CRESCITA ECONOMICA, SVILUPPO UMANO, VALORI SPIRITUALI. LECTIO MAGISTRALIS DI S.EM. CARD. ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO

Lectio magistralis dell’Arcivescovo di Milano, Card. Angelo Scola, al convegno internazionale promosso da Università Cattolica, Centro di Ricerche in Analisi Economica e Sviluppo Economico Internazionale e Fondazione Centesimus Annus

 

 

Fondazione Centesimus Annus – Pro Pontifice

International Conference

Institutions, society and markets: towards a new international balance?”

Milano, 4-5 maggio 2012

Università Cattolica del Sacro Cuore

Crescita economica, sviluppo umano, valori spirituali

 

 

+ Card. Angelo Scola

Arcivescovo di Milano

 

card. angelo scola

S.Em. Rev.ma Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano


1. Un tempo di travaglio

Crescita economica, sviluppo umano, valori spirituali: la triade, che gli organizzatori del convegno mi hanno chiesto di sviluppare, mette sinteticamente in campo la necessità di ripensare i paradigmi che hanno finora regolato la vita economica attraverso una ricentratura antropologica. È infatti evidente che i modelli economici più affermati, sbilanciati sulla crescita economica e fondati sull’idea di uno sviluppo lineare inarrestabile, non siano riusciti a mantenere le proprie promesse. Occorre tuttavia riconoscerlo: da quando, ormai quasi quattro anni or sono, è esplosa la terribile crisi finanziaria ed economica che ancora ci attanaglia, non sono mancati gli appelli a favore di una radicale inversione di rotta. Siamo intanto passati dall’emergenza finanziaria iniziale alla non meno grave questione del debito sovrano degli Stati. Eppure, sebbene la crisi abbia già cambiato le vite di tante persone, penso in particolare al dramma di quanti hanno perso il lavoro o si sono tolti la vita, mi sembra che una presa di coscienza culturale del passaggio epocale che stiamo ora attraversando fatichi a prodursi.

Sembra vero piuttosto il contrario: la crisi ha contribuito ad aggravare una sorta di paralisi culturale che si riflette in alcuni atteggiamenti ormai piuttosto generalizzati in molte società europee: penso alla scarsa tendenza, anche da parte delle istituzioni, a progettare il futuro, al prevalere di legami revocabili a scapito di relazioni stabili, al bisogno interpretato come diritto esclusivo al benessere da soddisfare tramite il consumo.

Per questo sono sempre più convinto che parlare dell’attuale frangente in termini di crisi economico-finanziaria sia riduttivo. La crisi va letta nel più ampio contesto della transizione al nuovo millennio, in termini di travaglio[1].

Paradigmatico delle difficoltà di elaborare una prospettiva culturale i modelli su cui si è finora retta l’economia è l’accoglienza ricevuta dall’enciclica sociale di Benedetto XVI. Non si può dire che la Caritas in veritate sia stata ignorata, né che sia stata particolarmente criticata. Anzi, da più parti ne sono stati messi in evidenza, magari in maniera un po’ selettiva, molti meriti. Ma in generale mi pare di poter dire che l’enciclica non sia ancora stata compresa nei suoi aspetti più rilevanti e innovativi, venendo generalmente ricondotta alla necessità di correggere l’economia in termini etici. Non è una lettura sbagliata, a patto di collocarla nella giusta prospettiva: lo stesso pontefice è tornato nell’agosto scorso sulla crisi economica e sui motivi già espressi nella sua enciclica sociale, riaffermando in maniera sintetica ma incisiva che «la dimensione etica non è una cosa esteriore ai problemi economici, ma una dimensione interiore e fondamentale»[2]. Non intendo tuttavia dilungarmi in un commento dell’enciclica e del pensiero sociale di Benedetto XVI, quanto proporre, attraverso un’analisi di alcuni suoi punti, una riflessione sull’attuale difficoltà di pensare un progetto, secondo me improcrastinabile, di “conversione” culturale.

2. La logica del dono tra trascendenza e secolarizzazione

In più di un passaggio della Caritas in Veritate, Benedetto XVI, riprendendo il magistero di Paolo VI, parla dello sviluppo come vocazione, legandone la realizzazione a una visione trascendente della persona. In sua assenza «lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’auto-salvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato»[3]. Tale dimensione, aggiunge il Papa in uno dei passaggi più originali dell’enciclica, si realizza pienamente nella logica del dono. Infatti, «l’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società»[4]. Di primo acchito, l’accostamento del fenomeno del dono all’illusione auto-poietica dell’uomo moderno può spiazzare. L’uomo contemporaneo talmente assuefatto all’idea che la libertà consista primariamente, se non esclusivamente, nella possibilità di scelta ignora la necessità di aderire per essere veramente libero. Così oblitera la dimensione “verticale” del dono. Eppure è solo nell’ottica dell’accogliere che, sia la logica del dono, sia il principio di gratuità ad essa collegato diventano pienamente comprensibili. Tutto ciò che è decisivo per l’uomo (la vita, lo sposo, la sposa, il figlio, la vocazione…) incomincia da un ricevere, ha questo carattere di dato.

In un certo senso, collocare il dono e la gratuità nel loro orizzonte più adeguato ne mette in luce anche la problematicità per la cultura dominante. La questione non è più tanto il rischio di un rifiuto dell’etica cristiana, come accadeva all’inizio della modernità, bensì una progressiva presa di distanza dalla sua universalità. Tanto più che la generale diffidenza nei confronti dell’annuncio cristiano si inserisce in una più ampia sfiducia nella capacità della ragione di conoscere la realtà e di individuare “valori” universalmente condivisibili. Tale scetticismo si traduce in un sostanziale disimpegno nei confronti della vita, esito ultimo del processo di secolarizzazione: un «umanesimo esclusivo»[5], dice Taylor, in cui è diventata concepibile l’eclissi di tutti i fini che trascendono la prosperità terrena dell’umanità. E si tratta di una posizione che può avere ripercussioni negative anche sul rendimento economico di un paese, perché punta su un’ottica di brevissimo periodo, sul consumo indiscriminato di beni a scapito del dinamismo, della creatività e dei sacrifici capaci di mettere in moto un reale sviluppo.

In questa situazione, il dono, la gratuità, la carità, la solidarietà non sono negati a priori, anzi vengono spesso esaltati. Ma quanto più vengono invocati, tanto più vengono privati della possibilità di dire qualcosa di vero dell’esperienza umana e non restano che vaghi appelli retorici, o operazioni cosmetiche adoperate per mascherare le distorsioni di sistemi economici ingiusti.

Se questa è la situazione attuale, si capisce perché le contromisure di natura meramente tecnica, per quanto necessarie, non siano sufficienti. Occorre una proposta culturale che sia in grado restituire a una ragione che si è automutilata tutta la sua ampiezza: come dice il Papa «bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto»[6]. Ma è verosimile, in una cultura che può giungere fino a decidere di dire «addio alla verità»[7], riproporre una visione impegnativa di ragione, di libertà e quindi di persona, che arrivi a riconoscere la dimensione trascendente vedendone il fondamento nel rapporto con il Dio creatore?

La possibilità di tornare a pensare la trascendenza, e tutte le sue implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche, si trova proprio nello spazio situato tra la pretesa di una ragione assoluta e quella di una ragione debole.

«La modernità – afferma il sociologo Donati – pensa Dio o come sopravvivenza superstiziosa o come luce di una ragione immanente al mondo e alla sua storia. La novità è che questi due modi di pensare oggi cadono. Che la religione non sia una superstizione lo si vede dal fatto che, proprio quando tutti i miti vengono abbattuti, il bisogno di una realtà soprannaturale, di un Essere Altro che non può essere racchiuso in nessuno luogo e in nessuno mito, non scompare, ma anzi si fa più forte. Che non sia la luce di una qualche ragione immanente alla storia lo si vede dal fatto che il mondo perde non solo la fede nella ragione, ma la stessa ragione»[8].

Questa analisi permette di riguadagnare un varco verso la trascendenza. Tuttavia, affinché essa non rimanga un’indistinta consolazione spirituale o una mera enunciazione teorica, ma abbia la capacità di fondare un’etica nella prospettiva indicata dalla Caritas in Veritate, occorre che essa entri in relazione con la vita dell’uomo, in modo che, per dirla con Del Noce, «la verità possa diventare la mia verità»[9].

3. L’irriducibile eccedenza della persona umana

«L’uomo supera infinitamente l’uomo»: basterebbe un minimo di lealtà con se stessi, osservandosi in azione, nel momento cioè in cui la persona si rivela[10], per concordare con la geniale massima di Pascal[11]. Sin dalla nascita, l’uomo, più o meno consapevolmente, è messo di fronte al fatto di essere spinto fuori di sé in una trama di relazioni. Balthasar riconduce questo dato insopprimibile a tre polarità antropologiche costitutive: anima/corpo, uomo/donna, individuo/comunità. Mette così in campo l’unità duale della persona, cara anche al pensiero di Wojtyla e al magistero del beato Giovanni Paolo II. Esse affermano la capacità essenziale dell’io di essere per l’altro, di essere un io-in-relazione. Tale natura relazionale, che rimanda ultimamente al rapporto con il Dio creatore, determina in maniera decisiva, volenti o nolenti, la posizione e il comportamento dell’uomo nella società, come la migliore sociologia non ha mancato di rilevare.

Margaret Archer, contro le forme di costruttivismo sociale che mortificano l’umano, afferma l’eccedenza della persona rispetto ai ruoli che essa svolge nella società. Questa eccedenza si esprime in quelli che definisce «ultimate concerns» (interessi ultimi) i quali indicano che «noi siamo ciò che più ci prendiamo a cuore». Gli interessi ultimi emergono in una “conversazione interiore” tra le richieste della società e le esigenze profonde dell’io che fonda la riflessività e la trascendenza della persona[12].

Secondo questa prospettiva, l’uomo non è mai riducibile alla sua “funzione” sociale, ma va sempre ultimamente considerato nella sua dimensione di soggetto libero, per quanto sempre storicamente situato. L’alternativa è quella già lucidamente profetizzata nel 1951 da Guardini: «quando l’azione – scriveva il celebre pensatore – non è più sorretta dalla coscienza personale, un vuoto singolare si determina in colui che agisce. Egli non ha più il senso di essere lui ad agire, il senso che l’azione cominci in lui e che egli perciò ne debba rispondere. Sembra che egli non esista più in quanto soggetto e che l’azione passi semplicemente attraverso di lui, semplice anello di una catena»[13]. Non è forse questa la sensazione della stragrande maggioranza dei cittadini di fronte a discorsi economici e finanziari ormai lontanissimi dalla possibilità di comprensione da parte dei loro destinatari e dei loro attori finali?

4. Alla radice dello sviluppo: il lavoro ed il suo soggetto

Il rispetto della dimensione trascendente della persona trova un decisivo test di verifica nella concezione del lavoro, oggi più che mai chiave dello sviluppo. Lo si vede bene riflettendo, in termini adeguati, sulla parabola del padrone che prende a giornata dei lavoratori (cf Mt 20,1-16). La retribuzione cui Gesù fa riferimento supera i due aspetti, pur necessari, della nozione di giustizia, quello commutativo – dare per avere – e quello distributivo – dare per dovere – e si allarga fino a ricomprendere la dimensione del gratuito. Uno degli slogan delle tante manifestazioni sui temi della crisi economica, suonava così: «Lavoro è dignità, non carità». Si nota lo spostamento dal binomio classico di giustizia e carità. Vi è in questo un’esigenza sacrosanta che occorre mettere in rilievo: «Non basta soddisfare un bisogno, bisogna riconoscere un desiderio»[14].

L’esigenza vale oggi a tutti le latitudini: soprattutto in Occidente, «la riduzione del lavoro a grandezza economica mostra ora anche tutte le sue aporie [visto che] quando si tratta del riconoscimento del valore della persona e dell’umanità della relazione, il diritto e il mercato, nonostante il loro rapporto di razionalità vincolante e di utilità calcolabile, non garantiscono nulla»[15]. Anche nel mondo arabo il desiderio di dignità è stato la scintilla che ha scatenato un cambiamento politico su ampia scala[16]. Si vede così bene che l’esperienza comune di ogni uomo, nella sua triplice dimensione elementare di lavoro, affetti e riposo, per quanto declinata in modalità differenti, e per quanto soffocata dalla morsa vuoi della rassegnazione, vuoi dell’ideologia, del potere, o della violenza, finisce sempre per riaffiorare.

È chiaro che l’accento posto sulla dignità non implica una svalutazione della carità. Si tratta piuttosto di superare una concezione della carità intesa come mera elargizione. Ciò che fa la differenza è dunque la “maniera di dare” (Lévinas). E la dimensione gratuita del lavoro, che pure è decisiva, non va confusa con il gratis. Non è infatti in discussione «la dovuta mercede», come la Chiesa va ricordando da tempo[17]. Anzi «il giusto salario diventa in ogni caso la concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico»[18]. È piuttosto necessario riandare al senso ultimo del lavoro, che non è puramente il lavoro in se stesso, ma l’uomo[19] che lavora e lavora bene. Come acutamente osservava il Péguy de “L’argent” il falegname di una volta faceva alla perfezione anche la parte della sedia che non si vedeva. Perché solo se ben fatto il lavoro esprime e compie l’intenzione libera della persona. Garantisce la dignità del soggetto del lavoro nell’esecuzione della sua opera: in questo sta il gratuito cui fa riferimento l’Enciclica. Si capisce bene come questa posizione, che mette in campo dono e fraternità, implichi una riformulazione di tutte le categorie comuni al mondo del lavoro, comprese quelle di mercato e di profitto, di produzione e di finanza. Non sono espressioni ineluttabili di un fatto di natura, esse sono categorie culturali modificabili e partire dal mutare delle circostanze e dei rapporti. Questa è la strada per riandare al senso ultimo del lavoro, fondandolo su un’antropologia adeguata in cui la persona è vista a partire dall’origine, da ciò che precede il puro fare.

Attraverso il lavoro l’uomo si eleva a Dio e diventa cooperatore della sua opera. «Il lavoro – dice il Catechismoproviene immediatamente da persone create a immagine di Dio e chiamate a prolungare, le une con le altre e per le altre, l’opera della creazione sottomettendo la terra» (CCC 2427). Certo, il lavoro ha anche i caratteri ruvidi del dovere, («Chi non vuol lavorare, neppure mangi», cfr. 2Ts, 3,10); e comporta sempre una fatica (labor significa, infatti, fatica), attestata fin dalle prime pagine della Bibbia, che la inserisce all’interno della maledizione inflitta all’uomo per il peccato originale: «Maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane…» (Gn 3,17-19). Eppure il lavoro non perde mai la dimensione di compito svolto insieme a Dio e a imitazione di Dio («il Padre mio opera e anch’io opero», Gv, 5,17). In questa relazione col Creatore è custodita la dignità del lavoratore, salvato in questo modo dal rischio della mercificazione, e con essa (il primato spetta al soggetto) quella del lavoro stesso.

Anche in una fase di transizione come quella odierna, in cui il lavoro è esposto a cambiamenti talmente rapidi da esigere di essere affrontato con nuovi schemi, ripartire dalla centralità del soggetto e dal primato del lavoro sul capitale – caposaldo della Dottrina sociale della Chiesa – offre una prospettiva praticabile per rilanciare lo sviluppo. D’altra parte, ci dicono gli esperti, in economie già avanzate come quelle occidentali, ma oggi tremendamente in affanno, una delle risorse più efficaci per produrre crescita e sviluppo è l’innovazione. E da dove può provenire l’innovazione se non mobilitando l’energia, il dinamismo e la creatività di soggetti liberi e responsabili? Non c’è innovazione senza cultura e non c’è cultura senza educazione. L’educazione è la miglior garanzia del bene prioritario che consiste nell’insuperabile primato del soggetto in relazione.

5. Salvaguardare la solidarietà

La dimensione relazionale dell’uomo mette inoltre in campo il bisogno urgente di preservare la solidarietà interna ed internazionale. Ciò è particolarmente evidente nel caso europeo. Se sul piano interno le difficoltà stanno mettendo a dura prova la coesione sociale, sul piano internazionale le ricorrenti ondate di attacchi speculativi che hanno interessato molti paesi dell’Eurozona e la debolezza strutturale di alcuni di essi interrogano il funzionamento dell’unione monetaria e le possibilità di equilibrare riforme fiscali interne e iniziative di sostegno reciproco. Non tocca a me ovviamente entrare nello specifico di queste questioni scottanti se non per sottolineare che il dibattito in proposito chiede anche di essere collocato in una prospettiva più ampia. I paesi europei hanno infatti una responsabilità globale: da un lato le turbolenze finanziarie producono effetti fortemente negativi su paesi apparentemente periferici ai movimenti finanziari, in particolare attraverso una forte fluttuazione dei prezzi dei beni primari; d’altra parte una crescita sostenibile del benessere deve essere inclusiva per non essere compromessa da eccessive disuguaglianze.

Occorre perciò dire con forza – ed è questo uno degli scopi della Fondazione Centesimus annus – che rispondere all’urgente bisogno di gran parte dell’umanità, sia nel mondo economicamente più avanzato (dove sappiamo bene che non mancano le povertà), sia in quelli a basso reddito, rappresenta anche un’occasione di creare lavoro, innovazione e sviluppo per tutti. Una via di uscita sostenibile dall’emergenza economico-finanziaria implica il coinvolgimento nelle dinamiche economico-sociali globali di gruppo e di paesi precedentemente esclusi o emarginati.

Anche in questo caso è tuttavia necessario recuperare l’ampiezza dell’idea stessa di solidarietà, minata oggi da un preoccupante impoverimento concettuale. Forse anche per questo le scienze sociali si stanno già dando da fare per mettere in questione la solidarietà[20], se non addirittura per ripensarla da cima a fondo[21].

La dottrina sociale della Chiesa, dal canto suo, non ha rimandato il compito di sfidare i luoghi comuni, proponendo con coraggio un’articolata architettura per pensare l’essere in società. Essa si basa, come si legge nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (nn. 162-163), sull’unità, sull’interrelazione e sull’articolazione dei principi della Dottrina Sociale, tra i quali ovviamente c’è anche la solidarietà. Quindi estrapolare il concetto di solidarietà è già un errore. Ecco perché Benedetto XVI, in occasione della 14° sessione della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali, ha ritenuto imprescindibile collegare la solidarietà ad altri tre concetti fondamentali della Dottrina Sociale: il bene comune, la sussidiarietà e la dignità umana.

L’idea architettonica è la seguente: perché abbia senso parlare di solidarietà, occorre riconoscere un bene comune sociale, che è innanzitutto il bene dell’essere insieme (in comune), di cui la solidarietà esprime appunto la compartecipazione nei beni e nei pesi sociali. D’altra parte per godere di questo bene comune in un modo non lesivo della dignità umana non si può mortificare (paternalisticamente) l’agire degli attori sociali: la sussidiarietà serve proprio a questo scopo, perché esprime il fatto che l’iniziativa, singola o collettiva, è altrettanto fondamentale e non è riducibile al tutto sociale stesso.

Ne risulta un vero e proprio schizzo architettonico a forma di croce. Dice infatti Benedetto XVI: «Possiamo tratteggiare le interconnessioni fra questi quattro principi ponendo la dignità della persona nel punto di intersezione di due assi, uno orizzontale, che rappresenta la “solidarietà” e la “sussidiarietà”, e uno verticale, che rappresenta il “bene comune”»[22].

Se vogliamo smontare i luoghi comuni del discorso corrente sulla solidarietà dobbiamo dunque trattenere due assi fondamentali.

Sull’asse orizzontale: la dignità umana non può essere rispettata se non c’è una cura solidale di chi è in difficoltà e se la sussidiarietà non garantisce la dimensione di singolarità irriducibile della persona.

Sull’asse verticale: il bene comune, il bene condiviso nella stessa socialità, è compiutamente inteso quando non si esaurisce in quello storico sociale, ma è aperto ad una prospettiva escatologica aperta al bene che va oltre la morte e coincide col Dio Uno e Trino da cui veniamo e a cui torniamo, di compimento della persona e di tutte le persone. Se il bene comune della convivenza diventasse l’orizzonte totale intrascendibile, si rischierebbe la deriva totalitaria, cioè l’appiattimento della persona entro l’angusta misura di un’aspettativa di salvezza intrastorica: ogni totalitarismo è, in fondo, la divinizzazione di un’idea puramente mondana di vita buona. Ovviamente questo non significa la sottomissione della politica al regime della teologia. Significa, però, liberarsi dal delirio di poter garantire da soli la promessa di felicità che spinge gli esseri umani a costruire società ordinate secondo giustizia.

6. Una responsabilità comune per la politica e per la cultura

Come si vede dal quadro che abbiamo sinteticamente tratteggiato, le sfide che la crisi pone all’uomo del terzo millennio sono ingenti ed eccedono le possibilità di risposta dei soli operatori economico-finanziari. Esse chiamano perciò in causa una molteplicità di soggetti. Vorrei concludere con una doppia breve considerazione sul mondo della politica e sul mondo della cultura.

Le istituzioni politiche, cui spetta il difficile compito di fornire allo stesso tempo soluzioni immediate e azioni di medio e lungo periodo, sono a mio avviso chiamate a orientare la loro azione secondo un duplice criterio. Da un lato, l’adeguata valorizzazione, attraverso il principio di sussidiarietà, del protagonismo tipico della società civile. Sono infatti gli attori di quest’ultima, come ormai riconoscono le più acute interpretazioni sociologiche contemporanee, a generare quel capitale di solidarietà di cui nessuno Stato democratico può fare a meno[23]. Basti pensare a come la famiglia abbia attutito, per lo meno in Italia, alcuni effetti della crisi che avrebbero potuto essere ben più devastanti. Le istituzioni politiche non debbono gestire la società civile, debbono solo governarla. Dall’altro lato l’irrinunciabilità della libertà religiosa, il riconoscimento cioè che la dimensione socio-politica non può essere l’orizzonte esclusivo della persona umana[24].

In entrambe le direzioni occorre innanzitutto superare, e mi riferisco in particolare ai cristiani, un riferimento equivoco al principio dell’autonomia delle realtà temporali (cfr. Gaudium et Spes 36), che si è trasformato in una perniciosa rinuncia a far emergere la valenza antropologica ed etica necessaria per affrontare i contenuti concreti dell’azione sociale, politica ed economica. In questo modo, “autonomo” è diventato di fatto sinonimo di “indifferente” o “neutrale” rispetto a tali sostanziali valenze. Al di là della natura delle convinzioni di ciascuno, l’onestà suggerisce di riconoscere che, ultimamente, non esistono, posizioni neutrali. Ogni decisione infatti, implica sempre un orientamento di fondo[25].

Il mondo della cultura da parte sua, e in questa sede penso in particolare all’Università, dovrà mettere al centro quell’allargamento della ragione cui a più riprese ci ha invitati Benedetto XVI. Tale impresa implica in partenza l’apertura di ogni disciplina a un serrato paragone con le altre, comprese quelle, come la teologia, che vedono nella persona umana un’inestirpabile relazione con Dio: non si tratta di superare la necessaria demarcazione e delimitazione dei singoli saperi, quanto di scoprire, nella loro interazione, che nessun sapere può permettersi il lusso dell’assolutezza e dell’autoreferenzialità.

Ripartire quindi dall’uomo, l’uomo come io-in-relazione perché è «totalità unificata», come con icastica espressione ha insegnato la Gaudium et Spes (n. 3). Non è la strada di un ritorno impossibile al passato, ma quella dell’improcrastinabile rinnovamento anche della politica e dell’economia.


 


[1] Cfr. A. Scola, Crisi e travaglio all’inizio del terzo millennio. Discorso alla città. Vigilia della Solennità di Sant’Ambrogio, Milano, 6 dicembre 2011.

[2] Benedetto XVI, Incontro con i giornalisti durante il volo verso Madrid, 18 agosto 2011.

[3] Benedetto XVI, Caritas in Veritate 11.

[4] Ibid., 34

[5] Cfr. C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 14.

[6] Benedetto XVI, Discorso al Parlamento federale di Germania, Berlino, 22 settembre 2012.

[7] Cfr. G. Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009.

[8] P. Donati, La matrice teologica della società, Rubettino, Soveria Mannelli 2010, 47.

[9] Cfr. A. Del Noce, Politicità del cristianesimo oggi, in Costume, I (1946), 1.

[10] K. Wojtyla, Persona e atto, Rusconi, Sant’Arcangelo di Romagna 1999.

[11] B. Pascal, Pensieri, 122.

[12] M. S. Archer, Essere umani. Il problema dell’agire, Marietti, Genova-Milano, 2007.

[13] R. Guardini, [La fine dell’epoca moderna.] Il potere, Morcelliana, Brescia 19999, 122-123.

[14] P. Sequeri, Misericordia, lo scambio perfetto, in P. Sequeri – D. Demetrio, Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia, Lindau, Torino 2012, 12.

[15] Ibid., 13

[16] Cfr. A. Scola, Nel nuovo che avanza, la domanda di sempre, in «Oasis», 14 (2011), 5-9.

[17] Leone XIII, Rerum Novaraum, 4.

[18] Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 19

[19] Cfr. Ibid.

[20] Cf. K. Bayertz (a cura di), Solidarity, Kluwer Academic Publisher, Dordrecht 1999; A. Bassi, Dono e fiducia. Le forme della solidarietà nelle società complesse, Edizioni Lavoro, Roma 2000; F. Crespi – S. Moscovici (a cura di), Solidarietà in questione. Contributi teorici e analisi empiriche, Meltemi, Roma 2001; H. Brunkhorst, Globalizing Solidarity: the Destiny of Democratic Solidarity in the Times of Global Capitalism, Global Religion and the Global Public, Seminario di Teoria Critica, Gallarate 2008.

[21] Cf. S. Paugam (dir.), Repenser la solidarité. L’apport des sciences sociales, PUF, Paris 2007; A. M. Baggio, Il principio dimenticato. La fraternità nella riflessione politologica contemporanea, Città Nuova, Roma 2007.

[22] Bendetto XVI, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 3 maggio 2008, in M. S. Archer – P. Donati (eds.), Pursuing the common good: how solidarity and subsidiarity can work together, The Pontifical Academy of Social Sciences, Vatican City 2008, 16.

[23] Cfr. P. Donati – M. Archer (dir.), Riflessività, modernizzazione e società civile, Franco Angeli, Milano 2010; J.-L. Laville – P. Glémain (dir.), L’économie sociale aux prises avec la gestion, Desclée de Brouwer, Paris 2010 ; J. Braun – G.S. McCall (dir.), Dilemmas in nation-building, Blackwell for UNESCO, Oxford 2009; C. Ruzza – V. Della Sala (dir.), Governance and civil society in the European Union, vol. 1. Normative perspectives, Manchester University Press, Manchester, UK; New York, NY (Distributed exclusively in the USA by Palgrave) 2007; M. Magatti, Il potere istituente della società civile, Laterza, Roma Bari 2005.

[24] Come diceva eloquentemente Giovanni Paolo II, il riconoscimento della libertà religiosa è di fondamentale importanza, perché «it is an implicit recognition of the existence of an order which transcends the political dimension of existence» (Address to the Diplomatic Corps, 1989). Cfr. anche The Pontifical Academy of Social Sciences, Universal Rights in a World of Diversity. The Case of Religious Freedom, XVII Plenary Session, 29 April-3 May 2011, Vatican City 2011.

[25] Cfr. Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura, dell’arte e dell’economia, Venezia, 8 maggio 2011: «l’uomo è libero di interpretare, di dare un senso alla realtà, e proprio in questa libertà consiste la sua grande dignità. Nell’ambito di una città, qualunque essa sia, anche le scelte di carattere amministrativo culturale ed economico dipendono, in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine. Si tratta di scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli».

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