Dio come Autore e Creatore dell’intelletto e della stessa idea dell’essere, pur immediatamente considerata dall’intelletto, come partecipazione finita a quell’Idea assoluta che è Dio stesso, Lume increato di tutti gli intelletti creati.
E’ noto come per il Rosmini l’idea dell’essere è “innata”. Dice egli infatti: “Rimane che l’idea dell’essere sia innata nell’anima nostra; sicchè noi nasciamo colla presenza e colla visione dell’essere possibile, sebbene non ci badiamo che assai tardi”[2]. Ma che vuol dire esattamente Rosmini con questo attributo di “innata? Vediamo.
Egli chiama questa idea “forma a priori”, desumendo il termine da Kant, ma con altro significato. Mentre infatti per Kant la forma a priori dell’intelletto non è l’idea dell’essere, ma una determinata categoria del “giudizio sintetico a priori” (sostanza, qualità, quantità, ecc.), ed è inoltre insita nello stesso intelletto, il quale con essa dà forma al materiale delle sensazioni proveniente dalla “cosa in sé”, che è il reale sensibile esterno al pensiero, per Rosmini l’idea dell’essere è sì “forma” originariamente giacente nell’intelletto, ma nel senso che è oggetto dell’intelletto in quanto per essa ed in essa l’intelletto conosce la realtà esterna sensibile ed intellegibile, fino a giungere alla conoscenza di Dio.
Questa idea quindi è “innata” non nel senso che entri nell’essenza dell’intelletto, ma nel seno che è data da Dio direttamente al soggetto sin dalla nascita. E’ quella che tradizionalmente si chiama “idea infusa”. Rosmini qui, inebriato dall’altissima dignità del pensiero umano illuminato dall’Alto, non si accorge di equiparare quasi il modo umano del conoscere a quello angelico.
In realtà, come spiega S.Tommaso, il conoscere umano inizia col semplice esercizio della conoscenza sensibile. Solo allorchè è capace di usare la ragione, il bambino comincia a prender dimestichezza con l’essere (vedi l’uso del verbo “essere”), anche se ancora non ci riflette sopra, né si interroga sull’essenza dell’essere, ricavato spontaneamente per astrazione dai sensibili ed affermato nel giudizio.
Così Rosmini parla sì dell’essere come di una “forma” del conoscere, e di una “materia” del medesimo conoscere, materia proveniente dalle sensazioni, che può far pensare a Kant. Però c’è questa differenza tra Kant e Rosmini.
In Kant la forma non é data nel soggetto, ma dal soggetto, stabilita dal soggetto, perché appartiene all’intelletto, e solo la materia del conoscere ha origine oggettiva dalla cosa in sé, indipendentemente dal soggetto, sicchè l’oggetto del conoscere, il “fenomeno” è la cosa in quanto appare al soggetto, e nel contempo è modificazione del soggetto.
Invece in Rosmini tanto la “forma” che la “materia” del conoscere costituiscono l’oggetto del conoscere, senza che il soggetto interferisca nell’oggetto, ossia dia forma all’oggetto (la cosa in sé), che è il reale esistente indipendentemente dal soggetto e creato da Dio, reale che il soggetto deve semplicemente rappresentare nell’idea o nel concetto o nel giudizio così come esso è, la famosa adaequatio intellectus ad rem, regola della verità
Su questo punto Rosmini sembra però troppo preso dal linguaggio kantiano. In realtà si deve parlare di “forma” e “materia” solo in cosmologia o nella filosofia della natura a proposito dell’ente materiale, non in gnoseologia, a proposito dell’atto del conoscere. Il conoscere ha un “modo”, più che una “forma”, nonché un “oggetto” o se vogliamo un “contenuto”.
Questo “modo”, però, che sembra corrispondere alla “forma” di Kant e Rosmini, appunto perché solo modo, non ha contenuti, non ha un oggetto, quindi non può a sua volta avere come oggetto l’idea dell’essere o l’essere stesso, perché appunto l’essere fà parte dell’oggetto o contenuto del conoscere e non del modo o della “forma”.
L’idea dell’essere per Rosmini è quella “luce della ragione”, che consente alla mente umana di cogliere la verità delle cose, del mondo, dell’io e di Dio. Questa luce precede l’esperienza, è appunto innata, e in questo senso, similmente alla “forma” kantiana, è “a priori”, ma ripeto che si tratta di un “a priori” oggettivo, che fa conoscere il reale in sé, e non di una forma del soggetto che fonda un’“oggettività” parzialmente costituita dallo stesso soggetto, che quindi è un’oggettività, se mi è consentita l’espressione, incompleta.
Da qui il caratteristico soggettivismo kantiano, che lascia perplessi per non dire scettici circa il fatto che il “fenomeno” possa ritrarre in modo veramente oggettivo la realtà della cosa in sé, tanto più che lo stesso Kant asserisce esplicitamente che noi non possiamo sapere come sono le cose in se stesse, ma solo come ci appaiono. Nulla di tutto ciò in Rosmini, per il quale non c’è nessun dubbio che la mente umana può percepire le cose come sono, appunto grazie alla luce dell’essere e valendosi del “sentimento”, ossia dell’esperienza sensibile.
Rosmini parla di un “intuito dell’essere”, intuito innato, immediato, originario, spontaneo, certissimo, base di tutte le nostre conoscenze, il che fa capire bene come per Rosmini il pensiero che qui appare come intùito, sia ben distinto dall’essere, oggetto del pensiero e dello stesso intuito, essere che quindi non è “posto” dal pensiero né tanto meno è identico al pensiero, come avviene negli idealisti tedeschi sino a Gentile e a Bontadini. Il pensiero umano per Rosmini forma sì gli enti mentali (ens rationis), le intenzioni, i concetti, i giudizi, i ragionamenti, possiede l’idea dell’essere, ma non può “formare” o produrre l’essere, che è creato da Dio, né tanto meno identificarsi con l’essere.
E l’“essere ideale” che cosa è? Rosmini dice che è l’intellegibilità dello stesso essere, è la “essenza dell’essere”, è l’essere in quanto pensabile, l’essere “possibile”. Sembra implicare assoluta perfezione, come si trova in ciò che “idea” significa. Rosmini lo chiama anche “idea dell’essere”. Potremmo forse dire, con un’espressione di Severino, che è la “verità dell’essere”. Sembra essere quella che S.Tommaso chiama ratio essendi.
Tuttavia, propriamente parlando, l’idea dell’essere e l’essere ideale non dovrebbero essere la stessa cosa. “Idea” e “ideale” sono sì la stessa cosa. Tuttavia il reale si oppone all’ideale. Esiste quindi non solo l’idea dell’essere reale, ma anche l’idea dell’essere ideale. Sono forse la stessa cosa?
La nozione rosminiana dell’essere, inoltre, è notoriamente una nozione univoca, simile a quella di Duns Scoto: idea semplicissima, intuitiva, di per sé nota, precisa, fissa, unitaria, separata dal molteplice e dal divenire, astrattissima, indeterminata, di massima estensione e di comprensione nulla, benchè intellegibile e nettamente distinta dal nulla. Rosmini quindi respinge assolutamente la nozione hegeliana dell’“essere”, la quale, essendo per Hegel, “vuota”, viene ad essere identificata con quella del non-essere.
Tuttavia questo “essere puro”, “essere senza più”, come lo chiama Rosmini, “indeterminato”, assolutamente astratto e generico, è anche “essere virtuale”, nel senso che ha in sé virtualmente tutte le differenze e le diversificazioni, quindi molteplicità e divenire; e lo chiama anche “iniziale”, in quanto all’inizio mancante dei “termini”, che sono le categorie specifiche e generiche, essere che viene completato dai suddetti “termini”, che noi possiamo intendere a contatto con la realtà facendo uso dei sensi; è un essere vago riguardo ai contenuti o “applicazioni” ai dati sensibili, ma non al significato del concetto che, come si è detto, è preciso ed inequivocabile.
Per quanto riguarda ancora la nozione dell’essere, Rosmini la sovraccarica poi di attributi che lo assimilano all’essere divino: uno, necessario, eterno, infinito, immutabile, assoluto, tanto che poi Rosmini penserà che sia sufficiente riflettere sui caratteri dell’essere per sapere che Dio esiste. Dio è l’essere iniziale portato all’estremo della sua esplicitazione. L’essere divino viene ad essere un’esplicitazione dell’originario essere univoco. E’ giusto?
E’ vero che Rosmini si sforza di dire che l’essere ideale non è l’essere divino, tuttavia egli non riuscì convincente e ciò gli causò la condanna della sua concezione dell’essere da parte del Sant’Offizio nel famoso decreto “Post obitum” del 1887. Che cosa intendeva Rosmini con la sua concezione dell’essere?
Non c’è dubbio che egli intendeva mantenere la distinzione fra essere creato ed essere increato, essere finito ed essere infinito, essere temporale ed essere eterno, essere contingente ed essere necessario, essere relativo ed essere assoluto, essere umano ed essere divino.
Il suo “essere” uno ed univoco intendeva solo, a quanto pare, collegarsi con l’essere astratto della logica, genus generalissimum, quello che Tommaso chiama ens commune o ens universale, categoria massima della predicazione logica, per la quale anche l’ens rationis, gli enti matematici, gli enti fantastici, le negazioni, il nulla, l’assurdo e il male “esistono”. Ma appunto un conto è lo esistere e un conto è l’essere.
L’esistere, come spiega il Padre Fabro, è il semplice fatto di esistere o esserci, l’essere invece è l’atto di essere, actus essendi. Il primo è semplice attuazione della possibilità; il secondo, come insegna S.Tommaso, è la perfezione dell’ente, l’atto che attua l’essenza dell’ente come “potenza” o poter-essere-tale. Qui pare che Rosmini non sia preciso nei termini.
Sul piano della realtà era chiaro anche per Rosmini che l’ente è analogico, anche se egli maldestramente limitava questa analogia alla sola essenza e manteneva l’univocità dell’essere (confuso con l’esistere). Ma già il fatto di distinguere come S.Tommaso nell’ente l’essere dall’essenza, dà prova in Rosmini di un notevole senso metafisico, che lo portò a dire che “la creatura ha l’essere”, mentre “Dio è l’Essere”. Dunque l’Ipsum Esse subsistens esattamente come insegna l’Aquinate.
Rosmini sembra dare però eccessiva importanza all’ideale rispetto al reale. Tuttavia egli resta realista e non è per nulla idealista, anche se assume un certo linguaggio desunto da Kant, nell’intento di confrontarsi col pensiero contemporaneo e di realizzare una sana modernità. Rosmini invece resta piuttosto nella linea della gnoseologia di S.Agostino e di S.Bonaventura. Come è noto, egli aveva molta stima per S.Tommaso, però tende ad interpretarlo riconducendolo ai due prefati Dottori.
Per questo Rosmini interpreta l’innatismo tomista secondo la visione innatistica di Agostino e Bonaventura[3], i quali ignorano la dottrina aristotelica, ripresa dall’Aquinate, secondo la quale l’intelletto, all’inizio, è una semplice potenza o facoltà conoscitiva, ancora vuota di contenuti, compresa la nozione dell’ente o dell’essere, la quale vien formata per analogia partendo dalla percezione degli enti sensibili.
L’essere in sé è certo anche per Tommaso puramente intellegibile, non è sensibile, quindi indubbiamente trascende l’esperienza sensibile. Tuttavia l’intelletto, per l’Aquinate, coglie originariamente l’essere come essere sensibile nelle cose materiali che cadono sotto i sensi (quidditas rei materialis).
Nulla impedisce all’intelletto, secondo S.Tommaso, di formasi un’idea generica e quasi univoca dall’essere, anzi è cosa normale, quell’idea che potremmo chiamare idea dell’“esistere” o, come la chiama Padre Fabro, l’esse in actu (existentia), applicabile univocamente a tutto, Dio mondo, essere, nulla, vero, falso, bene, male, reale, ideale, in quanto è un puro predicato astratto, semplicemente in opposizione col non-esistere e col contradditorio; è quello che Maritain chiama “essere logico”.
Ma quando si tratta di cogliere il reale (cose, uomo, mondo, Dio), Tommaso ci ricorda che questa idea logica non serve, ma occorre formare un’idea analogica dell’essere, sia per quanto riguarda l’essenza che per quanto riguarda l’essere, altrimenti rischiamo di parificare l’essere del mondo con quello di Dio e di non vederne l’immensa diversità.
Ovviamente, tale aspetto panteistico era quanto di più contrario si possa immaginare alle intenzioni del Rosmini, che aveva per esso orrore; ma purtroppo egli non riesce ad elaborare una nozione analogica dell’essere sufficientemente adeguata, che fughi ogni preoccupazione, in quanto egli ammette, come si è detto, l’analogia per l’essenza dell’ente e non per l’essere. Invece la vera analogia, come mostra Tommaso, deve riguardare anche l’essere.
Inoltre Rosmini vorrebbe dare l’essere come oggetto dell’“intelletto agente” di S.Tommaso, per il fatto che l’Aquinate, al seguito di Aristotele, chiama “lume” questo intelletto, mentre l’essere per Rosmini è appunto il “lume” dell’intelletto. Ma egli dimentica che per Tommaso l’intelletto agente non ha affatto per oggetto l’essere, ma, illuminando le immagini tratte dall’esperienza, fa conoscere all’anima l’essenza universale astratta dall’individuo sensibile. L’intelletto agente fa conoscere l’essere, ma per conto proprio non lo conosce.
Solo l’“intelletto possibile” per S.Tommaso conosce l’ente e l’essere, ma peraltro non “a priori” o come “idea innata”, ma come oggetto intellegibile ricavato dall’esperienza, anche se con il metodo dell’analogia, giacchè è evidente per Tommaso come per tutti i Dottori cattolici che lo spirito trascende la materia; è evidente che il senso non sa nulla dello spirito e che se l’intelletto vuol conoscere lo spirito deve ben trascendere l’esperienza sensibile, ma il trascendente per Tommaso non è un dato apriorico dell’attività intellettuale precedente l’esperienza, ma è un dato aposteriorico che consegue all’esperienza.
Il famoso motto tomista “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu” non vuol dire che noi conosciamo solo le cose materiali, ma che anche quelle spirituali le raggiungiamo per analogia partendo da quelle materiali, facendo appunto uso della nozione analogica e partecipativa dell’essere.[4]
E come, per S.Tommaso, l’intelletto raggiunge un piano di realtà, quello spirituale, che trascende l’esperienza? Appunto col formare la nozione di ente, la quale di per sè non implica affatto che sia ristretta alla materia, ma fa riferimento, almeno possibile, anche al mondo dello spirito.
Per Tommaso, dunque, l’idea dell’essere non precede, come in Rosmini, l’intellezione del reale, ma è formata dall’intelletto a seguito del contatto col reale e appunto per intendere il reale. L’idea dell’essere è così derivata dall’intellezione dell’ente reale.
Certo in seguito l’intelletto, usando una nozione previa dell’essere, intende il reale nell’idea e per mezzo dell’idea, che può a sua volta diventare oggetto di conoscenza, nell’autocoscienza. Ma la mente coglie l’idea ossia la verità dell’essere o l’intellegibilità dell’essere solo perché attinge allo stesso essere extramentale indipendente dall’idea. L’idea dell’essere quindi, almeno quella umana, non è oggetto originario del pensiero, ma è la rappresentazione del dato reale extramentale, rappresentazione da noi formata appunto per conoscere l’oggetto, ovvero l’ente reale. Un’idea a priori dell’essere può essere solo quella di un puro spirito, come l’angelo o Dio.
Indubbiamente l’intelletto in possesso dell’idea dell’essere affronta la conoscenza delle cose, dell’io, degli altri e di Dio. Tuttavia nell’atto del conoscere non si tratta tanto, come crede Rosmini, di “applicare” una previa idea indeterminata dell’essere a un particolare oggetto “sentito”, ma piuttosto, come insegna l’Aquinate, di determinare questa idea alla luce dell’essere proprio di quell’ente che cade simultaneamente sotto il senso e sotto l’intelletto.
Quindi l’essere non va tanto applicato quanto piuttosto scoperto ed affermato nel giudizio là dove si trova, si tratti della formica, del fiore di campo, della stella cometa, della persona che mi sta davanti o di Dio stesso.
Il Dio di Rosmini non è dunque il Dio-Ideale di Kant come sommo punto di convergenza e di unificazione del lavoro della ragione, garante dell’ordine della ragione, ma è il Dio reale e trascendente della teologia razionale e del cristianesimo, anche se è evidente la simpatia di Rosmini per l’argomento ontologico di S.Anselmo e per il cammino bonaventuriano verso Dio, che parte dall’idea dell’essere riflettendo sulle sue implicanze. E’ il Dio dell’interiorità, termine dell’agostiniano “transcende et teipsum”, ma non è certo il Dio immanentistico della filosofia idealista.
Giovanni Gentile ha tentato di appropriarsi del pensiero di Rosmini facendone una specie di kantiano, ma non ha capito che in Rosmini non si tratta di una questione di contenuti[5]: Rosmini è sostanzialmente un realista, anche se nella linea dell’interiorismo e dell’illuminismo agostinano-bonaventuriano, ma nel contempo è vicino anche a San Tommaso, del quale aveva grande ammirazione, anche se inconsapevolmente lo ha ricondotto alla linea precedente che non è quella di S.Tommaso, essendo egli, come è noto, sulla linea del realismo aristotelico.
Le famose 40 proposizioni condannate, certo, come suonano, sanno di ontologismo ed idealismo, e la Congregazione per la Dottrina della Fede lo ha ribadito, ma come spiegò in occasione della beatificazione di Rosmini l’allora Card. Ratzinger, Prefetto della medesima Congregazione, quelle tesi non riflettono il pensiero generale e profondo del grande e Santo Roveretano, il quale restò immune dall’eresia e risplende come astro della millenaria sapienza cristiana, fedele al mandato di Papa Gregorio XVI, che lo esortò ad impiegare le risorse del suo genio per il bene della Chiesa ed ammirato dallo stesso Beato Pio IX che pure avviò il processo che portò alla condanna delle proposizioni.
Certamente toccò a Leone XIII evidenziare gli errori, dai quali a tutt’oggi occorre guardarsi, perché ancora persistono, ma la fama di santità e di sapienza del Rosmini non si spense, finchè il Beato Papa Giovanni Paolo II lo indicò nell’enciclica Fides et Ratio come esempio di pensatore e nel 2007 si giunse alla Beatificazione di un filosofo e teologo cattolico, fedele alla tradizione e nel contempo coraggioso innovatore, quasi a precorrere il progresso della cultura cattolica promosso dal Concilio Vaticano II.
La Chiesa ha oggi la magnanimità di proclamare santi persone che non sono esenti, seppur involontariamente, dai limiti della condizione terrena: “Si iniquitates observaveris, Domine, Domine, quis sustinebit? Quia apud Te misericordia est et magna apud Eum redemptio” (Sal 129,3-4).
[1] Da Avvenire del 28.VII.2006.
[2] Cit. da Davide Spanio, Idealismo e metafisica. Coscienza, realtà e divenire nell’attualismo gentiliano, con prefazione di Emanuele Severino,, Ed.Il Poligrafo, Padova 2003, p.107.
[3] Uno studioso che si sforza, ma senza successo, di dimostrare che l’innatismo tomista è come quello rosminiano, è Franco Percivale, Da Tommaso a Rosmini. Indagine sull’innatismo con l‘ausilio dell’esplorazione elettronica dei testi, Edizioni Marsilio, Venezia, 2003.
[4] Benedetto XVI ci ha recentemente ricordato l’importanza di queste due categorie metafisiche dell’analogia e della partecipazione nel Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze lo scorso 8 novembre:
[5] Lo Spanio, op. cit., discute con intelligenza questi tentativi del Gentile.