Di Ignazio Di Lecce

Contro il Relativismo

(Fonte: Rirorma & Risveglio)

 Per proseguire l’analisi dei temi del dibattito politico-culturale in corso da alcuni mesi in Italia sul ruolo della religione nella vita pubblica, può essere molto utile prendere in esame il libro scritto da Giovanni Jervis (Contro il relativismo, 2005, Editori Laterza) sul fenomeno del relativismo culturale, che spesso viene utilizzato come argomento polemico dai più alti esponenti della gerarchia cattolica e dalle correnti politiche cosiddette teo-con. L’autore di questo libro ha l’enorme merito di eliminare alcuni equivoci fuorvianti e di permettere così la comprensione della vera posta in gioco.

Lo studio su basi scientifiche del relativismo culturale è importante non solo perché si tratta di una moda di massa di cui spesso non si percepisce l’enorme diffusione ma, soprattutto, perché permette di controbattere con validi argomenti ai vertici del Vaticano e agli esponenti teo-con che, lungi dal compiere un’analisi credibile della vera natura del relativismo e dall’indicare adeguati rimedi, stravolgono i termini della questione per i propri fini. Non passa settimana, ormai da mesi, senza che uomini che occupano altissime cariche istituzionali o ecclesiastiche, studiosi o giornalisti non emettano condanne, non invochino foschi quadri di decadenza o non esortino a reagire contro la malattia silenziosa e dilagante che deriverebbe, per gli uni, dall’abbandono dei canoni del cattolicesimo medievale spacciati per radici cristiane, per gli altri, dalla prospettiva del “meticciato” sociale.

Chi scrive non è meno preoccupato per il fenomeno; tuttavia crede che questo tipo di analisi partano da presupposti sbagliati e, invece di portare chiarezza, non fanno altro che occultare ancor di più la vera natura del problema.

Giovanni Jervis, invece, compie un convincente excursus sulle ragioni storiche e culturali della nascita e dello sviluppo del relativismo culturale, adottando un punto di vista completamente diverso da quello moraleggiante di “chiamata alle armi”, prevalente nel dibattito pubblico. Egli, studioso di Psicologia dinamica e professore presso l’Università “La Sapienza” di Roma, si comporta da scienziato sociale qual è, e quindi fornisce un’analisi oggettiva dei fatti, da cui non pare possibile prescindere, anche se, come vedremo, la concezione materialista del mondo di cui l’autore è portatore impedisce al lettore credente un’adesione totale ad ogni pagina del libro.

Credo che sia fondamentale che, nelle chiese protestanti, si prenda bene coscienza del pericolo costituito dal relativismo culturale, anzi sono convinto che gli ambienti protestanti, italiani o stranieri, non siano assolutamente immuni rispetto alla diffusione di massa di questo modo di pensare. Occorre pertanto esercitare la riflessione e l’analisi per imparare a riconoscere e a distinguere le manifestazioni della malattia, prima ancora di pensare a come porvi rimedio. Per questo motivo il piccolo libro di Jervis è prezioso. La lucidità con cui analizza i fatti e le loro interconnessioni è tale da costituire un punto di vista ottimale per iniziare la nostra riflessione.

Ricordi di un sodalizio

Si potrebbe dire che Contro il relativismo sia un saggio appartenente alla tradizione illuminista sul tema della teoria della conoscenza e dei suoi riflessi sull’etica sociale. All’autore preme mettere subito in chiaro il suo orientamento razionalista, non inconsapevole tuttavia della natura talvolta semplificatrice del positivismo scientista.

Alcune delle pagine iniziali del saggio sono dedicate dall’autore a delineare il quadro del suo sodalizio culturale con Ernesto De Martino negli anni Sessanta. Nel grande etnologo, Jervis racconta di aver ammirato l’equilibrio fra il rispetto per il mito e la ritualità e il personale, saldo radicamento nella cultura laica e razionalista dell’Occidente.

In un lungo passo citato, viene anticipato il tema polemico del libro. Jervis dimostra come De Martino, in anni in cui non era ancora dilagata la moda del relativismo culturale, già avesse ben chiara l’importanza di essere consapevoli della propria appartenenza culturale per poter esercitare al meglio il proprio ruolo, senza negarlo mai. Il dialogo con il resto del mondo si può basare solo sulla conoscenza profonda della propria appartenenza, mentre le manifestazioni di camaleontismo non sono altro che maschere di una pericolosa abdicazione.

Secondo Jervis, negli anni Sessanta e Settanta si diffuse in Occidente un atteggiamento di rivalutazione del magico e dell’irrazionale che attaccava alla radice l’ideale del progresso sociale e il metodo della ricerca scientifica. Scopo del suo saggio è l’analisi delle molteplici e molto più antiche radici del fenomeno e della assunzione dei tratti caratteristici del relativismo culturale di massa che oggi dobbiamo fronteggiare.

Nella seconda parte del capitolo introduttivo, molto ricco di spunti autobiografici, Jervis affronta il tema del confronto con le tradizioni religiose.

Partendo dal pressante invito mass-mediatico al rispetto delle altre religioni, specie quelle non cristiane, che sembra dare per scontato l’esistenza di un’insofferenza primaria e di un’ostilità verso le religioni altrui, Jervis si chiede se esista davvero questa potenziale o reale avversione verso le fedi altrui. Egli dichiara che, a prima vista, parrebbe di no. Infatti la reazione più immediata di chiunque si trovi di fronte alla manifestazione della semplice religiosità di altri individui è quella di un disponibile interesse. Gli esseri umani sembrano provare tutti un anelito verso il trascendente, innato come i moti di tenerezza verso i bambini che sono simili in tutte le culture. Se le forme storiche delle religioni, anche in Occidente, hanno tanto contribuito alla devastazione del mondo, probabilmente la causa risiede negli eccessivi poteri accordati agli apparati ecclesiastici e alla tendenza dei fedeli all’obbedienza acritica. Jervis dedica alcune pagine alla discussione dei fenomeni psicologico-sociali che portano gli adulti ad abbracciare credenze che egli reputa irrazionali ed inaccettabili come l’infallibilità del papa, se parla ex cathedra, o la protezione miracolosa di Padre Pio.

Lo psicologo rileva che, mentre è del tutto normale che l’infanzia mostri forme di credulità verso fatti assolutamente non comprovabili, deve esistere qualche processo di blocco o di inibizione dello sviluppo delle capacità di esame della realtà negli adulti che abbracciano credenze come quelle appena elencate. Jervis, comunque, si dimostra ben cosciente del fatto che non tutte le forme di cristianesimo possano essere considerate portatrici di credenze del genere.

Egli individua nella dipendenza mitizzante da figure poco accessibili, perché distanti dalla quotidianità ordinaria, una delle cause per cui un individuo possa essere condotto a rinunciare alle proprie capacità di discernere (subordinazione psicologica). Inoltre ricorda come la compiacenza ideologica, ossia l’opportunismo, sia un modo efficace per ingraziarsi i potenti (risposta alle manifestazioni del potere).

Questa presa di posizione contro le responsabilità di molte organizzazione religiose verso la diffusione di forme di irrazionalità sociale ha l’evidente fine polemico di individuare precise cause storiche del mancato sviluppo, anche nei tempi presenti, delle capacità critiche degli individui attraverso la messa in atto sistematica di strategie diseducative e di una vera e propria lotta contro la diffusione del sapere razionale e scientifico a livello di massa. Nel resto del libro, Jervis continuerà a portare argomenti per dimostrare che il relativismo culturale non è altro che un ennesimo episodio di aggressività verso la più preziosa e fragile eredità dell’Occidente, cioè il metodo di pensiero basato sulla ragione per indagare i fatti, sulla base di conoscenze dettagliate e attendibili, al fine di capire ciò che succede attorno a noi, senza fare troppi errori. Quindi, il problema di fondo del relativismo culturale è, per Jervis, quello del suo discredito verso la conoscenza razionale e della sua parentela con forme di irrazionalismi anche autoritari.

Analisi del relativismo

Rispetto all’analisi delle teorie formalizzate, il relativismo contemporaneo si presenta costituito da molte tendenze diverse. Possiamo considerarlo una interpretazione del nostro momento storico (post-modernismo di Lyotard), una teoria filosofico-letteraria (decostruzionismo di Derrida), una critica della conoscenza scientifica (anarchismo epistemologico di Feyerabend), una forma di umanesimo radicale (Rorty). Questa enumerazione di autori e tematiche, tuttavia, non permette di cogliere l’essenza del fenomeno, se non si ricercano gli elementi unificanti.  

Ciò che accomuna gli esponenti delle correnti di pensiero relativiste sembra essere la scarsa considerazione in cui tengono i fatti e l’estrema importanza che invece danno alle loro interpretazioni. Essi tendono a valorizzare le convinzioni soggettive negando l’esistenza di qualsiasi termine di confronto esterno per le credenze, atto a valutarne la fondatezza. Ritengono che le leggi di natura non siano nelle cose ma nella nostra testa, cioè che siano solo nostre descrizioni che possono variare a seconda dei tempi e delle culture. Non danno importanza a prove o verifiche. Esprimono giudizi sulla tecnica moderna definendola una pratica violenta. Il gioco del relativismo consiste nel tentativo di rendere credibili delle opinioni alquanto particolari, senza alcun fondamento e nello screditare la conoscenza scientifica, definendola una narrazione come tutte le altre. Nelle scienze umane i relativisti ritengono che non esistano criteri per affermare che assetti sociali o stili di comportamento siano migliori di altri.

La chiave di volta che regge il relativismo è proprio il suo atteggiamento verso la scienza. Il relativismo ne diffida, svaluta l’importanza delle verifiche sistematiche, dei dati sperimentali, delle misure, dei modelli, delle valutazioni di probabilità. Considera le conoscenze come delle opinioni e tutte le opinioni non possono che equivalersi.

Da questa analisi, Jervis ritiene di poter concludere che il relativismo sia una contrapposizione contemporanea alla tradizione illuminista. La tesi, molto interessante e in fondo convincente, non è priva di alcune problematicità. L’autore definisce l’illuminismo “un orientamento di pensiero caratterizzato da un solido laicismo, dalla certezza che esistesse, attraverso popoli e culture, una struttura universale della ragione umana, da vivissime speranze di progresso tecnico-scientifico, e dalla convinzione che fosse giusto (e dall’illusione che fosse facile) che i popoli si liberassero dall’ignoranza e dalle superstizioni così come dall’inutile oppressione di governi bigotti e dispotici”. Questa citazione tratteggia un quadro condivisibile, anche se un po’ troppo sintetico, del fenomeno storico che denominiamo illuminismo e ne evidenzia i caratteri più antitetici rispetto al relativismo, che appare così un rovesciamento o, meglio, un anti-illuminismo. Tuttavia, è doveroso notare come il quadro tracciato da Jervis finisca per appiattire troppo un fenomeno che presentava diverse facce, anche in senso nazionale. Per esempio, l’illuminismo francese, che si trovava a contrastare una chiesa cattolica allora fortemente retriva, aveva verso la dimensione religiosa un atteggiamento polemico e scettico. L’illuminismo inglese invece, inserito in un contesto protestante, si batteva per idee di tolleranza e libertà religiosa, contro ogni fanatismo; inoltre la maggior parte dei suoi esponenti erano ferventi teisti, laddove i francesi, se non erano atei, si richiamavano al massimo a posizioni deiste. La problematica del rapporto fra l’illuminismo europeo e la religione cristiana è particolarmente importante ancora oggi, in particolare per noi protestanti, dato il problematico e contraddittorio rapporto fra protestantesimo, illuminismo, modernità e secolarizzazione. C’è sicuramente qualcosa che non si comprende bene nella parabola storica che ha visto il protestantesimo da una parte favorire la nascita del mondo libero, caratterizzato dallo sviluppo sociale e scientifico, dall’altra iniziare un lento declino che sostanzialmente non si è ancora arrestato. Tra le pubblicazioni più recenti su queste tematiche occorre sicuramente ricordare il resoconto della prolusione tenuta dal prof. Hirzel alla Facoltà Valdese all’inizio dell’anno accademico 2004-2005, intitolata Tra illuminismo e Risveglio, che compare su Protestantesimo n. 60: 1-2005.

Tornando allo scritto di Jervis, possiamo dunque concludere che il quadro da lui sommariamente tratteggiato dell’illuminismo in senso generale si adatta meglio all’illuminismo francese.

La sua anamnesi storica continua con l’osservazione che durante l’Ottocento fu il romanticismo ad opporsi all’illuminismo. In esso si esprimevano retoriche della spontaneità e del sentimento, fascinazione per l’Oriente e i popoli primitivi, magia e spiritismo, adesione a mitologie barbariche e a prospettive nazionaliste. Agli inizi del Novecento le idee romantiche si dispersero in mille rivoli anti-modernisti e anti-razionalisti. Il relativismo nei suoi risvolti più irrazionalisti ha ereditato parte di questi spunti ideologici. La corrente New Age raccoglie forme di religiosità legate ad immediatezza emozionale, considerandole espressione di un destino spirituale cui tenderebbe la specie umana attraverso i millenni.

Negli ultimi due decenni del Novecento, il relativismo ha conquistato la quasi totalità degli intellettuali con radici umanistiche, scavando un solco ancora più profondo fra le cosiddette “due culture”.

Il cammino intellettuale che congiunge il pensiero ottocentesco e primo-novecentesco al relativismo attuale passa attraverso l’influenza di Nietzsche e Heidegger, i due massimi cultori di ermeneutica. Come tutti sanno, l’ermeneutica, che è dedita all’interpretazione dei testi, ha sempre avuto per oggetto qualcosa di fluido, complesso, non riducibile a dati misurabili. E’ una componente fondamentale della vita culturale, ma il suo rischio è la trasformazione dei testi in pretesti. Chi estende troppo i metodi e l’ambito dell’ermeneutica corre il rischio di inseguire la propria onnipotenza mentale e di uccidere il senso della realtà. E’ molto discutibile l’applicazione dell’ermeneutica agli eventi storici e sociali, la cui corretta interpretazione deve invece tenere conto di dati oggettivi (registrazioni e documenti).

La tendenza filosofica relativista estende l’uso dei metodi dell’ermeneutica sia agli eventi storici sia a tutte le altre forme di conoscenza.  Gadamer mostra interessi umanistici per l’esperienza del conoscere ma anche ripugnanza per le scienze naturali. Per lui l’ermeneutica deve sostituire l’epistemologia. Le correnti ermeneuticiste comprendono autori come i già citati Lyotard e Derrida e altri come Vattimo.

Fra le ascendenze del relativismo occorre considerare anche una seconda area filosofica, questa volta anglosassone, che riguarda la filosofia della scienza e che compie fino in fondo la critica al positivismo. Jervis si riferisce alla critica del ragionamento scientifico che verte sull’analisi sociologica e culturale del mondo degli scienziati. La filosofia e la sociologia della scienza dimostrano che importanti fattori di precarietà fanno parte del mondo della ricerca. Nelle analisi della logica del ragionamento scientifico entrano accordi, convenzioni, consensi e costrutti metaforici. Tuttavia occorre prestare molta attenzione al fatto che mentre questa area filosofica è giunta alla convinzione che nella scienza esista una quota ineliminabile di convenzionalità, i relativisti sostengono che la scienza è solo convenzione.

Questo importante excursus sulle radici culturali del relativismo porta alla conclusione che la sua essenza non deve essere cercata solo nelle opere dei filosofi. La sua principale presenza sociale non riguarda la cultura primaria ma quella secondaria, cioè il consumo delle idee, non la loro produzione. Il relativismo, avido di novità e incline alla loro feticizzazione, si afferma totalmente non in ambito specialistico ma fra la gran massa della popolazione di medio livello di istruzione.

E’ difficile attaccare il relativismo perché si presenta in forma fluida, sfuggente e impersonale; esso non ha centro e non vuole averlo. Le sue manifestazioni tipiche non sono codificate in opere ma diffuse fra articoli di giornali, interviste, discorsi in margine. Il relativismo non è una filosofia ma prima di tutto un’ideologia, cioè un insieme di idee a carattere non formalizzato che costituisce più che altro una mentalità. E’ l’ideologia che apparentemente fa della tolleranza la sua bandiera, negando l’esistenza di qualsiasi verità, evitando di giudicare solo per non dover scegliere.

I principali strumenti espressivi dei relativisti sono i paradossi. Essi evitano il modo di procedere sistematico e le argomentazioni strutturate. Non credono alle competenze professionali e trattano le scienza come un mondo perverso; mescolano fantasia poetica e rappresentazione del reale. Preferiscono l’intuizione alla logica e l’estetica all’etica. Per loro lo studio di matematica, fisica e scienze naturali è superfluo o addirittura nocivo. L’esame sistematico della realtà sociale con inchieste, questionari, statistiche, è assolutamente evitato dai relativisti, che amano le sintesi, non le analisi minute.

Il relativismo è una ideologia che si nutre delle proprie polemiche; i suoi bersagli sono tutti da un’unica parte: quella della razionalità occidentale. Il relativismo appare efficace perché non si espone ed evita di prendere posizioni nette. La sua attività sta nello svalutare l’universo degli oggetti e da questo atteggiamento spiazzante ottiene la sua forza. L’atteggiamento è esattamente contrario a quello dello scienziato. Costui lavora sottoponendo la propria intelligenza e fantasia a un sistema di controlli e verifiche; assume un atteggiamento umile al fine di comprendere i meccanismi della realtà; i relativisti non verificano nulla e valutano solo gli atteggiamenti, non gli argomenti, con criteri moralistici assolutamente antitetici alla oggettività.

Se questo vale dal punto di vista gnoseologico, dal punto di vista etico i relativisti pensano che ognuno possa fare quello che vuole perché non possono esistere criteri di giudizio. Per loro non si possono trovare criteri di separazione fra verità e menzogna, fra giusto e ingiusto, fra sano e patologico. Si interessano solo a particolarità ed eccezioni, a verità locali e settoriali.

La regola etica del relativismo diventa quindi non prendere posizione e non correre rischi, cioè il più completo disimpegno morale.

Dal punto di vista dell’etica pubblica, i relativisti non sono interessati alla legge e alla certezza della pena; sono quindi indifferenti al fondamento della cultura giuridica moderna. Propongono un’etica delle intenzioni e non delle responsabilità. Ricercano buona fede e sentimenti retti e puri. Insistono sul valore della (loro) soggettività e vogliono essere creduti sulla parola (dato che i fatti non sono accertabili). Ciò apre la strada a un individualismo anti-sociale che assume le caratteristiche della volontà di potenza. L’atteggiamento destrutturante che considera la realtà degli oggetti solo come una costruzione sociale non può che piacere ai gruppi che si propongono un fine totalitario.  Infatti, se le certezze sono deboli, se il senso della realtà è debole, se la ragione stessa è debole, resta forte solo il ruolo guida del relativista.

Non c’è dubbio che il Ventesimo secolo sia stato un’epoca molto deludente. Ha deluso la tecnica (creando l’incubo atomico, il rischio ecologico, la paranoia antibiologista); è caduta la speranza di progresso e giustizia sociale (soprattutto con la scomparsa del marxismo); ha deluso uno sviluppo caratterizzato da sperequazioni e consumismo, carenza di fonti rinnovabili e minaccia del riscaldamento globale. Per Jervis ciò spiega la deriva verso proposte culturali caratterizzate da sfiducia verso la razionalità tecnico-scientifica e che quindi sembrano costituire un’alternativa. La società occidentale, attraverso il relativismo che è lo specchio delle sue delusioni, per emendare ed espiare i propri errori viene trascinata lontano dalla sua massima conquista: la contraddittoria e discutibile, ma ancora vitale, tradizione illuminista, con il suo appello universale alla capacità di ragionare in modo autonomo.

Mentre fino alla metà degli anni Sessanta la denuncia dei limiti della razionalità illuminista fu esercitata da soggetti che si muovevano all’interno di essa, come Adorno e Horkheimer, che volevano far leva sulle sue componenti autocritiche, iniziò poi un processo di volgarizzazione delle critiche borghesi alla borghesia che fece riemergere idee utopistiche (fine del lavoro, avvento di società estetizzanti). L’attacco alla modernità nel suo insieme, ai suoi modelli di intelligenza operativa, riportò a galla le ideologie romantiche e irrazionaliste. La caduta dei regimi socialisti fu per molti una specie di “rompete le righe” della razionalità sociale. Dalla critica del “nulla funziona” si passò all’acquiescenza del “qualsiasi cosa funziona”, fino ad accettare i processi di unificazione dei consumi, nel più assoluto disincanto.

A partire dagli anni Ottanta, ciascuno si è sentito libero di scegliersi le proprie credenze, la propria porzione di miti e leggende da difendere dalla critica di chiunque. La debolezza della cultura scientifica, in particolare in Italia, ha favorito l’assimilazione di un orientamento relativista degradato, che consiste nel credere che qualunque idea si equivalga e abbia diritto a una nicchia di credibilità.

La conclusione dell’analisi di Jervis è quindi che il relativismo è una forma di qualunquismo ideologico residuale delle culture politiche di opposizione e una totale rinuncia all’idea di progresso.

Si tratta di una tesi convincente e in larga parte condivisibile che potrebbe quindi portare a dire che la tanto discussa, sbandierata, vituperata o invocata egemonia culturale della sinistra si è spappolata in una miriade di frammenti di discorsi incoerenti, in una fuga dalla razionalità, in una ricerca di rifugio in dimensioni utopiche, in una narcotizzazione delle capacità critiche che ha invaso in modo uniforme l’insieme delle società occidentali, facendosi senso comune e diventando invisibile.

Fra cultura e biologia

Dopo la discussione del rapporto antitetico fra relativismo e tradizione illuminista, che costituisce un’importante idea-forza da far pesare nel dibattito politico-culturale di questi mesi, nel terzo capitolo del libro Jervis affronta la tematica del rapporto fra la sfera culturale e quella biologica nel determinare il pensiero e il comportamento degli esseri umani, nei vari gruppi e culture in cui si trovano a vivere.

Jervis parte dal punto fermo che tutti i popoli meritano il massimo rispetto per i modi in cui sono legati alle proprie tradizioni culturali, che determinano l’espressione dei loro caratteri originali. Il problema sorge quando le idee relativiste in materia diventano una forma di dogmatismo.

Il principio fondamentale del riconoscimento del valore insito in qualunque cultura umana nasce dalle idee di tolleranza che si affermarono nel Seicento e nel Settecento a partire dalla Riforma Protestante e dalle prime formulazioni dell’etica laica, afferma Jervis. Come non essere d’accordo, anche se il cenno alla Riforma meriterebbe un approfondimento, se non altro per la problematicità che questo comporta: da una tradizione religiosa, con cui Jervis non è tenero nelle pagine precedenti e successive, sembra sorgere il seme della libertà e del progresso della comprensione fra i popoli.

A partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, l’idea del carattere universale della dignità della persona, secondo Jervis di derivazione illuminista, è vista come il fondamento della democrazia, e costituisce un baluardo contro il pregiudizio etnico. I primi tentativi di capire la vita di popoli lontani rivelano come i bisogni fondamentali (cibo, riparo, cura dei figli) siano ovunque gli stessi.

La scoperta della sostanziale unità psicologica della specie umana è condivisa dal relativismo culturale? Assolutamente no. Pur essendo un discendente del pensiero della modernità, si dissocia in modo sostanziale da questa tradizione. I relativisti non si riallacciano all’universalismo del pensiero laico dell’epoca dei Lumi, ma hanno un’idea particolaristica e romantica dei popoli e dei paesi. Non credono che i modi di ragionare siano ovunque gli stessi: preferiscono ritenere che differiscano, e di molto, a seconda delle culture. Per loro la forza delle diversità prevale sui diritti dell’uguaglianza. Non negano che esistano strutture psichiche o mentali di ordine naturale che accomunano gli uomini, ma ritengono che siano meno importanti rispetto alla dimensione culturale con la sua variabilità. Ciò che contraddistingue l’uomo, per il relativismo, è la non uniformità di leggi e strutture naturali. Questa convinzione si basa sugli studi dell’antropologia culturale americana del periodo fra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento che, pur avendoci arricchiti di un lascito importante di idee, si basava su dati in gran parte superati.

La scuola antropologica culturale statunitense nasce dall’opera di Franz Boas, i cui scritti liberarono lo studio delle società umane dall’evoluzionismo ingenuo. Egli restituì dignità alle popolazioni più lontane dal mondo occidentale; ma i suoi allievi furono meno cauti quando radicalizzarono la sua impostazione. In particolare gli scritti di Ruth Benedict e Margareth Mead ebbero successo non per il rigore di indagine ma per la passione ideologica.

Cardini della loro impostazione erano l’idealizzazione romantica della loro indagine e la convinzione che la mente dell’uomo fosse libera da influenze biologiche e venisse interamente plasmata fin dall’infanzia da fattori storici e ambientali. Ciò dava origine al mito della felicità dei primitivi e all’esortazione a tornare anche in Occidente ad una vita più semplice e spontanea. Lo strumento per creare una società migliore doveva essere la riforma dei metodi educativi. Fu stabilito il primato assoluto dei fattori storico-culturali a scapito di quelli biologici e naturali. Fu persino teorizzato che esistessero differenze nella strutturazione psichica dei popoli. L’idea di base era che in ogni cultura gli individui sentono e pensano in modo diverso, cioè relativamente a quella cultura.

Margareth Mead e Gregory Bateson sostennero che le emozioni, contrariamente a quello che pensava Darwin, non sono l’espressione naturale del substrato biologico della mente, ma nascono anch’esse all’interno delle convenzioni culturali. Il desiderio dei culturalisti era di opporsi a Darwin, allontanando la mente umana (nobilitata dalla cultura) da quella animale (legata agli istinti).

Successivamente, negli anni Sessanta, emerse la cosiddetta anti-psichiatria, i cui esponenti erano sospinti dal desiderio di trovare esclusivamente nell’ambiente culturale la causa delle disfunzioni psichiche, negando ciò che le evidenze sperimentali affermano con grande chiarezza, cioè la persistenza delle manifestazioni dei disturbi mentali che si presentano con grande costanza fenomenologica in tutte le culture. Anche quando l’anti-psichiatria tramontò, parte dell’opinione pubblica si mantenne fedele alle idee relativiste più estreme espresse in materia, in netta opposizione verso la razionalità occidentale.

La principale componente di indirizzo degli studi antropologici recenti è data invece dalla rivalutazione della prospettiva darwiniana. La rivincita del naturalismo ha solide basi e molti aspetti, anche se il grosso pubblico è totalmente inconsapevole della rapidità con cui si vanno affermando nuove acquisizioni nel campo delle neuroscienze, delle scienze cognitive, della genetica, dell’intelligenza artificiale e degli studi sul comportamento.

La ricerca scientifica contemporanea dimostra che nonostante si possa essere perfettamente d’accordo sul fatto che le differenze fra le culture esistono, sono importanti e dipendono da fattori storico-geografici, non da fattori biologici, tuttavia esistono fattori unificanti che limitano le l’importanza delle differenze fra le culture. Il nostro cervello è praticamente identico per tutta la specie umana. Se ragioniamo e prendiamo decisioni, magari complesse, magari intelligenti ed efficaci, non avviene perché riusciamo ad adeguarci alle astratte virtù della Dea ragione e neppure perché aderiamo alle convenzioni delle culture. Ci arrangiamo ed otteniamo buoni risultati razionali grazie a mille verifiche e correzioni, a partire dal fatto che spontaneamente pensiamo in certi modi.

Le strutture mentali di cui disponiamo ci indirizzano verso certi risultati, non necessariamente ottimali. Non esiste una mente o psiche in astratto, né una razionalità generale, esistono invece la molte capacità operative di una specie animale evoluta, dotata di un cervello straordinario ma pieno di particolarità.

Gli studiosi di oggi non si stancano di ripetere che natura e cultura non sono, come invece era scontato in passato, due mondi diversi né tanto meno due categorie contrapposte: in ciascuno di noi la predisposizione genetica e l’influenza dell’ambiente sono aspetti, non sempre separabili, di una sintesi dinamica che definisce le caratteristiche fisiche e psicologiche di ogni singolo essere umano.

Questa dura lezione di realismo che la scienza contemporanea ci dà non può essere elusa con fughe nel fantastico o rifiuti cocciuti. Sebbene serpeggi nelle pagine di Jervis una certa metafisica materialista che, come tutte le metafisiche, deve essere tenuta ben lontano dal terreno delle indagini scientifiche, il richiamo dello psicologo al valore indiscutibile dei risultati della ricerca scientifica non può essere ignorato, a patto di intendersi bene su cosa siano l’impresa scientifica, il suo senso, il suo insostituibile ruolo sociale e i suoi limiti. Nessuna indagine scientifica potrà mai sostituire la riflessione filosofica su ciò che possiamo conoscere né sul valore delle nostre esistenze esattamente come solo la ricerca scientifica ci potrà assicurare un metodo per capire nel miglior modo possibile in un determinato momento storico la natura che ci circonda e che ci costituisce. Solo tenendo ben presente che non è possibile fare alla scienza domande di senso, si potranno accogliere con fiducia le sue descrizioni della costituzione dell’Universo, sapendo che la nostra natura biologica ne fa assolutamente parte.

Jervis non manca di riportare alcuni esiti delle ultime ricerche sulla natura umana che sollevano interrogativi inquietanti, proponendo interessanti prospettive. Si pone innanzitutto in modo pressante il problema della tolleranza reciproca fra gruppi e popoli che risulta meno facilmente risolvibile di quanto pensassero gli illuministi del Settecento. Sembra che le radici dell’intolleranza sociale siano legate a fattori naturali. L’indagine circa i fondamenti della socialità in una prospettiva evoluzionistica neo-darwiniana ha confermato la presenza di costanti universali nel modo di stabilire la solidarietà di gruppo. La diffidenza verso i gruppi estranei è un atteggiamento risorgente in modo spontaneo, per una funzione di adattamento evolutivo perché per innumerevoli anni il trattare gli sconosciuti con cautela è stato un modo per sopravvivere.

E’ per motivi assai complessi che abbiamo bisogno di un gruppo, o di una collettività omogenea e non troppo vasta, che ci protegga e ci dia forza di identità: questa esigenza comporta di fatto un confine oltre il quale collochiamo le persone che non consideriamo del tutto simili, in un certo senso, delimitiamo il nostro “prossimo” creando piccoli e grandi “clan culturali” stratificati e intrecciati. Bisogna prestare molta attenzione nel cogliere l’importanza non banale della prospettiva a cui Jervis si riferisce, al di là della coscienza personale, nella zona nebulosa di definizione dell’”io” e del “noi”, dove si formano le psicosi sociali che portano ai grandi drammi della Storia. Non è possibile illudersi di affrontare in modo moralistico queste problematiche o con esortazioni alla tolleranza. La Storia insegna che così facendo si va incontro alle catastrofi. Lo stato di sovraffollamento del pianeta rende drammatica l’esigenza di capire realmente le società umane, sulla base dei dati culturali e biologici, per imparare a governarne i limiti in modo da arginarne i difetti. Non ci possiamo permettere di rinunciare all’uso della ragione sulla base della conoscenza dei fatti. Solo il metodo del confronto ragionato e oggettivato può assicurare una base solida grazie a cui scongiurare il pericolo degli avventurismi demagogici e autoritari.

Come esempio di applicazione pratica, Jervis descrive come un fattore storico nuovo possa fondare impreviste ricchezze di dialogo e permettere singolari possibilità di intesa fra persone appartenenti a popoli e culture diversi. La tendenza di fondo a chiudersi in raggruppamenti localistici o familistico-tribali, è controbilanciata dalla proposta universalistica avanzata dal mondo informatizzato attuale. La tecnologia delle telecomunicazioni impone una rottura dei confini che separano le collettività tradizionali: si tratta di una straordinaria novità storica. La globalizzazione implicita nelle comunicazioni istantanee e nella generalizzazione delle regole dell’economia liberale esige che sia possibile dare fiducia a persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza. Nei cinque continenti esistono milioni di persone che condividono lo stesso tipo di razionalità, un linguaggio di base (l’inglese internazionale) e una serie di conoscenze tecniche. Essi prendono sul serio il proprio lavoro dando ovunque lo stesso significato a parole come “scrupolosità” e “esattezza”.

Gli aspetti formali di questo tipo di relazioni non sono sufficienti a soddisfare tutte le nostre esigenze di rapporti umani, ma certamente scompigliano gli effetti di confini tradizionali troppo ristretti, potenziali incubatrici di conflitti.

Dovunque esista un buon livello di istruzione, dove si sia aperti alla cultura scientifica e quando si sia stabilmente interiorizzata un’etica della responsabilità individuale, questa “strategia della fiducia” fra persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza funziona così bene da prevalere sui solidarismi “tribali” tradizionali e sui sistemi localistici e clientelari. Le componenti di queste nuove forme di cooperazione fra estranei sono, sul terreno oggettivo, le reti informatiche e la mondializzazione dei beni ad alta tecnologia e, sul terreno soggettivo e psicologico, alcune razionali e semplici regole di lealtà e strutture relazionali di dialogo, basate su aspettative di reciprocità.

Il modo di argomentare di Jervis appare molto lontano da ciò a cui siamo abituati da circa trenta anni. Non trasuda buoni sentimenti, non vuole creare società perfette né tornare ad età dell’oro perdute. E’ un pensiero da “artigiano”. Con mezzi apparentemente poveri, ma con atteggiamento serio e responsabile, si ripromette di migliorare la vita delle persone, scongiurando i pericoli più imminenti e più gravi. Analisi dei fatti, studio dei costi e dei benefici, limitazione dei danni, valorizzazione delle risorse, ovvero pensiero riformista che risale alla grande tradizione dei Lumi.

Per i cristiani è troppo poco? Sul piano dell’annuncio della salvezza non c’è dubbio. Manca completamente ogni afflato profetico. Ma il grande equivoco della nostra generazione è la convinzione che l’annuncio dell’Evangelo possa essere giocato sul piano “politico”.  Il Regno di Dio, che deve iniziare qui e ora nell’attesa del suo compiersi, non può essere istituito né con rivoluzioni né con riforme politiche. La Storia ha dimostrato che le rivoluzioni non servono nemmeno a migliorare le condizioni di vita degli esseri umani ma le intelligenti e decise riforme, sì. Questa, comunque, è un’altra questione rispetto al Regno di Dio.

Consenso disinformato

Nel quarto e ultimo capitolo del libro, Jervis affronta l’esame delle proposte “pratiche” avanzate in ambito relativista. Più che di proposte o programmi, in realtà si tratta di appelli a “tornare indietro” e a ribellarsi contro il “fondamentalismo scientista”, a denunciare la “razionalità scientifica” e la “logica mercantile”, ad abbandonare l’idea della produttività e a sostituire il dono al commercio, a uscire dallo sviluppo e dall’economicismo. I metodi da applicare sarebbero ovviamente bonifiche interiori e non interventi sulla realtà. Fra le varie ricette proposte, si trovano le più sfrenate stravaganze come, per esempio, il ritorno alle posate di legno, che anche Heidegger amava, o il ritorno al politeismo contro il monoteismo sciagurato, e il richiamo alla vita felice dei cacciatori e raccoglitori.

Tutte queste esortazioni o perorazioni non hanno ovviamente la minima traducibilità pratica; invece risultano molto potenti nel creare il clima culturale che si nutre proprio di questa impressione di buoni intenti e bei pensieri, che allontana sempre più dalla realtà e crea una vera narcosi sociale.

Gli appelli a vivere sobriamente e a limitare i consumi superflui non cambiano assolutamente gli equilibri ma influiscono sul dibattito politico, determinando un’illusione di incisività. Da sempre esiste in politica l’atteggiamento critico basato su nobili vaghezze e grandi principi che mira non a far ragionare ma a chiedere fiducia. Si tratta in fondo di un atteggiamento autoritario. L’atteggiamento opposto si basa sull’esame dei problemi e l’elaborazione di programmi da esporre in modo comprensibile, richiedendo un’adesione critica e consapevole. Ad ostacolare la concretezza intervengono da decenni i relativisti che gettano sfiducia sulle conoscenze dichiarandole incerte e provvisorie per favorire certezze di altro tipo.

Se si vuole reintrodurre nella dialettica sociale un po’ di principio di realtà non è possibile basarsi su altro che non sia una paziente educazione allo sviluppo del senso critico degli individui, sperando che lo esercitino. Uno degli ingredienti più importanti della democrazia è costituito dalla qualità dell’educazione. I cittadini sembrano tanto più in grado di ragionare con la propria testa quanto più hanno un buon livello di istruzione. Nel criticare la scienza e ogni pretesa di oggettività, i relativisti si allineano a richieste (per esempio a favore dell’omeopatia gratuita o per lo smantellamento delle centrali nucleari) che risentono delle pressioni dei ceti più incolti e di coloro che non leggono né libri né giornali.

Sia i movimenti di opinione più allarmisti sia i manipolatori di informazioni televisive, inclini a usare la demagogia per fini populistici, approfittano della mancanza di cultura scientifica per mobilitare il consenso “disinformato” di milioni di persone.

Accade che una parte cospicua della popolazione, non interessata a cogliere la difficoltà e complessità di determinati temi, rischia di cadere preda dei manipolatori dell’opinione pubblica.

La democrazia ha varie componenti e i suoi vantaggi emergono dall’interazione di istituzioni di consultazione, di deliberazione e di controllo. Solo i populisti, i quali amano il proprio potere assai più che le istituzioni democratiche, ritengono che la volontà della maggioranza abbia un carattere di investitura plenipotenziaria nei loro confronti, contro ogni prospettiva di ascolto di chi è portatore di conoscenze specialistiche, che si formano solo in lunghi anni di duro lavoro, grazie all’applicazione costante di un metodo rigoroso.

I demagoghi di oggi fanno affidamento sia sul basso livello di istruzione di una parte cospicua della popolazione sia sull’acida ideologia scettica della media cultura nei confronti dell’indagine razionale della realtà.

Conclusioni

Al termine della lettura di questo libro, è possibile compiere una duplice riflessione.

Da una parte si è constatata l’estrema utilità delle tesi sostenute da Jervis a sostegno dell’esistenza di un rapporto antitetico fra la tradizione dell’Occidente che risale ai Lumi e il relativismo culturale. La chiesa cattolica non sembra aver mai dimenticato le sue astiose ragioni polemiche contro l’illuminismo; lo si è potuto toccare con mano anche recentemente, leggendo le polemiche e gli attacchi riportati dai giornali durante l’estate.

Il rapporto implicitamente istituito dai pensatori cattolici tradizionalisti fra la breccia aperta dall’illuminismo nei bastioni della “città cristiana” e l’attuale dilagare del relativismo culturale è assolutamente da respingere. Non solo la tradizione dei Lumi e il relativismo si presentano come l’uno il rovesciamento dell’altro ma, anzi, quest’ultimo è un rampollo della famiglia degli irrazionalismi. Bisogna invece capovolgere l’argomento polemico, denunciando come il relativismo sia un attacco contro l’uso della razionalità occidentale nella progettazione di migliori condizioni di vita per gli esseri umani e contro il radicamento e la diffusione dei metodi di governo democratico delle società umane.

Questo non significa, naturalmente, che il relativismo culturale non vada identificato come un pericolo reale e combattuto di conseguenza; ma prima di tutto deve essere riconosciuto per quello che è. Proprio in questo sta l’utilità del saggio di cui ci stiamo occupando.

La seconda riflessione riguarda la tesi sostenuta da Jervis riguardo alla primazia dell’illuminismo nella scoperta del carattere universale di valori fondamentali come la ragione umana o la dignità di tutte le culture. Non c’è dubbio che la dimensione universalista fosse ben presente e viva nei pensatori illuministi e nelle loro opere. Tuttavia non si può passare sotto silenzio la radice cristiana dell’elaborazione del concetto di etica democratica (vedi l’articolo Dans quelle misure l’Europe est-elle chrétienne di Guenther Schmidt pubblicato il mese scorso in traduzione italiana su Riforma&Risveglio). L’etica democratica, concezione politico-morale alla base delle democrazie moderne, si basa sulla scoperta e sulla difesa da parte del cristianesimo della dignità della persona umana, indipendentemente da ogni condizione e su basi universali. Il valore e la dignità di ogni persona, per il solo fatto di essere nata, sono inalienabili e non negoziabili. Solo su questa condizione, riconosciuta universalmente, è possibile pensare di fondare la società autenticamente democratica.

Queste sono le radici cristiane dell’Europa, ma questo è anche il dono universale che il cristianesimo ha fatto al pensiero e alla prassi politica dell’umanità. In questo senso la pur grande tradizione illuminista si viene semplicemente innestando in un movimento più vasto, apportandovi contributi fondamentali e irrinunciabili, soprattutto con le sue correnti meno rigide e più aperte, ma senza poter vantare diritti di primogenitura nell’aver compreso il desiderio e il bisogno di libertà, di uguaglianza e di fraternità di tutti gli esseri umani.

 

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