CARLA E L’ANTICO TESTAMENTO – di Carla D’Agostino Ungaretti

di Carla D’Agostino Ungaretti

 

Recentemente i molti amici laicisti di Carla, cattolica “bambina”, si sono divertiti un mondo a provocare “la loro cara suorina” – che, come tutti sanno, si sente figlia della Chiesa senza se e senza ma, oltre che conservatrice delle buone tradizioni – su argomenti ed eventi storici di cui, a loro giudizio, la fede ebraico – cristiano dovrebbe vergognarsi e che dovrebbero indurla a ritenersi un fatto privato da coltivarsi solo nel segreto delle coscienze individuali e nei confessionali. Purtroppo questa opinione è condivisa anche da molti cattolici “adulti” che, pur frequentando la Chiesa e accostandosi ai Sacramenti, provano imbarazzo quando vengono messi di fronte a certe argomentazioni e non sanno che cosa rispondere.

gericoPer esempio, molti provano disagio di fronte all’immagine di Dio che viene offerta nell’Antico Testamento: un Dio crudele e spesso spietato che sembra non avere niente di diverso dagli altri dei che popolavano il cielo dei pagani. Come si può onorare oggi un simile Dio? Come si può pensare che quel Dio sia lo stesso Dio di Gesù Cristo? Le citazioni possono essere innumerevoli. La prima che viene in mente alla vostra amica è: Il Signore disse a Mosè: Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento (Nm 15, 32 – 36). Il poveretto era stato arrestato e condotto davanti a Mosè e ad Aronne perché sorpreso a raccogliere legna nel giorno di sabato. Meritava una simile sorte per essersi voluto scaldare un po’?

Allora Carla, che non è certo un’esperta di esegesi biblica, ma si sente custode delle “buone tradizioni” e ha sempre davanti agli occhi il Vangelo, si è sentita sfidata a rendere ragione della speranza che è in lei (1Pt 3, 15) e ha provato a rispondere, confidando nel proprio buon senso e soprattutto nella raccomandazione di Gesù “non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non sarete voi a parlare ma è lo spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10, 19 – 20) che le avrebbe sicuramente impedito di incappare in inesattezze.

E’ vero che il Dio dell’Antico Testamento aiutava gli Ebrei a massacrare i loro nemici; è vero che la conquista della Terra Promessa può sembrare agli occhi dei nostri contemporanei una guerra imperialistica di espansione territoriale ai danni di chi viveva tranquillo in casa sua; ma se siamo intellettualmente onesti ed evitiamo di giudicare gli eventi avvenuti più di tremila anni fa col metro del XXI secolo, dobbiamo riconoscere anzitutto che la Bibbia non è un libro di morale con intenti organici e sistematici nel suo insegnamento, ma la narrazione e la proclamazione dell’amore salvifico di Dio. Certamente alcuni episodi possono scandalizzare anche oggi, come quello del sacrificio della figlia di Jefte, giudice di Israele (Gdc 11, 30), che ha sempre colpito la vostra amica perché rivela una sorprendente analogia col mito greco di Idomeneo, re di Creta, rivelando un notevole parallelismo nell’evoluzione della civiltà e della cultura di popoli tanto diversi.

Infatti entrambi i personaggi avevano fatto voto – il primo a Jahwè, il secondo a Poseidone – di sacrificare alla Divinità la prima persona che fosse andata loro incontro se fossero tornati vincitori, il primo dalla guerra contro gli Ammoniti, il secondo dalla guerra di Troia. Per colmo di sventura queste prime persone furono – non schiavi, come forse i due avevano sperato, dato che a quei tempi non si attribuiva molta importanza alla vita dei servi – ma la figlia del primo e il figlio del secondo, che furono perciò sacrificati senza troppi ripensamenti.

E’ evidente, in questo racconto, che il narratore biblico non intende approvare il comportamento di Jefte, ma insegnare con forza la sacralità assoluta del giuramento come, nell’episodio del povero raccoglitore di legna, vuole inculcare nel popolo l’importanza della legalità, principio che Dio sa quanto sarebbe necessario inculcare nel nostro popolo anche oggi.

<< Allora>> obiettarono gli amici << come mai il narratore non si pone il problema della liceità di certi giuramenti? Perché non è male uccidere a tradimento il re di Moab (Gdc 3, 12 -20)? Perché si deve combattere contro i propri fratelli per punire un crimine (Gdc 20, 23 – 28)?>>

Gli episodi che generano sconcerto sono innumerevoli e sicuramente il problema più grave è quello dell’esaltazione dello sterminio totale delle città vicine a Israele (Dt 20, oggi si parlerebbe di genocidio). E’ indubbio che l’autore deuteronomista si rivela alquanto immaturo e grossolano nel proclamare il principio storico – salvifico perché, da uomo del suo tempo, risente della mentalità e della cultura dei popoli che lo circondano. Egli assolutizza certi valori, come l’elezione divina del popolo o la promessa della terra, fino al punto da farli sembrare incompatibili con altri valori che, del resto egli stesso conosce bene. Sarà compito dei Profeti imprimere una forte sterzata a questa arcaica mentalità incanalando il popolo nei binari tracciati da Dio.

In tutto l’Antico Testamento traspare quindi, come in filigrana, che la Rivelazione del Dio unico si inserisce in un progetto di salvezza attuatosi progressivamente e di cui il popolo di Israele diviene consapevole a poco a poco. Dio “si compromette” con l’uomo, cammina con lui, lo rimprovera e lo loda, si adira e si placa, a volte addirittura combatte con lui contro i nemici. La stessa espressione “Dio degli eserciti”, ancora usata nella liturgia cattolica fino a pochi anni fa, che tanto ha scandalizzato le anime belle di certi moderni pacifisti(1), non è altro che un’espressione semitica, comune anche alle lingue dei popoli cananei, che vuole esprimere un superlativo assoluto (il più potente) o relativo (potentissimo). Infatti, che cosa poteva denotare, in quel mondo e in quei secoli, la potenza di un grande Re se non il fatto che egli potesse disporre di un esercito ben addestrato ed equipaggiato?

Siamo quindi di fronte a una continua e graduale incarnazione della Parola di Dio, in un antropomorfismo giustificato dalla denominazione di Se stesso che Dio rivela a Mosè (“Io sono colui che sono” Es. 3,14) e finalizzato a favorire la sua percezione da parte dell’uomo, ma – a differenza delle religioni pagane – sempre nell’assoluta libertà dell’uomo stesso di accettarlo o di rifiutarlo e nella costante tensione verso la pienezza della Rivelazione che si verificherà con l’avvento del Cristo previsto dai Profeti.

Infatti, sempre per favorire la sua percezione da parte di Abramo, Dio si serve di un’atroce usanza dei popoli cananei, che Abramo evidentemente conosceva bene – quella di sacrificare alla divinità il figlio primogenito – e gli chiede di sacrificargli Isacco (Gen 22). E’ noto che nella visione degli antichi Patriarchi la speranza di salvezza si ricollegava a una lunga discendenza in modo da avere un’immortalità nel ricordo di coloro che sarebbero nati dopo di loro, perciò possiamo facilmente capire cosa deve aver provato Abramo nel percepire dentro di sé che Dio gli chiedeva di uccidere il suo amato unico figlio. Eppure egli, nella sua totale libertà, decide di fidarsi di Lui ed accetta. L’atto del sacrificio viene però fermato dall’angelo e il patriarca, dopo la prova, riceve la nuova promessa: “Nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra, in premio dell’aver obbedito alla mia voce”, a dimostrazione che la libera scelta dell’uomo di abbandonarsi totalmente alla volontà di Dio non si ritorce mai a suo danno.

Quindi nell’Antico Testamento il popolo di Israele non risulta migliore né peggiore degli altri popoli e nella vita quotidiana si comporta esattamente come loro: ama, odia, fa del bene, fa del male, si rende anche responsabile di delitti(2), ma ha qualcosa che gli altri popoli non hanno: la speranza in un Dio Salvatore che non lo abbandona al suo destino, malgrado l’irruzione del peccato nel mondo, perché ha stipulato un patto con lui, un’alleanza indefettibile alla quale Dio non viene mai meno. La fede nel Dio d’Israele è fiducia nella sua fedeltà.

Carla non si illude affatto di aver convinto i suoi amici con la sua chiacchierata e del resto chi è lei, peccatrice come tutti, per riuscire a smuovere la duritia cordis dei laicisti incalliti? Solo Dio può trasformare i cuori di pietra in cuori di carne e a lei basta aver offerto una testimonianza di fede, al resto penserà il Signore, se vorrà. Però (ha notato) gli amici non hanno più replicato al suo discorso, anche se più tardi sono tornati alla carica prendendosela stavolta con i Papi e con le “malefatte” storiche della Chiesa cattolica.

Ma de hoc satis. Se RISCOSSA CRISTIANA glielo consentirà, la vostra amica parlerà di questo un’altra volta.

 

 

NOTE

1) …i quali – osserva la vostra amica che, pur essendo di carattere pacifico e mite, in questo caso non resiste alla tentazione di lanciare una frecciatina polemica – invocano tanto la pace, sventolando le loro bandiere arcobaleno,dicendo che non è lecito uccidere i nemici, ma poi sono i primi a sostenere l’aborto e l’eutanasia, come se questi non fossero omicidi…

2) Pensiamo a Davide, re di Giuda, che per avere tutta per sé l’amata Betsabea non esitò a favorire surrettiziamente la morte in battaglia del marito di lei, Uria l’Hittita (2Sam 11). Sarà il profeta Natan a far prendere a Davide coscienza del suo delitto. Dal suo pentimento scaturì il meraviglioso Salmo 51, il Miserere.

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