di Piero Nicola
Ci sono ottimi motivi per riesumare Ugo Ojetti, illustre nel giornalismo, nella cura dei nostri monumenti e opere d’arte, scrittore d’un romanzo (Mio figlio ferroviere 1922), buon estensore di critiche estetiche, di aforismi, d’un florilegio di articoli testimonianti il suo tempo (Cose viste 1923-39), collaboratore e anche direttore del Corriere della sera (1926-27), fondatore di riviste culturali, organizzatore di rassegne artistiche, Accademico d’Italia dal 1930, Presidente del Vittoriale, ed altro ancora. Ma ci interessano soprattutto I taccuini (1914-43) pubblicati nel dopoguerra: libere e private annotazioni, che riceviamo sempre più rare e interrotte circa due anni prima della sua morte, avvenuta nel gennaio 1946.
Da questi appunti e impressioni di borghese agiato, trentenne agli albori del secolo scorso, volontario e decorato della prima guerra mondiale, romano de Roma stabilitosi a Firenze, frequentatore della varia società intellettuale, politica, mondana, ebrea, antifascista, nonché della regia Corte, si può ricavare una lezione sul significato di civiltà e del suo buon governo.
Luglio 1919: “Chiedo al controllore [del treno]: – Scioperate? Sarebbe un delitto. Avreste contro tutto il paese. – Mi risponde: – Se il governo ci difende da queste poche centinaia di energumeni che minacciano noi, le nostre famiglie, perfino i ragazzi, noi si lavora. Bisogna che il primo manigoldo che viene a intimidirci sia messo dentro, e per molto. E tutto andrà tranquillo – (…) Hanno tolto le fotografie della guerra. Della guerra non si deve più parlare. Una striscia di carta azzurra, e addio morti!”
“Salvemini ch’era qui a colazione con Umberto Zanotti, sostiene che fra un anno avremo una reazione diffusa e violenta in tutta Italia (…) Io credo che quassù [Italia centro-settentrionale] ci vorrà più tempo e qualcosa di meglio della reazione per ricondurre questi puri teppisti alla Settignanese sulla via della ragione”.
Firenze, gennaio 1920: “Oggi il senatore Lustig mi sosteneva che il prefetto ha fatto bene a permettere il comizio. Non lo credo. Malatesta ha preso a pedate il parlamento e il gruppo socialista, ha incitato alla rivoluzione immediata (…) Chi lo ha udito, non ha certo pensato: – Che modello di libertà questo governo italiano! -, ma ha detto: – Che vigliacco e che impotente questo governo italiano – (…) E agirà per logica deduzione da queste premesse”.
“L’umanità si ritrova idiota e brutale come è sempre stata. Telegrafi, ferrovie, automobili, giornali, eleganze, viaggi e libri a buon mercato, abbondanza di comodi e di grasce: tutto è scomparso. Tornerà. Ma chi ha veduto il mondo così com’è in questi giorni e in questi mesi, faticherà molto a riprendere le sue illusioni e a ritrovarvi la sua pace. Leggevo i due decreti del Prefetto (…) Mi sono letto il capitolo dei delitti ‘contro la patria’ e quello dei delitti ‘contro i poteri dello stato’. V’è l’elenco di tutti gli atti che liberamente, alla luce del sole, vengono commettendo in questi giorni gli scioperanti, i loro capi e propagandisti. E poi c’è chi si domanda perché non si crede più alla santità della patria e all’autorità dello stato. Ma se non ci crede più il governo…”
Firenze, giugno 1921: “Omaggio delle bandiere decorate di medaglia d’oro, a Dante (…) Spettacolo superbo. Tutte le vie pavesate, piene di folla. E fiori sulle bandiere. Fan più effetto sul popolo queste cerimonie che mille discorsi elettorali (…) È sembrato proprio che i secoli fossero aboliti. E Dante ci aspettasse, vivo. Ma valla a spiegare a Benedetto Croce, un’emozione così…”
Tale stato di spirito generoso, essendo coltivato, impone la coerente pratica della rettitudine.
“Una vecchina del popolo, nella folla, ha detto: – Dante può esser contento… – E un’altra rideva d’una altra commare: – Ieri gl’era comunista arrabbiata (…) Oggi batte le mani e pesta i piedi e si porterebbe a letto tutti i bersaglieri”.
Ottobre 1922: “Fra due mesi, con le elezioni fatte da un governo magari Facta o da un governo Giolitti con cinque o sei fascisti, i fascisti avrebbero avuto legalmente tutto il potere che volevano. Per non perdere questi due mesi occorreva la rivoluzione?”
Ma poi: “C’è tanto ardore e tanta passione nei più di questi giovani e tanta volontà di bene nei più dei loro capi, e la stupidità del parlamentarismo è da tanti anni tanto disgustosa e in tanti scritti io l’ho tante volte derisa e bollata, che bisogna aspettare per giudicare”.
Il Corriere è contrario all’impresa. “Forse siamo davanti a un’eclissi della libertà”.
Marzo 1923: “Io, per me, son felice di non essere ancora andato da Mussolini. Egli sa la mia stima e, per quel che vale, il mio consenso; ma non può dire che io sia andato a genuflettermi per chiedergli qualche grazia. Deve aver la nausea ormai degli adulatori”.
Giugno 1923: “Ho veduto anche Mussolini. M’è ancora una volta sembrato poco sincero e troppo teatrale (…) Gentile, non posso negarlo (…) Gli ho detto: – Desidero che ella mi consideri, per quel poco che io valgo, un amico. Oggi o fra dieci anni, un amico. – Lo so. E vi ringrazio cordialmente. – M’ha teso la mano, sono uscito”.
“Con questo Corriere della sera che ho incollato sul petto e sulle spalle, da venticinque anni, è naturale, o quasi, che io sia tenuto se non in sospetto, in disparte”.
1924: Delcroix grande invalido di guerra: “Quell’immobilità, quel volto chino, la tragicità di quel cieco senza mani, subito prendono gli animi degli ascoltatori, e quel che c’è di buono in ciascuno di loro viene a galla e trema sullo specchio della coscienza. D’un colpo, per quell’incanto, si vorrebbe essere migliori (…) Ma uno spettacolo altrettanto commovente era il volto di Cadorna, lì a capo tavola (…) Non avevo mai parlato con Delcroix un po’ a lungo. La moglie esile, magra, un’ardente che bada a spegner se stessa, era alla destra di lui, lo imboccava, gli asciugava le labbra, la fronte se la vedeva sudata, gli dava da bene. Anche a Nicolodi dava da bere e lo avvertiva di quel che aveva dinanzi”.
“Tutti ripetono che è stato il re a volere subito agl’Interni Federzoni: un nazionalista che, come tutti i nazionalisti, non perdona in cuor suo a Mussolini d’aver imprigionato il nazionalismo nella bolgia fascista, e si considera sangue azzurro al confronto di questi plebei…”
21 giungo 1924: “Oggi Herriot vedrà McDonald a Londra, e s’accorderanno sul migliore modo di combattere, senza parere, il fascismo. Ma l’uno e l’altro vorrebbero fare a meno d’avere i difficili parlamenti che hanno”.
1925: “Luigi Albertini [direttore del Corriere]: cortese ma chiuso. Sospetta di me perché non mi gitto a mare accanto a lui, giurando che Mussolini è un assassino, un ignorante e un farabutto. E chi sa che cosa gli raccontano di me, in questo tempo in cui, l’Italia essendo tagliata in due con un fangoso fosso nel mezzo, le più strampalate fandonie corrono su tutti noi, da Mussolini allo stesso Albertini”.
Alberto Pirelli: “Mi narra d’aver detto a Mussolini: – Lei è stato un grande chirurgo. Tutta l’Italia gliene è grata. Ma adesso faccia il medico, non mostri al paese ogni mattina il bisturi. – Di Luigi Albertini dice che talvolta sembra accomodevole, ma dura poco. A. è convinto che l’‘estero’ non permetterà mai la rivalutazione della lira finché governano i fascisti”.
A questo punto, si capisce che il beneficio della concordia civile e la stessa saldezza del regime dipendevano da una messa al bando degli avversari.
“Rocco, Federzoni e altri ministri hanno all’unanimità detto che io solo posso oggi dare ai lettori del Corriere la sicurezza della continuità nell’educazione, nella discrezione e nella veridicità del giornale”.
Egli rifiuta, ma l’anno successivo accetterà.
1926: Mussolini gli dice: “Vedrà che faremo di Roma in vent’anni. – Vibra tutto, a petto gonfio, a testa alta, felice. È un innamorato di Roma (…) Tra cinque, tra dieci, tra quindici anni… I ministri d’una volta non potevano dire nemmeno tra un mese. – I romani lo sanno. È gente felice. Lavora, sta bene, è certa del domani – (…) Egli si sforza a trovare un vicemussolini per ogni regione o provincia, e per lo più son dolori, ed è una continua macina d’uomini e una continua fabbrica di scontenti. Libertà, no, almeno per cinquant’anni, se davvero si pensa a far gl’italiani migliori e più sodi e più colti, cioè più capaci; ma tolleranza, sì. Libertà, autorità, tolleranza, predica adesso il vecchio Clémenceau. Possono coesistere?”
Ecco la scelta con un sacrificio, e, di quella scelta fascista, la successiva prova quando si sarà fatta l’abitudine ai benefici, come in un matrimonio le cui pecche, inevitabili, diventeranno fastidiose, ma specialmente quando le cose andranno male (alleanza disgraziata con Hitler, guerra).
1927: “Per comprendere e accettare oggi il Fascismo non bisogna solo pensare all’anarchia, alla stupidità, ai delitti del 1919, del 1920, del 1921; ma alla nostra giovinezza di quando ci eravamo foggiata un’idea della libertà tanto balorda che c’eravamo liberati perfino della logica, e noi borghesi sognavamo di capitanare il proletariato nel suo assalto contro noi stessi e ci iscrivevamo ai Fasci del 1893”.
1928: “La forza del Fascismo è aver cercato le fondamenta e magari la costituzione della Nazione rinnovata non nella copia del sistema parlamentare inglese come i francesi della Rivoluzione, o in un tipo astratto di ordinamento buono per tutti i tempi e tutti i popoli, ma pian piano, sull’esperienza, nei difetti e nelle qualità, nei bisogni e nelle speranze degl’italiani di dopo la guerra, risalendo dal particolare al generale, dall’accidentale al durevole, dal presente al passato”.
“D’Annunzio e il Fascismo: a esser coerenti, sarebbe come dire il diavolo e l’acqua santa. Ma il diavolo sarebbe Nietzsche, e il superuomo col tallone sugli schiavi; e l’acquasanta sarebbe la Nazione fatta dalla coscienza e dal lavoro dei cittadini ordinati nella disciplina dello Stato fascista. Soltanto ci si può accordare per via…”
1929: “Corradini al Giornale d’Italia (…) Si duole delle liste dei nuovi senatori. Si duole delle contraddizioni di Mussolini: – È un violento, non è un forte. – Insomma, roba da confino, se non fosse Corradini. Quando parlo con questi ‘fedeli’ vedo le difficoltà dell’opera di Mussolini assai meglio che quando leggo i panegirici dei giornali. Tutti lo tradiscono un poco”.
Benedetto Croce: “Che condanni il Concordato, bene: è nel suo diritto. Che giudichi anch’egli mediocre questo papa (…) vada. Ma ha concluso: – Tra cinquant’anni si dirà: ‘la Chiesa cattolica è in sfacelo e lo sfacelo è cominciato da quando essa è entrata in cordiali rapporti con Benito Mussolini il quale rovina tutto quello che tocca’. – E qui precipita nell’assurdo”.
1930: “Il giorno 28 ho fatto in Accademia visita a Marconi appena arrivato da Londra e sul punto di ripartire (…) Era spaventato e disgustato dalle beghe tra gli Accademici”.
“All’assemblea chiusa del 30 ho avuto però il conforto di vedere tutte le mie proposte approvate all’unanimità”.
Considerando il proprio stato psico-fisico, Ojetti osserva di possedere “libertà di giudizio, salvo le necessità della politica, sempre intatta”.
Colloquio con Gino Salocchi, “gran banchiere a Lima nel Perù”: “L’Inghilterra non è sola a decadere, e anche moralmente sarà un danno per tutta l’Europa. Anche negli Stati Uniti egli ha veduto un’irreparabile miseria – Anche i pensieri degli uomini là erano in serie. Tutti credevano che la bazza avesse a continuare anzi ad aumentare miracolosamente. E ora sono spaventati come bambini la cui balia ha perduto il latte, e non vogliono accontentarsi del biberon”.
“È qui Benedetto Croce (…) è un narratore inesauribile, ma per la politica ormai ha i paraocchi e non vede che nella sua direzione. In certe cose avrà ragione contro i fascisti e magari contro la guerra, ma in altre mille vuole avere ragione per forza”.
Si noti l’offuscamento di certe grandi e riverite intelligenze!
1932: Il Duce gli dice: “L’Accademia è già solida. Adesso deve lavorare, molto e utilmente, aspettando il tempo in cui il mondo si rialzerà da questo abbattimento. Gli uomini allora non ne potranno più di parlare di valute, di scambi, di debiti, di stenti. Aneleranno alla vita dello spirito, all’arte, alla poesia, alla musica. Quello sarà il momento dell’Accademia”.
“Tra Berenson e lui [Valéry] deridevano l’imbecillità di tutti i re (…) Io ho difeso il mio Re. E Berenson: – Per questo non è un buon Re, e ha accettato Mussolini. – Sarebbe stato un cattivo Re, per sé e per l’Italia se l’avesse respinto, se avesse creduto nell’ottobre del 1922 di poterlo respingere”.
Gennaio 1938: “Né il sole né le buone notizie [“di Spagna, di Romania, d’Irlanda”] rasserenano certi spiriti (…) Placci che torna dall’Inghilterra dove ha veduto mezzo mondo (…) e dove tutti gli inglesi, compreso Eden, gli hanno ripetuto di persuadere i suoi connazionali che lassù non ci odiano (vedo però il sorrisetto per bambini stizzosi col quale gli hanno regalato quelle dolci parolette), s’affanna a pensare che gl’inglesi non ci perdoneranno mai (…) Il domani è di Dio; soltanto l’oggi è nostro. Accettiamo le fortune dell’oggi, tanto più che ce le siamo guadagnate con fatica e coraggio”.
Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri: “Questo giovane che mi dicono abbia ingegno, ma molto minore della sua prosopopea, molto s’avvantaggerebbe se non si sforzasse di rassomigliare nel piglio e nel volto al suocero, che è inimitabile, per fortuna anche di noi italiani che lo ammiriamo e lo amiamo”.
“Non discuto della necessità di queste leggi [diritti tolti agli ebrei] perché non ho argomenti né pro né contro; ma il modo, sì, mi ripugna (…) Qui ha ragione il Papa, per me cattolico romano”.
1939: “Io credo che secondo giustizia all’Italia spetterebbero Tunisia, Corsica e Gibuti; ma nessuno mi persuaderà che la via delle insolenze presa da noi sia la via più adatta a far trionfare la giustizia. È la via per far trionfare la forza. Siamo più forti noi? Darei la vita perché così fosse. Forse è già così, senza che io dia la mia ormai breve vita (…) Certo è che, oggi come oggi, la stampa francese è più maleducata della nostra. Ma chi ha cominciato?”
“Dal mio viaggio in Svizzera, Belgio, Francia, e non ho parlato solo con stranieri, ma con italiani e coi nostri consoli e ministri e ambasciatori, sono tornato con questa triste persuasione: che noi si deve sperare nella guerra per salvare il nostro buon nome, e la nostra serietà (…) La guerra, anche se non ci darà Corsica, Tunisia, Gibuti, Nizza come s’è domandato a gran voce salvando, prima di tutto, la Francia e restituendole unità morale e fiducia in se stessa, ci farà rispettare (…) Ma la guerra è un gran rischio…”
Ottobre 1939: “La pena nell’ansia degli eventi polacchi e della entrata della Russia sovietica in piena Europa, è stata in questi miei giorni romani. Non ho mai udito sparlare del fascismo e della sua politica interna ed estera come adesso; e da gerarchi”.
“Bastianini, sottosegretario agli Esteri e adesso ambasciatore a Londra (…) confrontava la sua fede e le sue speranze d’allora con le delusioni di oggi, con l’egoismo facinoroso e comodone dei gerarchi”.
“Balbo, soldato, era più leale verso Mussolini; ma l’ira verso i tedeschi e i russi era altrettanto fiera. Ripeteva l’accusa di Bastianini: un italiano, un fascista, un cattolico si trova per merito di Adolfo Hitler fianco a fianco dei sovieti. Tutti gl’ideali sono traditi”.
“Preferirei non essere andato a Roma, non aver udito queste accuse di fascisti al fascismo. Cadesse questo regime, sempre ringrazierei Mussolini di averci restituito per questi quindici anni l’orgoglio e la fiducia in noi stessi. Certo adesso d’un colpo molti l’hanno perduta, e la delusione li disgusta (…) Ma l’immoralità peggiore è aver gridato tanto contro il comunismo e la Russia, e adesso… (…) E quelli che hanno combattuto il bolscevismo in Spagna, e sono morti?”
Il buon idealismo si era incrinato anche nel popolo. Hitler, e non noi, aveva calpestato i puri ideali; tuttavia la ragion di stato per la quale l’Italia, messa nell’isolamento dalle altre potenze, era divenuta sua alleata, poteva essere mal compresa ed anche discutibile. La successiva nostra entrata in guerra nell’Asse, contro chi ci osteggiava calunniandoci e ci sanzionava economicamente, quindi, anche contro l’Unione Sovietica, avrebbe ravvivato la fede e suscitato eroismo quasi soltanto ai combattenti, che, in generale, si batterono con onore.
1941: “Di eroici soldati al fronte, molti ce n’è; ma i vigliacchi all’interno sono molti: diciamo pure, siamo molti. Ma che si dovrebbe fare? La guerra civile? E il Re, che è il Re, vuole farla? Ne misura e prevede i risultati? E Mussolini è proprio da buttare giù dal balcone di palazzo Venezia? O, come diceva due mesi fa D. P., s’ha da difendere più per noi che per lui?”
“Sono tornato da un mese di Cortina e da una settimana di Venezia. Non si può dire che l’umanità sia contro la guerra, ma contro i capi e il Fascismo, sì. Che vorrebbero? Mutare oggi il Governo? Sarebbe infantile, e impossibile. La guerra sarà lunga lunghissima, ora che l’America s’è divertita a entrarci a furia di bugie e d’incoscienza (…) Il più bersagliato dei ministri è, al solito, Ciano il quale ha avuto giorni fa la dabbenaggine di scrivere e diffondere un suo proclama all’Europa con la difesa del sacramento della famiglia [se il suo era un cattivo pulpito da cui fare la predica, tuttavia questa non era insensata] (…) senza pudore molti s’augurano che venga presto il giorno di un nuovo dominio tedesco sugl’Italiani”.
Le poche pagine successive, per gli anni ’42 e ’43, non rivelano alcunché di notevole.
Questo diario segreto – e perciò costituito prevalentemente di notizie e critiche negative – non serve soltanto ad accendere lumi su un brano di storia patria, né rappresenta soltanto un dramma personale e una tragedia nazionale, ripeto che esso ci porge un insegnamento sul buon governo, sulla soluzione del buon governo, il cui rinvenimento oggi sembra smarrito, o precluso. La soluzione democratica che parve sicura e insostituibile, in effetti era ben altro, avendo dimostrato di non poter arginare i mali costumi, ma d’essere destinata a falsare la verità con le leggi stesse, a indurre al vizio: il contrario del creare le condizioni favorevoli per mettere in atto le virtù, come dev’essere prerogativa e funzione del buon governo.