CHE COSA E’ IL RELATIVISMO ? – di P.Giovanni Cavalcoli,OP

di P.Giovanni Cavalcoli,OP

 


Sono noti nei discorsi del Papa i riferimenti al “relativismo” come un male oggi diffuso dal quale occorre liberarsi. Questo messaggio del Pontefice è stato raccolto da molti, per cui si è parlato addirittura di “dittatura del relativismo”, come di una specie di cappa soffocante che ci schiaccia e ci immiserisce. Il relativismo che si fa dittatore, che si erige in assoluto! Quale paradosso! Eppure ciò avviene, laddove per esempio manca la libertà religiosa o i cristiani sono perseguitati o c’è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In reazione a questa polemica del Papa contro il relativismo c’è stato in verità chi ha voluto prender le difese del relativismo, rifugiandosi nei sofismi e cadendo negli equivoci.comte

Tuttavia il Papa stesso, per quanto mi consta, non si è fermato a spiegarci nel dettaglio che cosa intende con questa espressione e perché il relativismo è una cosa nefasta e condannabile. Vorrei in questo articolo tentare io, sperando di non rischiare troppo, di interpretare cosa Benedetto XVI può voler dire con quella espressione e perché egli la respinge con tanta forza e tanta insistenza.

La condanna del relativismo non è nuova nella filosofia e nella teologia cattoliche. Si parla, per esempio, con tono di condanna, di “relativismo dogmatico” o di “relativismo morale”. Si parla anche di “relativismo gnoseologico”. Il relativo come tale ovviamente non è un qualcosa di male o di falso. Il relativo esiste ed ha una sua dignità, che va riconosciuta; non va esagerata ma non va neppure disprezzata.

Invece il relativismo è una specie di idolatria del relativo e quindi una forma di immiserimento, nel migliore dei casi, della vita spirituale, incapace di elevarsi all’eterno, all’universale ed a ciò che trascende spazio e tempo, in ultima analisi a Dio. Pensiamo a filosofie come lo storicismo, l’empirismo, il positivismo, il liberalismo, il materialismo, l’evoluzionismo e il nichilismo.

Ma che cosa è il relativo? E’ un qualcosa che per sua essenza fa riferimento ad un assoluto. Senza l’assoluto il relativo non avrebbe senso e non esisterebbe. Vediamo subito qui lo sbaglio dei relativisti, i quali, credendo di sostenere il relativo, pensano che l’assoluto non esista o che sia una mera astrazione. Da qui il famoso assioma di Auguste Comte, “tutto è relativo, e questo è il solo principio assoluto”.

Ma da qui si vede anche come il relativismo sia una teoria insostenibile che si confuta da sola. In realtà, come è costretto ad ammettere lo stesso Comte, non possiamo fare a meno di ammettere un assoluto. Allora, piuttosto che ammetterlo a denti stretti, è meglio che lo ammettiamo francamente e lealmente. Del resto ciò è tutto a nostro vantaggio, perché ammettere un assoluto (quale che esso sia) non è solo inevitabile nel momento in cui pensiamo, ma è anche irrinunciabile, nel momento in cui esercitiamo il nostro volere ed esprimiamo le nostre più profonde aspirazioni.

“Assoluto”, ab-solutus, significa letteralmente “sciolto”, libero da vincoli, legami, condizionamenti, indipendente, senza premesse e senza conseguenze, fine a se stesso, per sé stante, sussistente da sé ed al limite esistente da sé e da cui semmai dipende l’altro ed al quale l’altro è finalizzato, l’altro che  è appunto il relativo.

Il relativo ha bisogno dell’assoluto, è orientato all’assoluto, ma questi può starsene per conto proprio anche senza il relativo. Dio, ci dicono i teologi, ha sì creato il mondo, ma di per sé non ha bisogno del mondo: avrebbe potuto esistere da solo senza il mondo. Qualcosa di questa assolutezza l’abbiamo anche noi, in forma certo molto limitata ma reale. Ce ne accorgiamo quando entriamo nel mondo dello spirito, del pensiero e della volontà, prendendo coscienza del nostro bisogno appunto di assoluto, di eterno, di infinito.

E’vero, constatiamo nel contempo la problematicità di ammettere un assoluto sotto ogni punto di vista e quindi la difficoltà di conoscerlo o raggiungerlo. Sta qui il dramma dello spirito umano – pensiamo al problema della metafisica – descritto da Kant in termini anche troppo drammatici o pessimistici,  ma pur sempre veri. Kant tuttavia non è riuscito a liberarsi da questa impasse, se non forse con la dottrina morale.

Noi cattolici siamo più ottimisti: crediamo fermamente nelle energie dello spirito, benchè ferite dal peccato originale, e per questo ammettiamo la possibilità della metafisica e della trascendenza, e quindi della teologia con le conseguenze importantissime che ne discendono in campo morale con le virtù cristiane e la vita della grazia. Tuttavia certo anche noi sentiamo la tentazione dello scetticismo, del soggettivismo e del relativismo e dobbiamo lottare contro tali tentazioni corrosive e disperanti, che portano al peccato e al crimine.

Ma anche il più radicale relativista non può fare a meno di un assoluto. Tutto quello che può capitargli è semmai di assolutizzare il relativo, come fece Comte. Eppure è forte la tentazione di non vedere altro che il relativo. E’ difficile pensare che esista qualcosa che non abbia relazioni. Certo tutti ammettiamo che la relazione deve avere un termine al quale essa si riferisce, ma ci pare ovvio che questo termine a sua volta abbia relazioni con altro. Sul piano empirico è effettivamente vero che tutto ha relazione con tutto. Io mi pongo in relazione con Pietro, ma Pietro a sua volta ha relazioni con Giovanni e così via. Crediamo che qui si possa andare all’infinito.

Eppure se riflettiamo seriamente su cosa è il relativo, ci accorgiamo che esso, come ho detto, dev’essere relativo a qualcosa di assoluto, ossia che a sua volta non ha relazioni con altro, ma si regge da sè. Questo qualcosa in fin dei conti è Dio. Ma senza arrivare così presto a Dio dobbiamo riconoscere che esistono anche dei valori assoluti che non sono ancora Dio, benchè siano in qualche modo delle sue partecipazioni, immagini e somiglianze finite. Sono quelli che il Papa ha chiamato “valori non negoziabili”.

Si tratta di valori ai quali non possiamo e non dobbiamo rinunciare. Non possiamo svenderli come Esaù che ha barattato l’eredità paterna con un piatto di lenticchie. Non possiamo tradirli, neppure a prezzo della vita. Senza di loro la vita non ha senso o è un inferno. Sono i valori del vero e del bene, della certezza, della giustizia, della libertà, i valori spirituali, metafisici, morali e religiosi, i valori della persona, la persona stessa.

Mentre il relativo si pone sul piano del contingente, del mutevole, del molteplice, dell’accidentale, dell’opinabile, dell’apparenza, l’assoluto riguarda il mondo dello spirito, della sostanza, della certezza, del necessario, dell’eterno, dell’infinito, dell’universale, in fin dei conti, come ho detto, del divino. Tuttavia ci sono degli assoluti che non sono tali sotto ogni punto di vista, come lo è l’Assoluto divino, ma lo sono solo per certi aspetti e non per altri.

In tal senso si parla del valore assoluto della persona o della legge morale o della verità. In questo senso Kant parlava del valore assoluto del dovere o dell’“imperativo categorico”: un qualcosa di oggettivo, universale e moralmente necessario trasgredendo il quale la persona decade dalla sua dignità, e si abbassa al livello dei bruti o nella meschinità dell’opportunista o del libertino.

Nessuno può fare a meno di qualche assoluto. Il problema è quello di sapere qual è il vero assoluto. La tentazione frequente è quella di assolutizzare il relativo, che corrisponde del resto alla relativizzazione dell’assoluto. L’assoluto non può che essere uno solo, altrimenti sarebbero relativi l’uno all’altro e non sarebbero quindi più assoluti. Non possiamo servire a due padroni, come ci avverte Cristo. Se l’assoluto è Dio, l’assoluto non può essere il mondo. “Non si può servire Dio e mammona”. Un certo malinteso rinnovamento postconciliare purtroppo si è messo su questa strada. Una certa “spiritualità” di oggi è diventata una fabbrica di doppiogiochismo.

Eppure quanto spesso cadiamo in questa miseria e in questa contraddizione! Forse non sempre ce ne accorgiamo, tanto in noi forte è la tendenza all’incoerenza e alla contraddizione. Spesso non sappiamo distinguere l’assoluto dal relativo, li confondiamo assieme, o crediamo sia possibile costruire un “assoluto” non nella sua purezza, ma che abbia nel contempo con sé il relativo, come ha fatto Hegel col suo “Assoluto” immanente nella storia ed alla fine identico alla Storia, col suo Dio che è un misto di essere e divenire, di finito ed infinito, di eterno e di temporale, un Dio che non è Dio senza il mondo. Con ciò egli credeva di interpretare il mistero cristiano dell’Incarnazione, ma confondeva le due nature di Cristo, dimenticando il Concilio di Calcedonia che lo proibisce.

Un traccia dell’assoluto c’è dovunque, perché dove c’è essere lì c’è quella traccia, almeno agli occhi di Dio che lo ha creato. Certo l’essere come tale, l’essere delle creature non si confonde con l’essere divino. E’ questo l’errore dei panteisti come Emanuele Severino, per il quale esiste solo l’“Essere eterno”, per cui tutto è eterno. Tuttavia è vero, come riconosce lo stesso S.Tommaso d’Aquino,  che ogni ente nell’essenza divina e agli occhi di Dio è eterno. Ma non gli enti fuori di Dio in se stessi!

L’errore di Severino è che egli rifiutando il concetto di creazione, vede tutto come emanazione di Dio, quindi in ultima istanza come Dio, anche se egli non usa il termine “Dio”, ma quello metafisico equivalente di Essere uno, eterno e necessario. Tutto per lui è assoluto, immutabile ed eterno. Il divenire, il relativo, il tempo, il molteplice, il contingente non esistono. E’ l’errore che sta agli antipodi del relativismo. Esso risuscita la concezione parmenidea dell’essere.

La posizione giusta, che è quella cattolica, è quella di distinguere  relativo ed assoluto come sostanze diverse, anche se analogamente legate nell’esistenza, distinguere quindi creatura e creatore per quello che sono, senza deprezzare o mondanizzare il creatore e senza idolatrare o supervalutare la creatura. Il relativo non è tutto, ma non è neppure ombra, vanità, mero fenomeno o mera opinione o apparenza, come troviamo nella filosofia indiana.

Il relativo, specie se si tratta di ente sostanziale, ha una sua consistenza, una sua autonomia, una sua dignità fino a giungere ad essere, nella persona, immagine di Dio. La persona umana certo è un ente temporale, fragile, finito e relativo a quel Dio che l’ha creata; eppure in se stessa, proprio in quanto immagine, ha, sotto molti aspetti, un valore assoluto ed eterno: è fatta, come dice il Vangelo, per la “vita eterna”.

Essa è un fine non un mezzo, come diceva Kant, benchè sia fine subordinato a Dio fine ultimo. Da qui il dovere, oggi tanto inculcato dalla Chiesa, del rispetto assoluto della vita umana dal suo concepimento alla sua fine naturale. La persona ha delle relazioni, deve avere delle relazioni, certo, non deve isolarsi dagli altri o chiudersi in se stessa in un sterile individualismo od egoismo; ma non si può neppure risolvere nella relazione o nell’“autocoscienza”, altrimenti quante persone sarebbero escluse dallo statuto ontologico di persone! Non si può neppure dissolvere nell’alterità o render schiava dell’alterità, – con un malinteso “servizio al prossimo” – altrimenti dissolverebbe se stessa.

La persona non può essere strumentalizzata da nessun potere umano in una semplice relazione ad altro, fosse l’amante, la società, lo Stato o la Chiesa, o fosse Dio stesso, perché Dio stesso non lo vuole, tanto è il rispetto che Dio ha per la sua creatura. Infatti nella creatura umana la relazione con Dio si aggiunge al soggetto personale che quindi non si esaurisce in quella relazione, benchè Dio mediante quella relazione voglia comunicare  all’uomo la sua stessa vita assoluta.

Bologna, 10 marzo 2011

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