di Piero Nicola
.
L’attività di questo autore cattolico (1901-1981) può spartirsi tra i lavori di soggetto storico- politico (intorno alla revisione del Risorgimento) e quelli di carattere religioso.
Nel 1947, Mondadori fornì le vetrine e gli scaffali delle librerie de Il mago deluso, tuttora presente in oltre quaranta biblioteche sparse nella Penisola. Il romanzo è un gioiello per gli appassionati dello scrivere eccellente; ma noi, che non siamo adoratori dell’arte, oltrepassiamo l’estetica, per quanto essa contribuisca all’esposizione dei casi umani.
Massimo, professore universitario romano, lascia la Città eterna e inquieta, per trasferirsi a C… (la lettera C adombra l’innominata Camerino) e occuparvi la cattedra di embriologia e istologia, confidando di dedicarsi in pace a studi e esperimenti, di trovare se stesso e preparare il suo avvenire accademico. Durante il viaggio, una nevicata lo costringe a una sosta in un alberghetto. Vi fa la conoscenza di Concita, vedova appariscente e sdegnosa, e di una sorta di Michelaccio: Angiolino Bellomo, rozzo omaccione, che solo più tardi si rivela essere il marito della bella disinvolta, la quale sembra si diverta a provocare il giovane studioso. Apprendendo che egli è professore destinato nella stessa città dove anche i coniugi risiedono, la signora risolve il suo sconcerto in una risata beffarda e piuttosto grossolana, male interpretata. Massimo non ne viene interamente smontato, ma sfuma l’avventura da lui attesa. Sebbene la scienza non spieghi l’attrazione particolare e le conseguenti schermaglie tra i sessi, egli riduce il tutto alla psicologia del positivismo in cui si è formato.
Il bidello della sua facoltà e del laboratorio lo conduce ad accettare una camera ammobiliata dall’ingresso indipendente, sita nell’alloggio di una famigliola composta da vecchia madre, figlia compenetrata della sua devozione, e figlio gobbo e grasso, organista del duomo e invasato negromante. La cittadina è piccola, un collega lo informa delle nomee e dei pettegolezzi. Per via di due studenti che pranzavano alla locanda della sosta forzata, già corre voce dei suoi approcci con la signora Bellomo, donna pericolosa ma saggia, padrona insieme a suo marito della rocca sulle mura, contenente la loro abitazione e quella dei pigionanti che subaffittano al professore. Sono una coppia malvista, asociale. Lui, un comunistoide scriteriato; lei ex attrice di varietà, onesta ma superba. Pare che si siano sposati per far dispetto ai benpensanti.
Nel laboratorio assai sguarnito, la stanza della sua assistente Letizia, desiderabile e solerte, è la più rifornita di apparecchiature. Le frizioni fra loro si alimentano d’un interesse di reciproca attrattiva, sentimentale da parte della ragazza, sebbene ella sia fidanzata. Alla mensa dei docenti egli apprende che la sua anziana padrona di casa ha fama di veggente, predisse la morte del fidanzato di sua figlia Agnese, inviso alla signora, e suo figlio Venanzio è mago e spiritista.
Il sor Angiolino gli offre l’amicizia, da uomo di larghe vedute, incurante delle mormorazioni. Agnese, la cui bellezza è eterea, come disincarnata da un candore vergineo, deplora quella lungimiranza. Il deforme Venanzio, conosciuto fortuitamente da Massimo lungo i bastioni arcigni, nell’oscurità di un pomeriggio invernale, lo introduce nell’alloggio dei coniugi. L’ospite è invitato a partecipare a una “funzione magica”, durante la quale Concita, deposta la sostenutezza, confida al nuovo venuto d’aver bisogno di pace, e per questo conta su di lui posato e benevolo. Invocata la Sibilla, le foglie disposte sulla tavola si spostano: dalle posizioni assunte, Venanzio ricaverà i numeri da giocare al lotto. La vincita dovrebbe servire per aiutare un poveraccio. Dalla misera seduta, in cui Massimo, distante e seccato, subodora il trucco, prende l’avvio una fosca e tragica sequela, dall’esito tuttavia per alcuni insperato e fausto.
Qualche sera dopo, Massimo trova sullo scrittoio una di quelle foglie, incisa da disegni cabalistici. In cucina, dove va a bruciarla nel camino, Agnese sorge dal buio e conferma che bisogna bruciare l’oggetto proveniente dalla seduta spiritica. Suo fratello, in effetti, è un adoratore del demonio. La raccomandazione di pregare per la salute dell’anima cade nel vuoto del positivista, che compatisce il rito a sua volta attuato dalla giovane, con sale, acqua benedetta e segno di croce sulla foglia da incenerire sui carboni ancora accesi. Ma un lamento sonoro e lontano fa trasalire lo scettico. Tornato nella sua camera, vi entra Concita angosciata. Perché ha bruciato la foglia? chiede, e alitando forte, spegne la candela. All’improvviso ella è come svanita nell’oscurità, non appena egli ha tentato di abbracciarla.
Per avere spiegazioni e applicarvi la sua razionalità, egli va a trovare marito e moglie. C’è Venanzio che intrattiene Angiolino sulla declamazione di epici versi, che egli si accinge ad accompagnare con la chitarra. In disparte, Massimo chiede conto a Concita della sua comparsa e scomparsa notturna accanto a lui, e della foglia sulla sua scrivania. Ella ha sognato quello che egli dice di aver vissuto.
Lo svelamento del mistero è rimandato a un convegno che si sono dati nel cortile. La donna vi si affaccia a una finestra protetta da inferriata, per il disappunto dell’innamorato. Non lo persuade la richiesta di puri sentimenti, non placa la sua impazienza. Concita è alla disperazione: in sogno fu strappata dal letto e le fu strappato il cuore; lo vide avulso, palpitante, tramutato in foglia. Egli lo prese, lo gettò sulle braci, e fu lei a urlare. Dunque Massimo è amato, ma Concita rifiuta di amare come lui desidera; non sarà sua. Egli vuole il peggio del bene che lei gli vuole. Gli spiega di essersi rinnovata: non più la passionale e sensuale che fu. E pregò, quando sentì di avere un’anima, un’anima che non deve morire.
Massimo non la crede sincera, ricorda le ritrosie femminili intese a provare gli amanti, le civetterie per rendersi preziose, per far soffrire. Lei si ritira, sorda e sconsolata dietro gli scuri.
Successivamente, sfaccendando attorno al letto d’una sua dubbia malattia, Agnese lo sprona ad alzarsi, discorre della necessità per lui di ricorrere a Dio; e càpita Concita col volto geloso, e nella scoppiata disputa femminile, alla ragazza occorre dire d’aver visto la donna in quella camera, dove portò la foglia incriminata. L’incolpata nega, reagisce contro la malevolenza che la perseguita. Massimo ha inteso che sta mentendo. E poiché Agnese è uscita rispondendo al richiamo di sua madre, si rinnovano i malintesi dello spasimante, avido d’una confessione d’amore sincero da parte dell’angosciata incompresa, che aborre di ricadere nel disgusto delle relazioni di cui è infesto il suo passato.
Il terno giocato al lotto non è uscito. C’è stato un banale errore di interpretazione. Incaricato da Angiolino, che va a caccia, Massimo reca un avviso a sua moglie. Ella stava assistendo Venanzio nel compimento d’una fattura, e gli viene incontro. Alla richiesta di spiegazioni sull’intravisto fantoccio di cera su cui il mago sta operando, Concita appare sconvolta, piange. Massimo si sente escluso, amareggiato. Va a chiedere lumi ad Agnese.
Il rito del fantoccio è un assassinio, non bisogna prenderlo alla leggera, non è assurdo considerarlo tale. La probabile vittima sarà il marito. Ella affronterà suo fratello; lei potrebbe dannarsi se non cercasse di indurlo a redimersi. Nemmeno il professore deve esimersi dal collaborare per la salvezza di un’anima. Agnese ha provato che significhi essere la rovina d’un’anima quando, nell’orto col suo amoroso, dettero esca al reciproco desiderio. Se non fece in tempo a pentirsi, sarà bastata l’intenzione peccaminosa, cui ella contribuì, per perdere il ragazzo, che morì ferito da uno sparo del suo fucile da caccia, essendo scattato il grilletto mentre scavalcava una staccionata per sfuggire in fretta all’affacciasi di quella madre contraria e vaticinante.
“Perché lei non consente a vedere le cose come l’intendono gli altri?” egli discute.
“Perché non posso: perché io credo, ma io credo davvero, ecco. Credo tutto della mia fede”.
E la suprema bontà divina?
“‘È forse mia questa bontà’ gridò Agnese. ‘È uguale a me? Posso intenderla io? […] Se l’Angiolino muore’ disse l’Agnese lenta lenta ‘a chi hanno nociuto le paroline d’amore? Se il mio fidanzato è morto, dimentico di Dio, separato da Dio, ribelle a lui, a chi avrà fatto male quella colpa leggera, che voi dite persino una cosa gentile?’”
Al pranzo cui Massimo è invitato per il suo compleanno, la madre squaderna le situazioni e i propri giudizi. Allude all’intesa che intercorre tra Massimo e la maliarda. Sua figlia merita un buon matrimonio e sarebbe ora che smettesse i suoi modi di monachella. Venanzio è stregato dalla maliarda. Sorge il diverbio con lui, e sfocia in un vaneggiamento della vecchia, che vede il funerale di Concita e un’invasione di topi. I due uomini si ritirano nel folle laboratorio dei sortilegi.
Secondo il mago, sua madre prevede giustamente il pericolo. Egli non uccide nessuno con il fantoccio, ha ubbidito a un anelito insopprimibile di Concita, che ama disperatamente. Il suo progetto è un altro. Possiede la chiave magica dell’alchimia. Sa impadronirsi della potenza dello Spiritus Mundi, il principio di ogni cosa e di ogni trasformazione. Vagheggia addirittura di produrre la redenzione del genere umano. Per tale Grande Opera gli occorrono due forze sublimi che formino un’unità: una donna piena d’amore, Concita, ormai convinta di mantenersi pura, e un uomo che la ricambi, Massimo. E saranno la nuova Eva e il nuovo Adamo. Guai, però, se dovessero profanare l’unione con qualche contatto. Per questo, il mago aspirante demiurgo rinuncia a ogni suo spasimare. Col pensiero e col rito, il grosso e flaccido gobbo giungerà al dominio della natura e d’ogni cosa sottile.
Massimo ha una morale propria, spregia quella convenuta, e non fa a meno di turbarsi per l’evenienza d’un commercio superstizioso che gli consegna l’amata tramite Venanzio, consenziente il marito, tuttavia ignaro del tradimento perpetrato ai suoi danni. Gli ripugna la complicità con un mondo losco e malsano, con una Concita maga e dal volere omicida.
Nel laboratorio dell’università, egli si impegola con Letizia, quasi che ella potesse sostituire l’altra, approfitta del tenero che l’assistente prova per lui. Sebbene le esitazioni del giovane la deludano rispetto allo scioglimento della promessa che la lega al fidanzato, egli non vuol distruggere la speranza di sentimenti maturati e risolutivi.
Venanzio lo incalza con i suoi propositi apocalittici, nei quali si offre l’amore di Concita. Il mago ha messo in moto una macchina tremenda, ha agganciato la Potenza universale, atta a restituire la natura alla sua origine. Ne deriverà la salvezza o resteranno spezzati tutti e tre, qualora non si tengano uniti. La psiche del professore partorisce l’assenso. Hanno avuto il sopravvento la gelosia, la scientifica curiosità; ha inutilmente meditato di aver pace con Letizia. E, in una viuzza a lato della cattedrale, si imbatte in Concita, che avrebbe continuato a tenerlo a distanza. La informa d’essersi messo a disposizione di Venanzio per il suo piano. Ella si lascia accompagnare in un cammino fuori porta, adirata, sconfortata che Massimo dubiti di lei, sospettata di anteporre l’alleanza col mago e di persistere nel suo gioco di ritrosia. Egli l’offende e non la capisce, volendola come tutti la vollero. Massimo confessa la sua passione di possederla intera e non ammette distinzione tra amore e amore. Il conflitto irreparabile spinge la donna sull’orlo di un burrone, e trascina lo spasimante che la trattiene. Finiscono a terra, dove si consuma la maschile vittoria. Vittoria cui entrambi vorranno prestare le sembianze della felicità, felicità di un dono e d’una conquista, quando invece li ha stretti un laccio carnale.
Il loro accompagnarsi si rende noto, perviene a Letizia, la cui tristezza si trasmette al professore.
Così, calati nel rito pomposo, fumoso, grottesco, gli amanti non sapranno trattenersi da un bacio assetato e da scambi di parole. Al termine, l’officiante, cui uno specchio ha fatto la spia, addita loro i fulmini dell’Entità offesa. Maledice l’Eva mancata. A causa sua, la celebrazione è fallita. Ella gli si rivolta contro, quantunque lo tema.
Sono da notare le analogie che contraffanno Dio con un Ente panteistico, la purezza cristiana con una castità di adulteri, l’ascesi con una pratica gnostica, il miracolo largito dall’Alto con prodigi luciferini. Non messe nere, non sacrifici cruenti, non oscenità, non invocazioni di satana, ma un satanismo più sottile, filosofico, fregiato di eresia.
Il mago raggiunge Angiolino di ritorno dalla caccia, nella stanza a lui riservata dove egli beve e usa smaltire le sbornie. Egli s’infuria apprendendo del bacio che ha tradito l’amore angelico, attirando una minaccia di morte infame. La sua libertà lo scioglie da propositi di vendetta; eppure non gli risparmia un tedio opprimente, sì che compiange sé stesso e la moglie, riafferrata in quel sonno agitato, da cui si era riavuta affrancandosi dalla precedente schiavitù.
Sono trascorse due settimane, gli amanti stanno levandosi dal giaciglio destinato a uno solo e passato nell’alveo d’una corrente che li trascina con loro scarsa cura della società circostante. Venanzio bussa, gira la maniglia della porta serrata. Chiama: topi a frotte penetrano nella casa. Concita ha una crisi di riso; vuol aprire e mostrarsi vestita. Si avanza sull’uscio aperto Angiolino, tenendo per la coda un ratto sanguinolento. Dopo dinieghi e nascondimenti, Concita vien fuori proterva, a viso aperto chiede spiegazioni, al cospetto della sora Giuditta accorsa con sua figlia. Il marito non ha nulla da ridire: liberi lui e la sua consorte.
I due che navigano in acque equivoche, riescono ad aver ragione delle proteste e dei sospetti della madre. Venanzio le chiede di consegnargli il burattino di cera sul quale è inciso il nome di Massimo e nel viso mostra un ghigno atroce. Concita ordinò il pupazzo per la morte del giovane. Messa alle strette, ella appare distrutta, e spiacevole a lui, che l’ama salda e battagliera. Il mago fu d’accordo per eliminare un essere fomentatore di istinti e ostacolo al bene universale. Tutti sono preda di superstizione, tranne Agnese che ha timore del diavolo. Ma la fedifraga compatita dal suo sposo, anziché odiare Massimo, avendo perduto la speranza di avere con lui una felicità cristallina che sentiva come la propria sola vita, si era convinta di poter disporre della vita dell’amato, in quel pupazzo da pugnalare, giunto il momento di morire con lui divenuto irrecuperabile. E il regno ultraterreno li avrebbe congiunti per sempre.
Angiolino perde la solita calma, come gli è capitato altra volta, sia soggiacendo in parte a ciò che i vicini si aspettano da lui, sia perché i suoi espedienti ideali sono insufficienti. E però, s’acqueta rispolverando il sofisma per il quale la sua donna dormiva, essendo tornata ad essere un po’ la vecchia donna.
Esasperata da Venanzio attaccato alle sue supposizioni catastrofiche, da Massimo che la perdona freddamente, ella dà scandalo dicendo di appartenergli, di essergli appartenuta affatto. Egli è sommerso dalla volgarità. Concita urla che lui non le vuole più bene. Intanto i topi sono tornati. Grida delle altre donne. Angiolino deve subito provvedere, e lei si lascia prendere per mano dal marito. “Ha sognato” egli dice, “sogna: un monte di sciocchezze!” Massimo, vergognoso davanti alla basita verecondia di Agnese, rimane a tu per tu col suo orribile pupazzo di cera. Stremato, si corica e s’addormenta.
Al mattino, Agnese lo sveglia: Concita muore. Sembrerebbe che abbia preso un veleno. Il medico diagnostica un morbo raro. La poveretta chiede il confessore, solo Angiolino è ammesso vicino a lei. Rientro nell’ordine: riconciliazione coniugale, sacramenti, Massimo trattenuto, ammonito dal prete in nome della salvezza d’un’anima pentita e da lasciare in pace, anche secondo la sua volontà.
Massimo, colmo di rivolta e di inquietudine, cerca Venanzio per chiedergli se ella ha voluto suicidarsi; lo accusa d’averla avvelenata. “Lei non capisce nulla”, risponde il mago, proprio allora intento a un rito di scongiuro per salvarla e salvare tutti, sebbene entrambi si siano resi immeritevoli. Un teschio di cavallo sospeso sul suo capo gli cadrà addosso quasi accoppandolo, durante quella specie di empio esorcismo. Ciononostante egli sarà in grado di suonare l’organo alle esequie di Concita, avendo accanto Massimo irresistibilmente trascinato dall’imponente cerimonia.
Se all’ordine della natura da lui pure investigato, corrispondesse un’intelligenza creatrice, come vuole il finalismo, tutto avrebbe sistemazione. Qui, l’autore gli mette in bocca che il finalismo a quel tempo godeva di un vasto credito. Il possente canto del Dies irae termina distendendosi in confidente invocazione a Gesù, giudice misericordioso, per la nostra salvezza nel giorno supremo. E la calma della speranza ultraterrena penetra come un balsamo nell’ateo, che ne fu lo spregiatore. Ciascun popolo della storia pose un aldilà, ebbe un culto dei defunti, e adesso saremmo più intelligenti ostinandoci sulla via della scienza materiale? Che senso ha la vita, senza la sua prosecuzione?
La mancanza della fede permane un intoppo. Se l’anima di lei sopravvive in cielo, egli non potrà salire lassù, non potrà raggiungerla. Sussiste un vuoto, un distacco derisorio tra lui e la morta. E riviene la ridda delle versioni intorno alla sua dipartita: per il medico fu la malattia; per Agnese ad ogni modo ella volle morire, e si sa che pregò per lui; per Venanzio la fine venne dall’aver sfidato le potenze occulte. Egli ha capito che Concita si sarebbe riscattata dai suoi trascorsi, da cui era perseguitata, ammalata, e crede fosse un povero divisamento di esistenza nuova: una fantasia, una romanticheria, una bugia.
Letizia, naturalista e credente, che è stata al funerale e prega per chi non gli è stato amico, mestamente dubita fosse bugia: forse alla fine ci sarebbe riuscita. Egli si sente responsabile. Si dà al lavoro senza convinzione. Agnese gli dice che non l’ha capita, forse non poteva, ma ora che non c’è più potrà farlo e avrà pace. Egli non ha colpa, con la sua cruda concretezza le ha aperto gli occhi su quell’impossibilità di realizzare un sogno che fosse davvero innocente. Non basta; Massimo è sempre arenato nei suoi pregiudizi.
Angiolino annuncia che Venanzio evocherà lo spirito della defunta e lei parlerà dall’oltretomba. Così, il responsabile deve venire a galla. Avendo accettato di partecipare alla seduta, Massimo, scrutando il ritratto alquanto mondano della sua perduta, collocato sul tavolo dell’evocazione, concepisce la di lei aspirazione orgogliosa a elevarsi con un raffinamento della sensualità nei rapporti amorosi: altro che spiritualismo! Non è poi tanto lontano dal vero, ma il vero non lo afferra. L’uomo dell’ombra oscura e densa di fumo graveolente, chiama la “particella di te”: dell’Ente fattore e signore. Dal posto vuoto del desco imbandito con pane e vino per l’offerta di ciascuno, a massimo giunge la voce conosciuta, adesso carezzevole. Di seguito, egli è raggelato da una risata isterica e spavalda, simile a quella della sera alla locanda avvolta dalla nevicata. Il bicchiere di Venanzio si spezza, il suo pane brucia con puzzo nauseabondo. Angiolino, posseduto da una furia che elimina la sua liberalità, ha riconosciuto il segnale con cui ella ha indicato il reo, e si getta sul mago che crolla sul pavimento. La ferita alla testa, già colpita dal cranio equino, riprende a sanguinare. Poi, l’assalitore considera che la morente aveva perdonato tutti loro, mentre il mago singhiozza prostrato.
L’indomani Agnese, messa al corrente del fatto, giudica che troppe circostanze escludono il caso e i trucchi presunti da Massimo. Ella crede al diavolo e farà un esorcismo nella casa. Quando egli vi rientra dall’università, assiste a uno sconvolgimento nella Torre, nello stanzone dei sortilegi. Angiolino, Agnese e il bidello, ebbri distruttori, rompono e bruciano suppellettili, carte e libri. Ancora in camicia da notte, Venanzio sopraggiunge e, costernato, riceve il colpo di grazia. A fatica, l’hanno disteso sulla reproba tavola. Il medico non può farci nulla. Il parroco, che il moribondo poco prima ha rifiutato, ascolta da lui soltanto frasi sconnesse in lingue morte orientali. Lo assolve sub condicione; ammette di non aver mai assistito a un così brutto trapasso.
Nel ritiro della sua stanza, il professore pensa all’esistenza libera e operosa che lo attende, non riuscendo però a scacciare un larvato senso di terrore. Proprio non sarà lui la terza vittima designata? Regge con le mani il fantoccio dal ghigno repellente, quando si presenta Angiolino. Egli ha paura, è tormentato dal sospetto d’aver causato la morte del negromante, non ricorda bene che intenzione avesse nel momento in cui lo aggredì. Lo distoglie lo sguardo caduto sul magico e caricaturale simulacro del suo interlocutore; ricorda Concita spaventata dall’idea che lui la facesse morire di disgusto, come infatti è accaduto, avendo egli insozzato l’amore di lei incompresa. Entrambi soffrirono molto per l’insensibilità dell’incredulo: indifferente bensì alla tragica predizione di Venanzio.
Massimo è sbigottito, sorpreso d’essere coinvolto nell’inconcepibile. L’altro dice che è privo di anima: adesso racchiusa nel petto del burattino, e ve la potrebbe uccidere. “Lo lasci stare!” egli si sorprende a intimargli. “Ma se non ci crede!” obietta l’omaccio. Se spacca il fantoccio e niente avviene, ha sbagliato lui; e l’amore disinteressato è una fola. Ma se lo scettico accusa il colpo, lui ha avuto ragione. – Viceversa la sua ragione non regge. L’amore platonico è colpevole offendendo il sacro vincolo matrimoniale, colpevole quand’anche il misfatto del diabolico rito vada esente da una palese punizione.
Lo sfidato ritorce la sfida porgendo un tagliacarte affilato, da cacciare nel petto dove hanno scritto il suo nome. Ma allorché Angiolino sta per trafiggere, Massimo gli si avventa contro. In quel punto, interviene Agnese a fermare l’energumeno, che avrebbe il sopravvento: gli imputa un animo perverso, una mano che originò l’agonia del fratello. L’uno, allora, recita il meaculpa, vuol essere denunciato. L’altra piange: Dio solo è giudice. Egli spiega come il professore e Venanzio avessero rovinato l’anima di Concita. Agnese risponde per suo fratello, e per questo gli domanda perdono. Il che non toglie la colpa maritale d’aver consentito l’intesa adulterina. Anche la scrupolosa si pente della propria ignavia, d’aver agito senza autentica carità. E il pentimento guadagna appieno l’animo dell’Angiolino.
Esseri in qualche modo idealisti, per una loro ansia di elevazione: Venanzio, Concita, lo stesso suo consorte: Massimo si trova arido, inferiore, escluso. Eppure ha rischiato molto per quel suo fantoccio. “Perdono”, “espiazione”, predica Agnese. “Sì!” grida il vedovo. Massimo è intimamente folgorato, incapace di ragionare. La ragazza lo sta fissando, ma nei suoi occhi c’è troppa limpidezza, troppa sapienza. E perché non prega, essendo stato risparmiato dal Signore misericordioso? Si unisca dunque al perdono, giacché un miracolo ha colpito tanto lui che l’Angiolino.
Tumulato Venanzio, Massimo cerca campagna e sole. Arriva alla balza sul torrente, dal cui orlo gli amanti stavano per precipitare e divennero amanti completamente. Come, di primavera avanzata, ogni lembo di terra sorride e il precipizio appare declivio praticabile! Ma nella bellezza da contemplare, scorre una lotta, un divorarsi per vivere, senza pietà. La bontà è sentimento esclusivo dell’uomo, che non è tutto natura, ma individuo morale. Non si trova nel fisico organico quel sentire, quella libertà. Il peccato riceve dimostrazione dal rimorso, dall’inquietudine. Non fu superstizione, né meccanica psicologica, il moto dell’essenza vera, dell’anima, che gli fece contrastare il braccio alzato a trafiggere il fantoccio. Il movente, anziché naturale, istintivo, proveniva dalla ragione sovrana, quantunque oscurata. Le passioni, i conati della spiritualità, mostrano l’anima del bene e del male. Concita anelò a una pulizia non raggiungibile in tal guisa. Angiolino la suppose nella libertà esagerata. Da giudicati mediocri e meschini, diventano eroi, che si sono sforzati di ubbidire alla Legge e hanno ricevuto il premio. La spuria libertà di Angiolino si è cangiata in violenza, sino al ravvedimento grazie ad Agnese. Pietà per Concita, redenta. Perdono! Ella lo raccomandò al Signore, ottenuta la purezza che prima aveva cercato invano.
A sera, colloquio con Agnese, la quale ritiene che nel suo opporsi a Angiolino uccisore, egli era conscio che non sarebbe morto, ma non voleva restare col dubbio che, sopravvivendo alla stilettata, l’anima, principio vitale, non esistesse. Quindi, la ragazza, dopo essersi accertata che egli abbia perdonato a tutti, porta il fantoccio in cucina, lo mette in un pentolone, lo spruzza con acquasanta. E subito rivolta a lui:
“S’è sentito male lei?”
“No, affatto”.
Allora, recitando il Credo in latino, di versetto in versetto, cui ogni volta Massimo deve rispondere “Credo”, ella mette il recipiente sul fuoco, dove si discioglie e muore l’uomo vecchio che egli è stato.
“Oggi gli basta conoscere che, se fu salvato, se è vivo, solo fra i tre che con lui hanno infranto la legge, questo dono gli fu dato unicamente perché ora possa pronunziar con sicurezza codeste sillabe già tanto estranee alla sua mente: credo. E non c’è scampo: se non vuole morire, questa parola dovrà tenersela confitta nel cuore, sempre”.
Questa è la chiusa del romanzo.
.
(fine della prima parte)
1 commento su “Carlo Alianello, scrittore cattolico, esploratore delle contraddizioni dell’uomo (prima parte) – di Piero Nicola”
Bell’articolo, grazie mille. Elda