Coppi, Bartali & C. Quando l’Italia somigliava ai suoi campioni

Da bambino tifavo per Vito Taccone. Il meglio di sé lo aveva dato giovanissimo, nel 1963, quando vinse cinque tappe al giro d’Italia, di cui 4 consecutive, un’impresa straordinaria. Ma dopo quell’anno le vittorie furono più rare e il camoscio d’Abruzzo trovò il modo di farsi apprezzare soprattutto nello storico programma Processo alla Tappa nel quale, debitamente incoraggiato dal conduttore Sergio Zavoli, esprimeva con spontaneità il carattere sanguigno e un’autentica vena polemica. Quel programma è entrato nella storia della televisione e del giornalismo.

Il ciclismo era ancora un fatto di costume importante, inciso nella cultura popolare, anche se il calcio cominciava a prendere il sopravvento come sport nazionale. Il duello del secolo, quello tra Gino Bartali e Fausto Coppi, era terminato da poco, anche se per me quei due erano già allora figure mitiche che si perdevano nella notte dei tempi, tanto lunghi sono una quindicina d’anni nell’immaginazione di un bambino.

Del resto la mancanza della televisione, la descrizione delle loro imprese per radio, che lasciava alla gente la possibilità di togliere le briglie all’immaginazione e di vederli scalare le montagne su strade bianche appese ai dirupi, li aveva resi miti già mentre correvano. La frase scolpita per sempre nella storia del ciclismo, del giornalismo e della radio la pronunciò il radiocronista Mario Ferretti durante la tappa Cuneo Pinerolo del giro del 1949, forse la più grande impresa ciclistica di tutti i tempi: “Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”.

In quegli anni venivano inviati al giro i grandi scrittori. Quell’anno lì, il 1949, per il “Corriere della Sera” c’era Dino Buzzati le cui doti di scrittura emergevano con eccelsa bravura anche nel lavoro di giornalista. In quella celeberrima tappa, la Cuneo Pinerolo, di 254 chilometri, si dovevano scalare cinque passi alpini: Maddalena, Col du Vars, Col d’Izoard, Monginevro e Sestriere. Coppi andò in fuga solitaria per 190 chilometri e arrivò al traguardo con grande distacco sul suo grande rivale. Buzzati dedicò alla sconfitta del campione toscano parole memorabili. Iniziò così il resoconto: “Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille. È troppo solenne e glorioso il paragone? Ma a cosa servirebbero i cosiddetti studi classici se i loro frammenti a noi rimasti non entrassero a far parte della nostra piccola vita?”.

E così lo concluse: “Un vinto, oggi, Bartali, per la prima volta. E questo è amaro anche perché ci ricorda intensamente la nostra comune sorte. Oggi per la prima volta Bartali ha capito di essere giunto al suo tramonto. E per la prima volta ha sorriso. Coi nostri occhi, passandogli accanto, abbiamo constatato il fenomeno. Uno dal bordo della via lo ha salutato. E lui, voltando un po’ la testa da quella parte, ha sorriso: lo scorbutico, lo scostante, l’antipatico, l’intrattabile orso dall’eterna grinta di scontento, proprio lui ha sorriso. Perché lo hai fatto, Bartali? Non sai di aver distrutto così l’ispido incanto che ti difendeva? Gli applausi, gli evviva della gente ignota cominciano a esserti cari? Così terribile è dunque il peso degli anni? Ti sei arreso finalmente”.

E qui non si sa se ci smuove di più il ricordo di Ginettaccio, la bravura di Buzzati, la nostalgia per il mondo che non c’è più, o tutte queste cose insieme.

Bartali era dato per vecchio da subito dopo la guerra. Buzzati non era stato il primo a celebrarne la sconfitta come quella di un eroe. Già nel 1947 Indro Montanelli, inviato al Giro, commentando la tappa Pieve di Cadore Trento nella quale il campione toscano era stato superato da Coppi, scriveva: “… il declinante <solitario della montagna> non era né fresco, né giovane, né elegante. Anche lui vedemmo perdersi laggiù per la verde serpentina, ma non volando. Per la prima volta nella sua vita egli affrontava le curve col freno alla mano, stranamente incerto sul gioco della forza centrifuga e centripeta. Tutti sapevano che Bartali in quel momento aveva già perso la maglia rosa. Egli sentiva di aver perso qualcosa di più: la giovinezza”. E dopo aggiungeva: “Bartali sul Pordoi è l’Inghilterra del 1940 sotto gli Stukas. Non vive più che d’orgoglio”.

Ma Bartali smentì tutti con una carriera che proseguì ad altissimi livelli fino al 1954, l’anno del ritiro e nel 1948 firmò la sua impresa più grande, la sua seconda vittoria al Tour de France.

Il toscano aveva iniziato male e a un certo punto il giovane francese Luison Bobet, di lì a poco destinato a diventare un altro gigante del ciclismo, lo sopravanzava di venti minuti nella classifica generale. Dall’Italia arrivò la notizia che c’era stato un attentato al segretario del partito comunista, Palmiro Togliatti. Il paese sembrava sull’orlo della guerra civile. Dice la leggenda che il toscano ricevette una telefonata da De Gasperi in persona che gli chiese di vincere il Tour, o almeno la tappa dell’indomani. Bartali promise e il giorno dopo vinse il tappone alpino da Cannes a Briançon. Dice ancora la leggenda che quando la notizia arrivò in Italia la tensione si stemperò, e la rivoluzione fu rimandata a data da destinarsi. Alla fine Bartali vincerà quel Tour, con altre tre tappe, infliggendo al secondo, il belga Schotte, ventisei minuti di distacco, differenze che nel ciclismo di oggi non sarebbero pensabili. Erano passati dieci anni dalla sua prima vittoria nel 1938, prima della guerra. A parte i riflessi sociali che ho detto, che l’hanno resa anche più famosa, sul piano sportivo un’impresa fantastica, tra le più grandi di sempre.

Scrivo e mi accorgo che, senza volere, esce fuori la mia simpatia per Bartali nel duello sportivo del secolo. Forse solo perché mi pare che i suoi meriti sportivi siano un po’ troppo sottovalutati rispetto a quelli di Coppi. E va bene, Fausto è stato più completo. Sul passo e a cronometro non c’era confronto. Gino non avrebbe mai potuto fare un record dell’ora o vincere un mondiale dell’inseguimento, come era riuscito al rivale. Ma nelle classiche e soprattutto nei grandi giri, quelli che da sempre differenziano i fuoriclasse dai normali campioni, non gli è stato da meno. Mi sentirei quasi di dire che in salita Bartali era un tantino superiore. O no? Non entro in dettagli, spero di non suscitare un vespaio tra i lettori appassionati.

In quell’Italia del primo dopo guerra le simpatie erano anche un po’ su base ideologica, forse meno tra il popolo degli appassionati che tra gli intellettuali e i giornalisti, e va da sé che la maggior parte di questi ultimi stessero per Coppi, per stile di vita e carattere più adatto di Bartali, cattolico militante (gira voce che Togliatti stesse per lui però), a rappresentare la modernità che si andava affermando.

Gianni Brera, il più grande dei giornalisti sportivi, e uno dei più faziosi, detto con tutta la simpatia umana e l’ammirazione per lo scrittore, era spudoratamente coppiano e non ha mai avuto parole di grande simpatia per i’Jino. L’amicizia per il campione di Castellania l’ha espressa nella bella biografia romanzata Coppi e il diavolo, dove ne ha raccontato le gesta con l’inventiva e la capacità di scrittura che poche altre volte ha imprestato alla narrativa. Chissà se il ricordo del paragone omerico di Buzzati non gli ha ispirato questo altro con il quale, molti anni dopo, descriveva le conseguenze dell’amore proibito di Coppi per la “Dama bianca”, la signora Giulia: “Pedala Fausto, per la micca e per il caviale, come sempre, e dai margini lo si sfotte: con allegra bonomia se si è di parte giusta, con astiosa avversione se si è bartaliani o paolotti. L’immagine dell’atleta incorrotto si degrada fino alla cronaca nera. Achille può avere un amico diletto ma non già coricarsi con Briseide”.

A seguire il giro c’è stato anche Vasco Pratolini, nel 1947 e nel 1955, quello della terza e ultima vittoria di Fiorenzo Magni, e Anna Maria Ortese, sempre nel 1955, inviata per l’Europeo. E poi ancora Manlio Cancogni, e Alfonso Gatto, e altri che non ricordo più.

Sarebbe possibile oggi raccontare lo sport come veniva raccontato una volta? “Eh, ma i tempi sono cambiati”, direte voi. A me comunque nessuno ha chiesto niente prima, e capire chi li ha cambiati, e perché, è diventato il mio hobby principale. Certo, un gioco insolubile, come quello degli scacchi, un’altra vecchia passione. E forse di quelli non meno inutile. Ma per me divenuto necessario, oggi più che mai.

Strappo questi pensieri sportivi allo stato di forte preoccupazione e agli altri sentimenti, quasi totalizzanti e alcuni indicibili, che mi procura il momento che stiamo vivendo, un altro cambiamento senza consenso. Provo a riappropriarmi così di qualche momento di leggerezza che alcuni alieni, intrufolati tra noi uomini di nascosto, vorrebbero togliermi. Cerco rifugio in un mondo che sicuramente ho idealizzato, e che male c’è, ma sono comunque certo che fosse un po’ migliore di quello nel quale vivo adesso. Che non è neanche il mondo del proverbiale “ai tempi miei”, ora che invecchio, ma è ancora quello di mio padre. Lo so che i semi dell’oggi erano già piantati, ma i frutti avvelenati ci hanno messo del tempo a maturare e quella generazione poteva dirsi ancora sana (o almeno asintomatica).

Le strade serpeggiavano in mezzo a montagne e colline ancora incontaminate da antenne, pale eoliche e quant’altro, attraversavano gli appennini, costeggiavano i laghi, percorse da pochi veicoli, tanto pochi che delle volte soltanto quelle grosse pietre miliari bianche con le scritte nere ti davano il segno che eri ancora sul percorso giusto. Ho fatto in tempo a vederle da bambino in quei viaggi epici con la seicento tra il granducato di Toscana, lo stato pontificio e il regno delle due Sicilie. Era un’Italia stupenda. E siccome questo nelle intenzioni vorrebbe essere un articolo lieve, me la cavo dicendo solamente che lo era perché nei paesi le porte di casa si tenevano aperte.

Il boom economico ci sarà anche stato, altrimenti noi non avremmo posseduto un’utilitaria, ma tra quelle valli e quei monti, non ancora intasati dal traffico, non ci si accorgeva. Quelle strade, per suggestioni pervenutemi chissà da dove, le immaginavo sempre percorse dai ciclisti del giro d’Italia. Su ogni salita, in ogni tornante, c’erano corridori visibili solo a me. E la fantasia correva anche alle altre del nord che avrei conosciuto solo tanti anni dopo, alle salite delle Alpi e delle Dolomiti. Poi andavo a rivederle sulla cartina. Ho conosciuto l’Italia così.

Riavvolgo il nastro e mi accingo a seguire la stagione che inizia facendo finta di non sapere che i corridori devono buttare la borraccia solo e soltanto nell’apposita area verde per non turbare l’equilibrio dell’ecosistema, che prima di attaccare in salita controllano al computer se stanno dentro nei parametri, che appena finiscono la corsa mettono su la mascherina per le interviste, e tante altre cosette che un po’ di poesia la toglierebbero pure. Ma quando tra poche settimane i più forti scatteranno sul Poggio e poi si butteranno giù a rotta di collo nella picchiata verso Sanremo il cuore batterà forte come sempre. Perché in fondo quel trabiccolo, la bicicletta, è sempre lo stesso, e anche gli uomini lo sono.

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