di P.Giovanni Cavalcoli,OP
Sono rimasto colpito dalla foto apparsa giorni fa sul quotidiano “Il Giornale” in prima pagina con la notizia della vittoria elettorale di Pisapia a sindaco di Milano: si vedeva un tale che sventolava una bandiera rossa col ritratto di Che Guevara, che nascondeva quasi completamente nello sfondo la stupenda facciata del duomo di Milano. Mi è parsa una foto altamente simbolica che fa riflettere.
Non intendo qui entrare nel merito del confronto politico diretto. Non ne ho la competenza. Non sto parlando né della Moratti né di Pisapia in quanto esponenti di due partiti opposti, ma il mio discorso vuol essere più ampio, pur prendendo spunto da quanto è avvenuto a Milano. Mi chiedo infatti, come osservatore dei fatti sociali che cerca di dare una spiegazione di fondo a quanto sta avvenendo: come è possibile ancora il comunismo dopo tante tragedie che esso ha procurato all’umanità? Quando si è sperimentato che un progetto di società, messo in atto, non solo non dà i risultati sperati né mantiene le promesse, saggezza vuole che il progetto venga abbandonato.
Così è successo per i grandi progetti imperialistici dell’antichità, per i programmi ereticali e sovversivi del medioevo e, nel secolo scorso, per i folli obbiettivi politici del fascismo e ancor più del nazismo. Solo il programma sociale ed umanistico del cristianesimo persiste e funziona da duemila anni, carico – sia pur tra miserie umane – di frutti di giustizia, civiltà, cultura, moralità, bellezza. E durerà sino alla fine del mondo. E sistemi collaudati come quelli degli Stati Uniti e dell’Inghilterra non sono estranei all’ispirazione cristiana.
Mi chiedo perché – e il caso di Milano ne è un segno in mezzo ad altri ben più cospicui – tanti esseri umani ancora oggi continuano a confidare nel comunismo, nato da Marx e collaboratori, anche se poi di fatto per certi aspetti infedele allo stesso Marx o mescolato con altri princìpi e fattori, non esclusa l’idea di conciliarlo, almeno per certi suoi elementi, con lo stesso cristianesimo.
Credo che una spiegazione sia la forte carica utopica che possiede il marxismo: una società libera di uguali dove tutto è comune, dove sono realizzati il progresso, la pace e la giustizia sociale e dove l’uomo domina l’universo col lavoro, l’arte e la scienza, insomma la speranza di una felicità perfetta su questa terra. Considerando un simile ideale, come può l’uomo, nonostante i fallimenti, rinunciare a cercarne la realizzazione? Ma, d’altra parte, come non ci si è ancora accorti – e la storia della santità cristiana sta a dimostralo – che una simile perfezione umana non si ottiene senza il soccorso della religione? Allora è sincera o è velleitaria la ricerca di questa perfezione, dato che i mezzi esistono da duemila anni e non li si vuole usare?
Inoltre, in questa disperata ostinazione di riproporre un ideale che ha falito giocano altri fattori non certo nobili, che tuttavia costituiscono delle costanti dell’esistenza umana in questo mondo, conseguenza, come insegna il cristianesimo, del peccato originale: la superbia dell’uomo che non accetta di dover render conto del proprio agire ad un Dio trascendente, ma che vuol essere causa di se stesso e regola a se stesso con la sua sola ragione e volontà, l’istinto dell’uomo “carnale”, per esprimerci con S.Paolo, che vuol restare attaccato agli interessi materiali, nel disprezzo per i valori morali assoluti fondati sulla metafisica e la religione, per un’etica collettivista dell’autonomia assoluta, l’uomo che conta, ai fini della propria autoliberazione, nella socializzazione dei mezzi economici della produzione, dai quali si attende come effetto e conseguenza la liberazione spirituale del singolo e della società. Non lo spirito che guida le forze della materia, ma le energie della materia, come molla della elevazione dello spirito. Un’assurdità: come se il meno potesse essere causa del più.
Si può dire certamente che le forme più disumane del comunismo – pensiamo allo stalinismo o alle dittature del blocco sovietico o alle crudeltà della Cina – sono state di lezione agli stessi comunisti. Infatti, non possiamo ignorare come nella storia di questo movimento siano periodicamente intervenuti dei correttivi desunti da altre filosofie, come il contributo umanistico di Gramsci, l’esistenzialismo di Sartre, l’ispirazione personalistica del comunismo polacco, l’aspetto libertario della scuola di Francoforte, l’apporto del freudismo in Marcuse, il dialogo con i cristiani in Garaudy, il progetto di “compromesso storico” di Enrico Berlinguer, l’attenzione alla filosofia dell’estetica di Natalino Sapegno, le concessioni al liberalismo da parte dell’economia cinese, fino alle tendenze democratiche, pacifiste e pluraliste contemporanee favorevoli allo stesso principio della libertà religiosa o addirittura alla mistica (vedi Cacciari).
Per non parlare dei tentativi spericolati di rapporto con Nietzsche da parte di una certa sinistra aristocratica degli anni recenti. Si aggiunga l’impulso dato dal Concilio Vaticano II al dialogo con i non credenti, ed i risultati positivi di questo dialogo, preparato dalla rivista francese Esprit e seguìto da movimenti ecclesiali peraltro non del tutto ortodossi, come i “cristiani per il socialismo” degli anni sessanta e la teologia della liberazione degli anni settanta.
A questo punto però ci potremmo domandare, dopo questo fenomeno di reinterpretazione, di trasformazione e di rifondazione, che senso possa ancora avere proclamarsi comunisti conservando l’inconfondibile e ben caratterizzante simbolo della falce e del martello. Tutti infatti sanno da quasi duecento anni, che cosa significa quel simbolo, che cosa partiti politici, governi, popoli e nazioni hanno fatto nel nome di quel simbolo, e qual è la storia di quel simbolo.
Ora, il simbolo di un movimento politico, economico, culturale, sociale o filosofico – e tale è il comunismo marxista nella sua realtà e nella sua storia – rappresenta evidentemente i princìpi essenziali e caratterizzanti di quel movimento, mutati i quali, il simbolo non ha più ragion d’essere. Se si usa allora il simbolo, si suppone che si continui ad accettare quei princìpi, che, nel caso del comunismo marxista, sono ben noti dagli storici del pensiero e della politica.
Il movimento è forse mutato? Ha accolto nuovi influssi? Si è corretto in alcuni punti? Benissimo. Ma chiediamoci: in che cosa e perchè è avvenuto tutto questo? Nell’essenziale o in un contorno di corollari o elementi aggiuntivi o integrativi o accidentali, insomma non essenziali? Nel primo caso non c’è più ragione di parlare di comunismo col relativo simbolo; nel secondo invece si giustifica il mantenimento. Si potrebbe, certo, cambiare il simbolo e mantenere l’essenziale; ma come non ritenere che il mantenimento del simbolo significa la conservazione dell’essenziale? E se il movimento si fosse allontanato dall’essenziale su qualche punto, il mantenimento del simbolo non spingerebbe a recuperare quanto si era perso ricordando l’ideale primitivo?
Pio XI, come è noto, nella famosa enciclica del 1937 Divini redemptoris definì il comunismo “sistema intrinsecamente perverso” a causa del suo materialismo, dell’ateismo, del collettivismo, del ripudio delle verità e dei valori morali assoluti, dell’apologia della violenza, della dittatura politica, del disprezzo per la persona. Questo non vuol dire che nelle idee di Marx non ci siano anche delle cose buone, che poi sono quelle che attirano le masse desiderose di giustizia e di essere liberate dallo sfruttamento dei potenti.
Potremmo chiederci però se questi princìpi di giustizia sono veramente originali in Marx o non ne potremmo trovare le inconfessate radici nella Bibbia o nella tradizione sociale della Chiesa. In ogni caso, se i comunisti abbandonassero i loro errori e mantenessero quanto di buono c’è nelle loro idee, sarebbero ancora comunisti?
E il fatto che ancor oggi esistano partiti comunisti con tanto di falce e martello, che cosa vuol dire? Una vibrata protesta contro la linea Berlusconi? La semplice proposta di un’alternativa politica ragionevole? Contro le correnti di destra? Contro le ingiustizie perpetrate dal governo? Per il sostegno dei lavoratori, dei disoccupati, dei poveri, delle famiglie, degli emarginati, degli immigrati?
O significa il mantenimento di quanto Pio XI condannò nella sua enciclica? Nel primo caso mi domando: occorre per quei fini di cui sopra essere comunisti o si potrebbe altrettanto e forse meglio condurre un’opposizione veramente sana in un partito che rispetti i valori morali assoluti (“non negoziabili”, quali per esempio la vita, la famiglia o la giustizia), la religione, la Chiesa e i princìpi della Costituzione? E se invece si vuol continuare ad essere comunisti in quella linea che è stata condannata da Pio XI e che tante sciagure ha procurato all’umanità, che senso ha a tutt’oggi dirsi e voler essere ancora comunisti? La bandiera rossa deve offuscare il duomo di Milano o è meglio che si faccia da parte per lasciarci vedere l’inestimabile bellezza di questa poderosa costruzione, che sfida i secoli della civiltà, della libertà e della cultura?
Bologna, 2 giugno 2011 Festa della Repubblica