di Lino Di Stefano
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Prima degli studi universitari e durante gli stessi, lessi tanti libri soprattutto perché nelle edicole di allora, in edizione economica – ma succede ancora oggi – era possibile acquistare a 300 lire, al massimo 400, i migliori autori, della letteratura italiana e straniera, anzi, per essere più precisi, i capolavori della narrativa mondiale che fanno ancora bella mostra di sé nelle biblioteche di chi, allora, amava e continua ad amare la lettura; testi ai quali, data l’epoca tecnologica in cui viviamo, forse, i giovani si accostano con minore preparazione e con poco entusiasmo in quanto educati ad altri interessi.
Le opere di Malaparte che, in quella stagione, andavano, per la maggiore erano ‘Maledetti toscani’ (1956) e ‘Racconti italiani’ (1957) mentre non erano ancora comparsi, in edizione accessibile, ‘Kaputt’ (1944) e ‘La Pelle’ (1949), opere più impegnative, e, in quanto tali, genuini capolavori dello scrittore il quale si cimentò in molti generi letterari: dal romanzo alla saggistica, dai racconti al teatro, dalla storia al giornalismo considerato, tra l’altro, che, egli, fu anche direttore de ‘La Stampa’ di Torino dal 1928 al 1931 e, in seguito, con Angioletti, dell’’Italia letteraria’. Lo scrittore diresse anche un film, ‘Il Cristo proibito’ (1950).
Il ‘Leit motiv’ di ‘Maledetti toscani’ è noto, visto che egli, nell’enumerare i pregi e i difetti della sua gente, salva degli altri Italiani solo i perugini gli unici, a suo dire – e l’osservazione è abbastanza vera – che si avvicinano al suo popolo per lingua, usi e costumi, mentre il filo conduttore dei ‘Racconti italiani’ rivela, a chi legge, un narratore meno conosciuto e cioè vivace e polemico.
Anche se, com’ è scritto, nella Nota dell’Editore a tale libro, in essi il lettore troverà “pagine e motivi che anticipano le opere famose in tutto il mondo”, unitamente, prosegue la Nota, ad “un’ansia segreta, un tormento intimo, che furono fino alla disperata battaglia degli ultimi mesi, la più bella caratteristica di quest’uomo generoso”.
Ma il vero impatto con uno dei più importanti lavori del romanziere di Prato, lo ebbi in maniera singolare poiché, all’esame scritto di latino – ad una facoltà umanistica dell’Università la ‘Sapienza’ di Roma – il titolare di cattedra della materia scelse, da tradurre, proprio un brano tratto da ‘La Pelle’ e intitolato, appunto, ‘La Pelle’. Romanzo che, poi, lessi, insieme con l’altro capolavoro, con grande interesse ed attenzione anche se lo stesso Malaparte, in una lettera all’amico Orfeo Tamburi (Capri, 27.2.1950), lo giudicò non valere nemmeno “un’unghia di Kaputt”.
Ora, mi piace trascrivere il brano da versare in latino data, altresì, la sua valenza umana e letteraria.
“Voi non immaginate neppure di che cosa sia capace un uomo, di quali eroismi e di quali infamie sia capace, per salvar la pelle. Questa, questa schifosa pelle, vedete? – ( E così dicendo mi afferravo con due dita la pelle del dorso della mano, e l’andavo tirando qua e là). – Una volta si soffriva la fame, la tortura, i patimenti più terribili, si uccideva e si moriva, si soffriva e si faceva soffrire, per salvare l’anima, per salvare la propria anima e quella degli altri”.
“Si era capaci di tutte le grandezze e di tutte le infamie, per salvare l’anima. Non la propria anima soltanto, ma anche quella degli altri. Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle, soltanto per la propria pelle”.
“Tutto il resto non conta. Si è eroi per una ben povera cosa, oggi! Per una brutta cosa. La pelle umana è una cosa brutta. Guardate. E’ una cosa schifosa. E pensare che il mondo è pieno di eroi pronti a sacrificare la propria vita per una cosa simile!”.
Com’è facile notare, si trattava di un luogo molto significativo del romanzo, ma pure di un brano non molto facile da rendere nella lingua di Cicerone.
Superai la prova con un voto non molto alto – ma la superai – dopodiché, procuratimi i due capolavori, mi gettai a capofitto nella lettura di vicende, segnatamente nella ‘Pelle’, drammatiche e dolorose, insieme, tanto da poter affermare con Virgilio, “sunt lacrymae rerum”, con quel che segue. Anche ‘L’inglese in Paradiso’ (1960) non è un’opera trascurabile per il semplice motivo che, pur essendo una miscellanea di scritti sull’Inghilterra, essa rivela una capacità d’osservazione e una serenità di giudizio non facilmente reperibili nel contesto del Novecento italiano.
Ma il pratese – uomo “dal multiforme ingegno” – si espresse, da par suo, anche in lingua francese con volumi quali ‘Technique du coup d’état’ (1931), ‘Le bonhomme Lénine’ (1932), ‘Deux chapeau de paille d’Italie’ (1948) per ricordare i più significativi, senza dimenticare, inoltre, i resoconti dei viaggi in Russia, in Cina e in altre nazioni. Per quel che concerne la celebre ‘Tecnica del colpo di Stato’, nella ‘Nota intoduttiva’ all’edizione italiana (Vallecchi, Milano, 1948), leggiamo che il saggio “riscosse un successo di risonanza europea”, anche perché “la teoria su cui si fonda il libro è semplice ed esposta con chiarezza in uno stile limpido che echeggia di lontano la prosa del Machiavelli”.
E lo stesso Autore dirà, tra l’altro, che lo scopo del volume “non è di discutere i programmi politici ed economici dei catilinari: bensì di mostrare che il problema della conquista e della difesa della Stato non è un problema politico, ma tecnico, che l’arte di difendere lo Stato è regolata dagli stessi principii che regolano l’arte di conquistarlo”, e che le circostanze favorevoli a un colpo di Stato non sono necessariamente di natura politica e sociale e non dipendono dalle condizioni generali del paese”
Tornando un istante ai capolavori: ‘La Pelle’, esso è ambientato nella Napoli di fine guerra dove, parole dello scrittore, “non v’era un solo napoletano (…) che si sentisse un vinto” anche se “era fuor dubbio che l’Italia, e perciò anche Napoli, aveva perduto la guerra (…). A vincere la guerra tutti sono buoni, non tutti sono capaci di perderla”. Per quanto riguarda, per converso, ‘Kaputt’, il libro altro non era, secondo lo stesso, che “un lungo e crudele viaggio di quattro anni attraverso l’Europa, attraverso la guerra, il sangue, la fame, le città distrutte”.
Di padre tedesco – come Italo Svevo (Ettore Schmitz) ed Arturo Graf che mantenne il cognome germanico, ma tutt’e tre italianissimi – Kurt Erich Suckert, diventato in seguito Curzio Malaparte – conservò tutti i difetti degli Italiani, anzi, con i suoi molteplici e contradditori atteggiamenti, li ingigantì solo se pensi alla sua esistenza avventurosa in tutt’Europa e alle varie prese di posizione, di volta in volta, assunte nelle circostanze più disparate. Malaparte amò sia la madre, Edda Perelli, sia il padre, Erwin, ma il ricordo che egli tracciò di quest’ultimo, nel 1938, – ‘Goethe e mio padre’ – risulta di un realismo e di una sincerità commoventi.
Anche se uomo tutto d’un pezzo, Erwin – nato in Sassonia – era, da buon tedesco, non solo un ottimo lavoratore delle stoffe, ma anche una persona colta che amava, giustamente, il più grande poeta della Germania e vale a dire Wolfgang Goethe di cui conservava, gelosamente, un busto come una reliquia. Sebbene rigoroso, austero e temuto, Erwin fu un esempio per i figli e in occasione della grande guerra li accompagnò alla stazione ferroviaria perché partenti per il fronte. Il genitore disse loro: “Sono sicuro che mi (leggasi ‘mi’) farete onore” e li esortò a scrivere, sulla tomba, quando fosse morto: “Padre tedesco di figli italiani”.
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La produzione del pratese, amplissima ed originale, abbraccia l’intero arco del sapere letterario sicché non è esauribile in questa sede; mi piace, però, sottolineare che tra i vari modelli ispiratori del toscano c’era anche il Vate Gabriele D’Annunzio sebbene Malaparte rimanga, per lo scrittore Francesco Grisi, un “personaggio analogo in scala ridotta”. Usciti dal prestigioso Collegio ‘Cicognini’ di Prato, entrambi gli Autori presentavano molti punti in comune come, ad esempio, la genialità, il gusto dell’avventura, della sorpresa e della trasgressione nonché un certo superomismo esprimentesi in sembianze diverse.
Alberto Bevilacqua, tracciando un breve profilo – sulle colonne de ‘Il Giornale d’Italia’ di Roma ( 9 luglio 1980) – del narratore di Prato così si espresse: “Io preferisco mille volte questo Malaparte che coinvolge, prova, paga di persona, si contraddice, ai vigliacchi della letteratura italiana che, mettendosi al riparo delle franchigie scrittorie, praticavano il compromesso occulto. Erano, insieme, fascisti per comodo attuale, antifascisti per il ‘non si sa mai’, qualunquisti per vocazione naturale”
Malaparte aveva un atteggiamento ambivalente nei riguardi dell’Abruzzese e, in una lettera del 15 settembre 1946, confidò a Prezzolini quanto segue: “Nel tornare dall’Alto Adige mi son fermato due giorni a Gardone, per visitare il Vittoriale, che non avevo mai visto, lui vivo. E ho trovato, lui morto, che in fondo era molto più simpatico di quando era vivo” (…) Quel che mi ha fatto meraviglia, è il vedere (era un domenica) migliaia di dopolavoristi di Ferrara, Cremona, Mantova, Brescia, Verona, salire in pellegrinaggio al Vittoriale, frugar in tutti gli angoli, attenti e rispettosi”. Naturalmente, lo scrittore non apprezzò, nel tempio dannunziano, quelle “cose incredibili, accanto a delicatezze puerili, veramente commoventi”.
Malgrado ciò, D’Annunzio aveva inviato all’autore di ‘Maledetti toscani’ – nel giugno 1928 – il secondo volume de ‘Le faville del maglio’ con la seguente dedica: “A Curzio Malaparte questo bel libro pratese dove – com’è detto in un suo bel libro pratese – mi piacque ‘accordare il suono lungo delle incudini con quello breve del martello’”.
Lo scrittore, saggista, poeta e pittore Francesco Grisi che conobbe, da giovanissimo, Malaparte, pur stimando l’autore de ‘Il Volga nasce in Europa’ (1943), osservò, in seguito, opportunamente, che il pratese “rimane un singolare personaggio nella cultura italiana anche con le insufficienze e nei limiti ormai rintracciati. Segna con la sua prepotente personalità un clima di avventura, di romanticismo, di satira illuminata”.
Fin qui l’artista. E l’uomo, spogliato dalle categorie letterarie, poetiche, storiche, polemiche, giornalistiche? Per Malaparte, come per moltissimi scrittori, filosofi, artisti etc., resta valido il verso del poeta latino Terenzio secondo cui “homo sum, nihil humani a me alienum puto” benché in lui la contraddittorietà resti ‘la misura’ di tutte azioni.
Fascista della prima ora, antifascista, repubblicano, filo-cinese, comunista, convertito e con le sue opere, tendenti, infine – per dirla con Emilio Cecchi – “sempre più a diventare il medesimo libro rifatto, ripreso, rabberciato”. Negli ultimi anni di guerra, indossò anche la divisa dell’esercito americano – dal 1943 al 1945 – lui ex capitano degli alpini nei vari scacchieri europei!
Questi è stato Curzio Malaparte, un ‘camaleonte’, cioè – e il termine è suo – che ha tentato di ‘dannunzieggiare’ riuscendovi solo in parte per il semplice motivo che il Vate gli era, oggettivamente, anche come produzione, superiore; un voltagabbana della prima e dell’ultima ora, dunque, lo scrittore di Prato il quale si accomiatò dalla vita – a causa, com’è noto, di un tumore ai polmoni che nemmeno la medicina cinese riuscì a debellare – con due atti, a mio giudizio, estremi e contraddittòri, nel contempo.
La confessione e la somministrazione dell’eucarestia da parte di padre Virgilio Rotondi e l’accettazione da parte di Togliatti – in data 12 aprile 1957, qualche mese, cioè, prima di morire – della tessera del partito comunista, dove si legge, tra l’altro, che lo scrittore, una volta guarito, avrebbe dovuto riprendere la comune battaglia “per far conoscere a tutti gli uomini la verità, per mettere alla berlina chi la nasconde o la travisa”. Da tale pulpito, Il capo del PCI non gli era, certo, inferiore!
Il più volte citato Francesco Grisi osservava, al riguardo: “Prima di morire Curzio Malaparte si è convertito al cattolicesimo. Forse la sua conversione – e Dio ci perdoni questo pensiero – è stato l’ultimo atto di esibizione? O forse di coraggio?”. Probabilmente, entrambe le ipotesi, quantunque sia difficile giudicare e quantunque la sua ‘metànoia’, in punto di morte, sembri un punto di arrivo. In conclusione, se è vero che al lettore interessa più l’artista che l’uomo, è altrettanto certo che la critica contemporanea più avanzata ritiene, a ragione, che un personaggio – chiunque esso sia – vada esaminato in tutte le sue sfaccettature ossia nella sua interezza.
Probabilmente, aveva ragione Martin Heidegger quando sosteneva che “Wer gross denkt, muss gross irren” (Chi pensa in grande deve sbagliare in grande).
1 commento su “Curzio Malaparte: un camaleonte di genio – di Lino Di Stefano”
Ok!
Sono pratese…