CARLA E IL FEMMINISMO – di Carla D’Agostino Ungaretti

di Carla D’Agostino Ungaretti

 

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La vostra amica Carla, cattolica “bambina”, si è formata tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, vale a dire in un periodo di grandi turbolenze sociali, politiche e morali, in cui l’ideologia libertaria ebbe il sopravvento sui costumi e sul modo di concepire la vita quotidiana. Alcuni, come Mario Capanna – leader del movimento studentesco a Milano in quel periodo – hanno gridato “formidabili quegli anni!”, mentre altri non possono che ritenere quel periodo la causa di tutte le derive che successivamente si sono verificate, perché hanno visto con occhi non appannati dall’ideologia le conseguenze di quell’ubriacatura collettiva consumata (e non ancora smaltita) al grido di alcuni slogan tipo “Vietato vietare, La fantasia al potere, L’utero è mio e lo gestisco io, Il privato è politico”. Naturalmente i differenti giudizi dipendono dalla Weltanschaung alla quale si uniforma la propria vita ed è inutile ribadire che la visione del mondo della vostra amica era ed è tuttora quella cristiana.

E’ del pari inutile negare che la vostra amica Carla – cresciuta nell’ambiente ultra borghese e conservatore romano degli anni ’50/’60 e allevata come usava allora per una signorina di buona famiglia, che deve sempre comportarsi “comme il faut” – inizialmente provò un certo interesse per quell’atmosfera di ribellione che sentiva intorno a sé, ma l’infatuazione cessò presto e da incendiaria, quale credeva di essere, si ritrovò pompiera. Infatti, partecipando un giorno a un collettivo femminista universitario, capì che tutte quelle vocianti e sguaiate ragazze che si strappavano di dosso i reggiseni agitandoli al vento e vestivano di stracci multicolori, erano solo smaniose di raccontare le loro esperienze sessuali, ritenute il coronamento delle loro “conquiste” femminili, consumate (a detta loro) sia con uomini che con donne, risultando queste ultime addirittura più soddisfacenti. <> si domandò Carla, allevata nel culto della riservatezza e del buon gusto <>>. Fortunatamente l’educazione ultra borghese ricevuta in famiglia qualche risultato lo aveva ottenuto, dato che le era rimasta una certa dose di buon senso. Più tardi, però, ella capì che il femminismo era un problema complesso che non si esauriva certo nelle sciocchezze che aveva visto e sentito – anche se poteva intuire che esso avrebbe favorito quelle anomalie di cui l’umanità sta ancora scontando le conseguenze – perciò cercò di documentarsi per saperne di più dato che, in materia di rivoluzioni femminili, fino a quel momento ella aveva sentito parlare solo di quella di Lisistrata[1].

Le prime femministe, a fine ‘800, ritenevano che la donna, proprio per la sua diversità dall’uomo e per la sua disponibilità a donare senza contropartita (connaturata alla maternità) avrebbe portato nella sfera pubblica una moralità superiore e avrebbe migliorato la società. Dopo la prima guerra mondiale si diffuse l’idea che l’emancipazione femminile sarebbe stata possibile solo se le donne fossero diventate uguali agli uomini. Poiché la più vistosa differenza tra l’uomo e la donna è la capacità di procreare, le donne cominciarono a evitare la gravidanza. “Ma come può una donna, che non abbia la precisa vocazione alla castità e alla vita consacrata, rifiutare per principio di avere figli?” si domandava la vostra amica. La seconda guerra mondiale, tragedia che fece toccare con mano l’assurdità di certe ideologie, frenò un po’ questa tendenza e gli anni ’50 del ‘900 videro un baby boom, presto anch’esso offuscato dai progressi dell’industria civile e del settore bellico che ridussero drasticamente la richiesta di forza lavoro e di soldati. Perciò le nuove (presunte) esigenze sociali finirono per favorire l’emancipazione femminile attraverso l’uguaglianza con gli uomini: le donne furono accolte nel mondo maschile, ma a patto che rinunciassero alla maternità a ciò indotte, negli anni ’60, anche dall’invenzione della pillola anticoncezionale che consentiva loro, come gli uomini, di avere una vita sessuale indipendente dalla maternità. In occidente molte donne plaudirono entusiaste a questa novità convinte in tal modo di raggiungere finalmente il potere.

Ma si è davvero riusciti a realizzare una forma di potere di stampo esclusivamente femminile capace di migliorare l’umanità? A questo punto è necessario aprire una parentesi. Secondo Jacob Burckhardt <<il potere è male in sé>>[2], ma la vostra amica – da cattolica “bambina” e con tutto il rispetto dovuto al grande storico svizzero di formazione protestante, che pure conosceva bene le grandi tragedie della storia umana – si permette di dissentire: il potere in sé (come il denaro, come nel nostro tempo la tecnologia) non è né buono né cattivo. Tutto dipende dall’uso che ne fanno gli esseri umani. Esso non sarà mai un male, se usato dal suo detentore in spirito di servizio ed esclusivamente allo scopo di realizzare il bene comune – o, diciamo, l’interesse collettivo, se quell’espressione dovesse suonare troppo confessionale alle orecchie di qualcuno. Non così – e sarà certamente un male – se invece serve soltanto ad appagare l’ambizione individuale di chi lo ha raggiunto, ed esempi di questo tipo nella storia ne abbiamo a migliaia.

Chiusa questa parentesi, dobbiamo riconoscere che un secolo di femminismo non è ancora riuscito a individuare una forma di potere di natura esclusivamente femminile. Anche se molte donne del nostro tempo sono capi di Stato, ministri e primi ministri, vertici di importanti industrie, lo sono diventate imitando necessariamente gli uomini, dal momento che per millenni esse non hanno avuto altri paradigmi cui rifarsi.

Prendiamo alcuni esempi tratti dalla storia d’Inghilterra, paese che è stato spesso all’avanguardia nel costume. La regina Elisabetta I, giunta al trono nel 1558 dopo aver visto esempi tremendi di gestione del potere – sua madre fatta decapitare dal re Enrico VIII suo padre per adulterio, lei stessa dichiarata bastarda e a un passo dal seguirne la sorte per volontà della sua sorellastra “Bloody Mary” – fu spietata con i nemici e rinunciò a sposarsi per non rimanere intrappolata nello schema di moglie e madre in cui sarebbe necessariamente finita. Si dichiarava “sposata all’Inghilterra“.

Al contrario, 300 anni dopo la regina Vittoria si sposò e diventò madre di molti figli, per amore dei quali e per dare al suo popolo un edificante esempio di unione familiare, lasciò praticamente il potere nelle mani dei suoi primi ministri (tra i quali Gladstone e Disraeli) fiera di essere chiamata “la nonna d’Europa“, anche se questo affettuoso titolo non impedì a suo figlio e al figlio di sua figlia (zio e nipote) di scatenare la prima guerra mondiale per la supremazia sul continente. Entrambe le regine, amate e rispettate dal popolo inglese, dettero un’impronta al loro periodo storico, ma c’è da domandarsi se le vette di potenza e di prosperità raggiunte dalla Gran Bretagna sotto i loro regni non si dovettero piuttosto allo stile “mascolino” di gestione del potere attuato da Elisabetta e alla capacità dei primi ministri di Vittoria che, guarda caso, erano e non potevano essere altro che uomini.

Nel ‘900, un’altra famosa donna inglese, Margaret Thatcher – prima donna premier nella storia d’Inghilterra – fu chiamata “Iron Lady” e di lei si ricorda soprattutto la determinazione (davvero ferrea) con la quale, negli anni ’80, piegò al suo volere i sindacati contrari alla sua politica e non esitò a scatenare la guerra contro l’Argentina per la pura questione di principio del mantenimento delle isole Falkland, rivendicate dalla repubblica sudamericana, esponendo alla morte i soldati inglesi per pochi fazzoletti di terra nell’oceano Atlantico meridionale che, oltretutto, si trovano quasi agli antipodi della Gran Bretagna, ma a pochi chilometri dall’Argentina. Più “maschile” di così!

Infatti il potere cerca il potere e, quando deve farsi da parte, cerca il successore che più gli somiglia per temperamento, carattere, personalità, visione del mondo e questo si è sempre verificato quando gli uomini hanno dovuto cederlo a una donna. Gesù, condotto davanti a Pilato, rispose al procuratore che si vantava di avere il potere di liberarlo o di crocifiggerlo: <<Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande>> . E infatti Pilato, che aveva ricevuto il potere da Cesare, fu terrorizzato all’idea che il popolo lo accusasse di non essere amico dell’Imperatore, alla volontà del quale doveva e voleva conformarsi in toto, e agì come tutti sappiamo (Gv 19, 8 ss).

E’ innegabile che, quando ha cominciato a godere dell’indipendenza economica, il secondo sesso – come lo ha chiamato Simone de Beauvoir   che, insieme a Virginia Woolf, ha in un certo senso anticipato l’assurda teoria del gender[3] ha potuto liberarsi dalla sottomissione costante al predominio maschile spesso tirannico, ma è triste riconoscere che allora la famiglia, non più imperniata sul predominio del marito – padrone, avrebbe dovuto dare vita a un tipo di relazione affettiva tra uomo e donna di diversa qualità per la realizzazione del bene comune della famiglia, vale a dire più collaborativo e paritario, il che purtroppo non è avvenuto. Ha prevalso piuttosto l’idea della realizzazione individuale di ciascuno dei due coniugi che inevitabilmente urta contro la necessità di subordinare l’interesse individuale al benessere comune della famiglia. Molti uomini, infatti, non sono ancora riusciti ad accettare la perdita della loro millenaria supremazia familiare e sociale e molti tristi fatti di cronaca di questi ultimi tempi sono lì a dimostrarlo. Secondo Dacia Maraini la spiegazione di tanti delitti commessi negli ultimi tempi da mariti, fidanzati, compagni ai danni delle loro donne dipende dal modo in cui la cultura di massa tratta ancora il sesso femminile, ritenuto nell’inconscio maschile ancora oggetto di proprietà dell’uomo e dall’incapacità dei nostri tempi a insegnare ai bambini il rispetto per l’altro. L’amore inteso come possesso, contestato dal pensiero autonomo della donna, può mettere in crisi l’identità dell’amante che vede traballare le sue ataviche certezze e, per paura, si trasforma in un mostro[4].

A giudizio della vostra amica le cosiddette innegabili (e giuste) conquiste femminile, verificatesi negli ultimi 40/50 anni, sono avvenute in un lasso di tempo che nella storia umana corrisponde a un batter di ciglia, mentre il concetto della supremazia familiare e sociale dell’uomo è inscritto nel DNA maschile da millenni e non può modificarsi altrettanto rapidamente. Soprattutto l’indipendenza sessuale rivendicata oggi dalle donne è ancora difficilmente accettabile da parte delle menti maschili  meno raffinate ed evolute, come rivelano i casi di stupro frequentemente riportati dalle cronache. Si direbbe che lo slogan vigente una volta in materia di rapporti tra i sessi: gli uomini hanno il diritto di chiedere e le donne hanno il dovere di rifiutare, si sia capovolto in un altro: le donne hanno il diritto di provocare e gli uomini hanno il dovere di resistere. Ma guai a fare dichiarazioni di questo genere in un salotto o in TV! Si verrebbe immediatamente accusati di vetero – maschilismo politicamente scorretto, mentre invece si vorrebbe semplicemente richiamare le donne a comportanti più saggi, meno spregiudicati e, soprattutto, meno imitativi di quelli maschili.

C’è chi ha detto che le donne sono incapaci di creare tra di loro gruppi e alleanze idonei a garantire loro il raggiungimento e la gestione del potere[5]. Può darsi che sia vero. Dopotutto, anche se in tutti i paesi democratici a suffragio universale il numero delle elettrici supera abbondantemente quello degli elettori, è stato riscontrato che poche donne votano per le altre donne, vanificando la speranza di far raggiungere loro il potere. In alcuni paesi, poi, come la civilissima e democraticissima Svizzera, il voto alle donne è stato concesso addirittura nel 1971 (prima a cosa pensavano le donne svizzere?…) e appena cento anni fa le suffragette inglesi che reclamavano il voto femminile erano considerate dalla maggior parte delle altre donne come ricche eccentriche che non avevano altro cui pensare. Nell’Italia dei nostri giorni il numero delle donne in politica è irrisorio rispetto al numero degli uomini, tanto che per forzare la situazione  sono state inventate le ridicole “quote rosa”, come se il sesso femminile fosse una specie in via di estinzione bisognosa di tutela.

Come si spiega questo fenomeno? Secondo la vostra amica Carla ha ragione (paradossalmente) un uomo, Vittorio Messori: il vero potere cui aspirano, più o meno consapevolmente, le vere donne non è quello mutuato dallo stile dell’uomo, i cui esiti (buoni e cattivi) conosciamo da millenni, ma quello (ancora tutto da definire) che nasce dall’amore, dagli affetti, dalla confidenza, dalla sincerità, dalla curiosità, dall’apertura alla vita e alla cura di essa, dalla pace con se stessa e con gli altri[6]. Sono tutti valori estranei alla lotta politica condotta alla maniera degli uomini e forse dovremo aspettare ancora qualche generazione prima di vederli attuati, ma vale la pena di lottare per essi fin da subito, educando ad essi tutte le bambine, donne di domani.

Ci sarebbe ancora molto da dire sul femminismo, soprattutto sotto la visuale cristiana, che (inutile dirlo) è quella che maggiormente intriga la vostra amica cattolica “bambina”; ma ella teme di annoiare i quattro lettori che le fanno l’onore di leggere le sue riflessioni e allora – se RISCOSSA CRISTIANA sarà d’accordo – parlerà del femminismo cattolico un’altra volta.





[1] La vostra amica Carla ricorda di aver visto, nei primi anni ’60 al teatro Sistina di Roma,  una divertente commedia musicale intitolata “Un trapezio per Lisistrata” – con la soubrette Delia Scala, famosissima in quegli anni – che rifaceva il verso alla Lisistrata di Aristofane, la moglie che sobillava le altre mogli allo sciopero coniugale contro i mariti poco solleciti a soddisfare sessualmente le loro mogli perché troppo impegnati nelle guerre. Il movimento femminista si servì di quella commedia antica per i propri fini propagandistici, ma non aveva capito che l’ottica nella quale era stata scritta non era affatto femminista, né avrebbe potuto esserlo. La vittoria del sesso femminile in questa commedia, come nell’altra commedia “femminista” di Aristofane,” Ecclesiazouse” (in cui le donne arrivano al governo) vuole solo rappresentare la decadenza che Atene stava attraversando nel V secolo a. C. , dalla quale sarebbe riemersa solo con la restaurazione del predominio maschile.

[2] Cfr. Osservazioni sulla storia universale, Sansoni 1960

[3] Cfr. Il secondo sesso, Milano 1988, pag. 325: “Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico,psichico, economico, definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna”.

[4] Cfr. L’eccidio delle donne che lascia indifferenti, Corriere della Sera, 8.5.2012, pag. 51.

[5] Cfr. Corriere della Sera, 4.4.2012.

[6] Cfr. Corriere della Sera 7.4.2012.

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