COME EDUCHEREMO I NOSTRI FIGLI NEL FUTURO CHE CI ASPETTA? – di Carla D’Agostino Ungaretti

Qualche riflessione di una cattolica “bambina” preoccupata

 

di Carla D’Agostino Ungaretti

 

ADERIAMO ALL’APPELLO PER FERMARE LA PROPOSTA DI LEGGE CONTRO L’OMOFOBIA

 

 

be1Nel mese di luglio, a Roma, il liceo Socrate è stato dato alle fiamme da quattro studenti. I media si sono subito scatenati nella loro dietrologia: terrorismo? razzismo? O, peggio ancora (quale orrore!…) omofobia? Nulla di tutto ciò. I quattro incendiari erano solo furibondi contro la scuola per essere stati bocciati agli esami di maturità. Dopo tanto terrore omofobo ci sarebbe da ridere, se il fatto non fosse molto serio. Fortunatamente non ci sono state vittime e il danno si è limitato ad alcune aule e a qualche arredo che, naturalmente, dovranno essere restaurati in tempo per l’inizio del nuovo anno scolastico. I quattro assetati di vendetta non sarebbero stati capaci singolarmente di compiere un simile gesto, ma essersi ritrovati in un branco ha funzionato da moltiplicatore della rabbia individuale che si è sfogata nel loro gesto criminale. Fin qui la cronaca, ma è sintomatico osservare che ai quattro giovani scervellati – che, a quanto pare, hanno chiesto perdono del loro folle gesto dichiarandosi pronti a lavorare nel restauro dei locali danneggiati – non è neppure passato per la mente che la bocciatura fosse dovuta alla loro negligenza nello studio perché, nella loro ansia di “apparire” piuttosto che di “essere”, ritenevano la promozione un loro sacrosanto diritto che la scuola aveva vergognosamente calpestato.

Non è un fenomeno nuovo, purtroppo: negli ultimi anni si sono verificati nel mondo giovanile molti episodi di bullismo, teppismo e vandalismo che ci fanno fare un’amara riflessione sui tempi che stiamo vivendo. In che cosa ha sbagliato la generazione precedente nel suo progetto educativo? Esistono i rimedi? La rivoluzione culturale del ’68, espressa in occidente dagli slogan “io sono mio (o mia)”, “vietato vietare” e “la fantasia al potere” non è stata l’unica causa della crisi educativa delle giovani generazioni. L’enorme sviluppo tecnologico raggiunto dall’occidente nell’ultimo mezzo secolo ha dato il benessere materiale ai popoli che hanno potuto avvalersene, ma è anche riuscito a inoculare in moltissimi giovani quel “male di vivere” i cui esiti abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, perché è stato capace di diffondere una mentalità puramente materialistica, tesa ad attribuire maggior valore all’avere e all’apparire piuttosto che all’essere.

La crisi della famiglia e del principio di autorità che in essa si rispecchia è la maggiore responsabile del disagio giovanile cui assistiamo. Quando imperava la tanto deprecata “morale borghese”, per buona famiglia si intendeva quella che con l’esempio e la pratica, più che con le parole, era capace di trasmettere ai figli solidi valori di legalità, solidarietà, senso civico, rispetto del prossimo e del bene proprio e collettivo, giustamente reputati fondamentali nella comunità civile. Oggi invece assistiamo sempre più spesso al manifestarsi di comportamenti devianti da parte di giovani appartenenti a  quelle che, viste dall’esterno, si reputerebbero buone famiglie. E’ un fenomeno difficilmente spiegabile con le categorie interpretative da sempre in uso.

Infatti alcuni maitres à penser, come Pierpaolo Pasolini con i suoi romanzi Ragazzi di Vita e Una vita Violenta, ci  avevano abituato a pensare che la violenza e certi comportamenti aberranti sono sempre frutto della società classista, basata su povertà, ignoranza ed emarginazione, ma ciò non basta a spiegare perché la maleducazione e la volgarità del linguaggio e dei comportamenti – spesso sfocianti nel bullismo, nel vandalismo e nel teppismo – abbiano potuto contagiare anche i cosiddetti “figli del benessere”, cresciuti in famiglie che potrebbero garantire loro agi, istruzione e buon esempio. Evidentemente sono venuti meno, a livello generale e in particolare nella istituzione – famiglia, alcuni valori che avrebbero dovuto essere percepiti come universali, a cominciare dal rispetto e dalla responsabilità verso se stessi e verso gli altri. La stessa classe politica italiana di volta in volta al potere non sembra capace di comprendere l’emergenza che stiamo vivendo.

Benedetto XVI disse in molte occasioni che la crisi della famiglia è una conseguenza della crisi morale europea[1]. Crisi, peraltro, mai presa in seria considerazione dai sistemi politici che, invece, hanno ceduto a quello che il Card. Caffarra, anni orsono, chiamò “il collasso ontologico dell’essere[2], un’ideologia che, negando la positività dell’essere stesso, sfocia nel nichilismo assoluto con le conseguenze facilmente immaginabili a livello sociale e, in particolare, a quello della famiglia e della formazione dei giovani. Ma questa emergenza deve essere affrontata senza perdere la speranza, perché l’educazione per sua natura si rivolge al futuro e alle sue possibilità.  La questione educativa passa attraverso la testimonianza e i modelli di comportamento, un aspetto che naturalmente chiama in causa il mondo adulto, perciò è necessaria, da parte di tutti noi, una salda impostazione delle convinzioni e della coerenza dei comportamenti.

Nel 2008 Benedetto XVI  inviò alla sua Diocesi un’importante lettera pastorale sull’ argomento dell’educazione[3]. Premesso che – come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2221) – educare significa formare le persone ad orientarsi nella vita per capire la distinzione tra il bene e il male e che l’educazione è il dovere primario e inalienabile dei genitori, il Papa riconosceva la difficoltà di tale compito ma non ne imputava la causa alla “frattura fra le generazioni”, bensì egli ne riteneva responsabile una “mancata trasmissione di certezze e di valori …  un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita”.

L’analisi del Papa emerito trova una triste conferma nel dilagare della teoria del gender e nella pressante richiesta politica di riconoscere il matrimonio tra coppie omosessuali, autentico capovolgimento delle certezze e dei valori che per millenni hanno nutrito l’umanità e che (bisogna gridarlo con forza) apre tremendi problemi educativi per i genitori.  Come cattolica “bambina”, io sono molto preoccupata per ciò che si dovrà (o non si dovrà) insegnare ai nostri nipoti fra qualche anno perché, mentre scrivo questa mia riflessione,  si è in attesa che il Parlamento si pronunci in merito al progetto di legge dell’On. Scalfarotto contro la cosiddetta omofobia che introduce un’infinità di limitazioni alla libertà di opinione sul problema degli omosessuali, con buona pace di tutti coloro che si proclamano democratici e sostenitori della libertà di parola.  I laicisti ci propinano quotidianamente – con una determinazione superata soltanto dalla loro arroganza dialettica – quella rivoluzione antropologica che, negando  l’evidenza umana, lascia sconcertati. Se sarà promulgata in Italia questa famigerata legge invocata da più parti – come se non avessimo già sufficienti norme dirette a tutelare la dignità e la sicurezza fisica e morale dei cittadini, si tratta solo di applicarle senza sconti o buonismi – potranno i genitori cattolici, sinceramente convinti che l’omosessualità praticata è disordine e ” peccato che grida vendetta al cospetto di Dio” insegnare ai propri figli questa verità senza incorrere in sanzioni penali? E quali saranno il ruolo e l’atteggiamento della scuola al riguardo? Dovrà forse  insegnare che  l’omosessualità è cosa naturale e fisiologica e il matrimonio gay un diritto umano? Quali conseguenze avrà la differenza di indirizzo educativo tra le famiglie cattoliche e la scuola pubblica?

E’ evidente che la causa di queste difficoltà è la dittatura del relativismo: parlare di verità e bene oggettivi oggi è considerato politically uncorrect, e ritenuto lesivo della libertà individuale; ma se si rifiutano a priori certe lapalissiane verità, come la differenza tra il sesso maschile e il sesso femminile, è inevitabile che poi conseguano tutte le più assurde e finora inimmaginabili aberrazioni.

E’ un dato di fatto che oggi gli italiani mettano al mondo pochi figli e quei pochi li educhino male. Però questa realtà sembra preoccupare i nostri governi solo per quanto attiene al problema delle pensioni (peraltro molto serio) mentre il problema della famiglia e dell’educazione dei giovani è ben più arduo, perché riguarda il futuro dell’umanità e rispecchia il significato che in un dato momento storico viene attribuito alla vita umana in tutti i suoi aspetti. A quanto pare solo la Chiesa cattolica ha ben chiaro che il cosiddetto crollo demografico ha conseguenze nefaste sullo stato spirituale e sulla civiltà di un’Europa ricca di beni materiali ma  “povera di bambini”.

Benedetto XVI individuò tre cause di questa crisi[4]. La prima, che va diritta al cuore del problema, è che “il bambino ha bisogno di attenzione amorosa. Dobbiamo dargli qualcosa del nostro tempo, del tempo della nostra vita. Ma proprio questa materia prima essenziale della nostra vita, il tempo, sembra scarseggiare sempre di più. Il tempo che abbiamo a disposizione basta appena per la nostra vita; come potremmo cederlo, darlo a qualcun altro? Avere tempo e donare tempo è per noi un modo molto concreto per imparare a donare se stessi, a perdersi per donare se stessi”.

La seconda ragione per cui si ha paura di avere figli è la crisi dell’educazione: non si sa più che cosa dire loro, né quali valori trasmettere. “Di quali norme siamo debitori al bambino perché segua la via giusta e in che modo dobbiamo, nel fare ciò, rispettare la sua libertà?…lo spirito moderno ha perso l’orientamento e questa mancanza di orientamento ci impedisce di essere per altri indicatori della retta via”.

La terza ragione della crisi demografica indicata dal Papa riguarda la disperazione esistenziale che tocca da vicino l’uomo di oggi, profondamente insicuro sul futuro suo e delle generazioni che lo seguiranno. Vale la pena di generare figli in un mondo simile? E’ un bene essere uomo? “Questa profonda insicurezza sull’uomo stesso – accanto alla voglia di avere la vita tutta per se stessi – è forse la ragione più profonda per cui il rischio di avere figli appare a molti una cosa quasi non più sostenibile”. Infatti il problema dell’educazione è strettamente connesso con il problema dell’esistenza umana: l’uomo non chiede di essere messo al mondo e questo evento, nel quale suo malgrado si trova coinvolto, è un fatto positivo o negativo? E’ un’affascinante avventura o una disavventura irrimediabile e priva di senso? Questo è l’interrogativo di fondo che alligna, spesso in modo inesprimibile a parole, nei recessi più nascosti di ogni coscienza giovanile e che reclama una risposta, perché è in gioco il valore che i giovani attribuiranno alla loro stessa esistenza.

Il pessimismo dell’Amleto shakespeariano, che si domanda se è meglio essere vivi anziché morti (Essere o non essere …) proiettato su larga scala, ci fa capire che  una cultura che, a livello collettivo, arrivi a domandarsi se procreare sia un bene o un male, è una cultura di morte. Del resto le donne italiane negli ultimi decenni hanno dimenticato che la maternità è un fenomeno naturale e non una malattia, perciò l’unico figlio che – nella maggior parte dei casi – oggi mettono al mondo è un bambino connotato in senso ipertrofico ed egoistico. Molte giovani coppie sono indotte, dal clima che respirano, a considerare i figli “beni sostituibili” con altri, meno impegnativi e di più sicuro rendimento[5], ma in questo modo si lasciano cadere in desuetudine i doveri di importanza fondamentale, come quello di educare bene i propri figli. Oggigiorno nel mondo occidentale avere almeno un figlio è considerato un diritto, ma il figlio viene abbandonato a se stesso quando ci si accorge che educarlo è faticoso, richiede tempo ed energie, spesso a scapito delle carriere dei genitori. La causa di questa deriva umana è nella perdita del senso del dovere che non è un istinto naturale, ma esiste solo se viene coltivato in una società che lo ritenga elemento costitutivo fondamentale della propria compagine. Invece, in tutto il mondo occidentale da vari decenni la pedagogia consiste, in buona sostanza, nel trasformare ogni tipo di apprendimento in un piacere, dimenticando che qualunque apprendistato umano è faticoso, spesso non gratificante e soprattutto richiede disciplina.

Sembra che i genitori oggi siano incapaci di indicare la strada, di illustrare la distinzione tra bene e male, desiderio e limite, di insegnare ai propri figli che la vita non si riduce alla ricerca di un’immediata felicità personale, ma è ricerca di senso e costruzione della coscienza sociale. In questo contesto, come stupirsi poi se una società i cui membri, figli del ’68, sono stati educati a considerare un diritto il divertirsi a scuola non sappia poi assumersi la responsabilità di educare i propri figli in modo sano?

La generazione alla quale io stessa, cattolica “bambina“, appartengo nota un’abissale differenza tra la propria gioventù e quella dei suoi figli e nipoti. La mia generazione, nata prima, durante o subito dopo la seconda guerra mondiale, ha sperimentato sulla sua pelle una tragedia di proporzioni immani e le difficoltà del dopoguerra, vivendo e formandosi in un clima necessariamente spartano di austerità, risparmio e sobrietà, riconosciuto come un percorso obbligato per la ricostruzione del tessuto sociale ed economico sconvolto dal conflitto. Ed era animata da una speranza che oggi sembra essersi esaurita: quella di un futuro migliore, frutto della raggiunta democrazia e del suo duro lavoro. L’impegno e la dedizione degli italiani nel ventennio 1945 – 1965, supportati dalla compattezza della istituzione – famiglia, ha dato luogo a quello che, in campo economico e sociale, fu chiamato “boom” o “miracolo economico”, prodromo italiano della successiva “globalizzazione”. Esso ha generato un benessere diffuso, quale non era mai stato conosciuto prima, ma ha facilitato molte derive familiari insieme a quell’umanissimo ma antieducativo desiderio dei genitori di  procurare ai figli, senza alcuna fatica, tutto ciò che essi non hanno potuto ottenere nella loro gioventù.

La speranza: ecco ciò che sembra mancare oggigiorno agli adulti, e se essa manca agli adulti, come possiamo credere che invece la nutrano i giovani che, pure, dovrebbero vivere proiettati nel futuro? Papa Francesco non si stanca di esortare tutti noi a “non farci derubare della speranza”; lo ha raccomandato,  l’ultimo Giovedì Santo e suscitando una forte partecipazione emotiva, ai giovani detenuti nel carcere minorile di Casal del Marmo; lo ha ripetuto nell’Enciclica Lumen Fidei (Cap. IV, n. 57) descrivendo puntualmente (anche senza nominarla) la nefasta opera del relativismo che “vanifica (la speranza) con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che frammentano il tempo trasformandolo nello spazio: Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi. Il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza”.

Invece, purtroppo, i tempi che siamo vivendo sembrano dar ragione al principe dei giornalisti italiani, Indro Montanelli, il quale – richiesto da un lettore del perché non avesse voluto figli – rispose testualmente: “Che educazione avrei potuto dare a mio figlio, se avessi trovato il tempo di dargliene una? (Montanelli diceva che il giornalismo era per lui una “passione esclusiva e divorante”). Certamente avrei cercato di infondergli il rispetto dei valori nei quali io stesso sono stato allevato e mi sono fatto uomo. E allora delle due l’una: o ci sarei riuscito, e in tal caso avrei fatto di lui uno spostato perché i valori nei quali sono stato educato io, e sui quali poggiano tutte le mie regole morali, sono ormai fuori corso e costituiscono, per chi le segue, soltanto un impaccio. O non ci sarei riuscito, e in tal caso di mio figlio avrei fatto, nella migliore delle ipotesi, un estraneo; nella peggiore, un nemico”[6].

Le famiglie del nostro tempo sono fortemente tentate dal pensare come Montanelli in fatto di educazione dei figli: anche i genitori più presenti e responsabili si scoraggiano quando constatano che, a conti fatti, limitare l’uso della TV e di Internet in famiglia o cercare di inculcare – per quanto più possibile – retti principi, serve a poco perché i loro figli, appena escono di casa, sono bersagliati da messaggi e sollecitazioni di segno opposto a quelli che ricevono in famiglia. I giornali, il cinema con il suo sempre più frequente linguaggio sconveniente, l’insistita  rappresentazione di situazioni contrarie alla morale cattolica, i manifesti, le discoteche, l’influenza esercitata dal “branco” sono tutti elementi che esercitano una presa irresistibile sulle personalità ancora in formazione: lo dimostra il gesto criminale dei quattro irresponsabili giovani romani che ho citato all’inizio. Chi cerca di fare il genitore a 360° si trova spiazzato perché viene tacciato di moralismo vecchio stampo o accusato di reprimere la personalità dei figli con un’educazione antiquata e autoritaria.

Riecheggiano le parole di Benedetto XVI citate all’inizio: la cultura vigente induce a dubitare del significato stesso della verità e del bene. Mentre invece, come ricordò il Papa, ”quando i coniugi si dedicano generosamente all’educazione dei figli, guidandoli ed orientandoli alla scoperta del disegno d’amore di Dio, preparano quel fertile terreno spirituale dove scaturiscono e maturano le vocazioni”[7]. La famiglia, una volta, era la più sicura depositaria di quella sintesi di valori nei quali si riconosceva il sistema sociale di appartenenza. Essa assicurava equilibrio e coerenza, garantendo la lealtà dei suoi membri verso quei valori stessi, ciascuno occupava il posto che gli competeva e lo rendeva riconoscibile a sé e agli altri. Nel mondo moderno, invece, i ruoli non sono più prestabiliti, ciascuno vuole essere l’arbitro della propria vita e del proprio destino con conseguenze inaspettate nei figli.

Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica dal 1999 al 2006, ha scritto una riflessione molto sensata su questo problema[8]. Il Presidente vede nell’incertezza delle prospettive future il risultato delle ombre che si allungano nello spazio sociale e civile della collettività. Si realizza ciò che Philippe Ariès, storico della famiglia, ha scritto: “Un tempo il giovane cercava la compagnia dell’adulto … che fosse in grado di farlo sortire dal suo stato di adolescente, di portarlo per contagio nell’ambìto mondo degli adulti. Oggi tale promozione non è più ricercata, anzi è temuta, sono piuttosto gli adulti che imitano gli adolescenti[9]. Questa condizione è deleteria, perché  è compito degli adulti traghettare la società su basi nuove verso nuovi approdi facendosi carico della generazione precedente e accompagnando la generazione successiva: come fece Enea il quale, fuggendo da Troia in fiamme, si caricò sulle spalle il vecchio padre Anchise, tenendo per mano il figlioletto Ascanio[10]. Oggi, invece, i vecchi e i giovani sono in competizione tra di loro, sia nel tessuto sociale che nell’agone politico, in una sorta di innaturale lotta per la sopravvivenza.

Da ultimi – ma non meno preoccupanti, perché anch’essi sono frutti perversi della deriva sessantottina – altri due aspetti dell’educazione dei nostri figli mi coinvolgono oggi in modo particolare: la loro educazione sessuale e, anche più importante, quella religiosa. Ma su esse rifletterò un’altra volta.





[1] Cfr. per esempio J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Introduzione di Marcello Pera, Cantagalli 2005.

[2] Cfr. IL FOGLIO 3.2. 2008.

[3] Cfr. Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione. 21.1.2008

[4] Cfr. Benedetto XVI, Omelia della S. Messa per l’850° anniversario della fondazione del Santuario di Mariazell dell’8.9.2007. Fonte:www.tinyurl.com/yoc8s5

[5] R. VOLPI, La fine della famiglia. La rivoluzione di cui non ci siamo accorti. Mondadori, Milano 2007.

[6] Cfr. CORRIERE DELLA SERA, La Stanza di Montanelli 23.1.2000

[7] Angelus di domenica 30.8.2009, Cfr. Agenzia Fides, 31.8.2009. Il S. Padre, nel caso specifico, alludeva alle vocazioni alla vita consacrata, ma il suo discorso vale per tutte le vocazioni, da quella del matrimonio a quella della  scelta del lavoro e del ruolo sociale in cui una personalità in formazione può raggiungere la piena realizzazione.

[8] C. A. Ciampi , A un giovane italiano, Milano, Rizzoli 2012

[9] Cfr. “Generazioni”, Enciclopedia Einaudi, Vol. VI, Torino, Einaudi 1979.

[10] Cfr. Eneide, libro II.

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