di Dionisio di Francescantonio
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Quando gli uomini cominciarono a edificare le città, le concepirono, oltre che come luoghi dove raccogliere stabilmente le comunità, quali raffigurazioni del cosmo dove vivevano gli dèi, col proposito di riprodurre la dimora divina in modo da indurre le deità a soggiornare accanto ad essi per beneficiare della loro guida e protezione. Prima, quando la pastorizia li obbligava alla vita errante, senza fissa dimora, gli uomini si limitavano a portarsi dietro, trasportandola su un carro, la casa (o tempio) della divinità, al cui interno era possibile la comunione col dio. La scoperta dell’agricoltura e la possibilità d’una vita stabile produsse l’edificazione degli agglomerati urbani, dove, per garantirsi la contiguità e la benevolenza degli dèi o, a seconda del credo dei popoli, dell’unico Dio, Signore dell’Universo, ci si sforzava di erigere città sublimi così come si immaginava dovesse essere il luogo dove l’Ente Supremo soggiornava; e tale intenzione ha accompagnato per un lunghissimo periodo la configurazione degli assetti urbani, dettati ai mortali dalla loro visione del cosmo, dalle loro condizioni economiche e sociali e dalle tecniche e dai materiali di cui disponevano in relazione alla propria capacità di raffigurarsi un domicilio adatto e gradito alla divinità.
Se dunque è vero – com’è vero – che l’idea prima di città fosse quella di ricreare la dimora di Dio, non v’è dubbio che esista un rapporto di causa ed effetto tra l’attuale imbarbarimento delle nostre città e la fine della concezione metafisica dell’agglomerato urbano. Le città d’una volta avevano un cuore, una fisionomia, un’identità. Esse erano espressione di quell’energia collettiva volta a conferire al luogo scelto per albergare la nostra esistenza la sostanza abitativa più gradevole, più bella, più nobile che ci era dato realizzare, poiché, oltre a noi mortali, il soggiorno doveva essere allettante per Colui che regna sul cielo e sulla terra.
Le città di oggi, così come si sono venute configurando da circa un secolo in qua, sono autentici disastri urbani, nient’altro che l’ammucchiarsi brutale di edifici senz’anima, esempi strazianti non solo di offesa alla bellezza, ma anche di umiliazione della stessa idea di abitazione, quella votata al Creatore del mondo. Dobbiamo cominciare a chiederci seriamente come siamo riusciti a cadere così in basso, noi occidentali che, dai Greci in poi, siamo stati i depositari della bellezza e dell’armonia; domandarci, col massimo di allarme, come abbiamo potuto accettare supinamente l’irrompere nell’architettura e nell’urbanistica di tanta licenza antiestetica, di tanta deformità, di tanta sconcezza e devastazione. La risposta a questa domanda la troviamo, senza nessun bisogno di lambiccarci il cervello, nelle dottrine utopistiche affermatesi nel Novecento, quelle ideologie egualitariste e massimaliste che, rompendo con la tradizione classica e con la visione trascendente dell’universo, prefiguravano il mutamento dell’uomo da persona umana a essere sociale così com’è dato nelle società delle api e delle formiche, distruggendo così il principio dell’individualità per dissolverlo in una indifferenziata moltitudine.
Queste dottrine o ideologie hanno lanciato con determinazione il loro attacco mortale ai due concetti fondamentali di tradizione e di bellezza, propugnando una visione del fare umano che dopo aver disprezzato, screditato, aborrito e vilipeso ciò che gli uomini avevano felicemente realizzato nel passato in nome della trascendenza, hanno cominciato a sconvolgerlo e a demolirlo ferocemente. Le città di oggi sono il prodotto di quelle ideologie nefaste e distruttive. Il loro modello di società, uniformante e dispotico, ci ha lasciato in eredità, anche dopo il loro fallimento storico, gli orrori concepiti dagli architetti e dagli urbanisti ispiratisi alla politica di massificazione e omologazione che ne era il portato socio-culturale.
Questi architetti si sono sentiti autorizzati a rovinare le città tradizionali e a riconfigurarne l’assetto, a sconnetterle, ad assediarle con atroci periferie e sovente, dove era loro possibile (ad esempio approfittando delle devastazioni prodotte dai bombardamenti della guerra o dai terremoti) a ricostruirle di sana pianta, costringendo i cittadini inconsapevoli o inermi a vivere nelle abitazioni e nei quartieri disumanizzanti da essi progettati, caratterizzati da spazi identici, squallidi e opprimenti proprio perché la bellezza e la ricerca della raffinatezza estetica erano considerate pericolose qualità del pensiero individuale e trascendentale. In nome dell’ideologia costruttivista e funzionalista di stampo massimalista e ateista si è obbedito a una furia incessante di rinnovamento prodotta dalla smania nichilista di distruggere il passato per creare visioni moderniste dello spazio, rispondenti alla volontà superomistica dell’uomo di sostituire il suo ingegno demiurgico immanente alla potenza creatrice dello spirito, quella che si nutriva della convinzione che l’opera dell’uomo dovesse configurarsi come uno specchio, un abbozzo, una sfaccettatura della nozione del divino. La furia modernista di rinnovamento obbedisce all’assunto aberrante e fanaticamente intollerante che ciò che si compie oggi diventa già vecchio e superato domani e che ogni risultato raggiunto è destinato fatalmente ad essere accantonato e dimenticato, identificandosi dunque, come principio, in una sorta di vitalismo esasperato e insaziabile votato a divorare incessantemente se stesso. Esattamente l’opposto, come si vede, d’un itinerario volto alla ricerca e alla conquista della bellezza, che non è effimera e per ottenere la quale non si volge mai le spalle al cammino e all’esempio del passato. La fretta di andare avanti, invece, di spingersi sempre oltre ciò che è stato già realizzato, è di per sé irragionevole e cieca perché non lascia il tempo per nessuna riflessione, per la meditazione e il ragionamento da cui scaturisce ogni vera creazione, anche quella apparentemente figlia dell’ispirazione più geniale o dell’intuizione più rapinosa. L’aspirazione alla bellezza si nutre di limiti, di pause, di ricerca di accordi sull’esistente pur nell’introduzione di elementi innovativi. La bellezza è misura; è, anche quando si avventura su nuovi territori, un’investigazione nell’euritmia, un passo avanti nella realizzazione di armonie. Al contrario, la smania modernista teme proprio la misura, l’ordine, il limite; aborre il concetto dell’ornato, la cura del dettaglio, il piacere della rifinitura; ed è capace unicamente di occupare spazio, di dominarlo e schiacciarlo, violentando e distruggendo ogni cosa sul suo dissennato e arrogante cammino.
Lo scenario architettonico e urbanistico tradizionale è stato la vittima principale di questi caratteri fondamentali del modernismo. Al posto delle città a misura di Dio e degli uomini, universi del radicamento e dell’identità comunitaria, ciascuna commisurata alla cultura e alla spiritualità specifica dei popoli, luoghi dove la funzione abitativa si sposava alla praticità e fruibilità della compagine urbana e all’esigenza di bellezza degli ambienti, la città contemporanea ci ha dato i moduli abitativi standardizzati, le periferie smisurate e irrazionali, i grattacieli sempre più elevati, i centri residenziali e quelli commerciali o di lavoro nettamente separati tra loro: un tessuto urbano freddo e a compartimenti stagni in cui la città, componendo una trama sgradevole e astiosa, si è frammentata in tante isole non comunicanti tra loro, desolanti e minatorie, ostici all’uomo e generatrici di angosce e aggressività. Ognuno di noi, consapevolmente o inconsapevolmente, sente estranee e nemiche queste città, poiché esse annullano la differenza tra pubblico e privato, tra piacere e necessità, tra utilità e bellezza, e spersonalizzano l’individuo, ne uccidono l’autonomia e la fantasia, riducendolo ad un automa senz’anima e senza aspirazioni. L’uniformità urbanistica non è altro che l’espressione e lo strumento d’una volontà di dominazione tracotante e intimidatoria esercitata sull’uomo a tutti i livelli. Conviene solo alle grandi organizzazioni statalistiche, alle grandi concentrazioni di capitali e di forze produttive, alle eminenze oligopolistiche e totalizzatrici per le quali le volontà e i desideri e i piaceri individuali non hanno alcuna cittadinanza. Su questo terreno si è assistito alla perfetta fusione del vecchio regno dei Soviet col mondo liberale del globalismo moderno, il quale ha assorbito la sostanza livellatrice delle ideologie volte a una completa omogeneizzazione del pensiero per spianarsi quel percorso materialistico ed egualitaristico che induce l’uomo a scivolare verso il punto più basso e rozzo del suo essere, il meno consapevole e il più manipolabile, dove è facile accettare supinamente l’ambiente più mortificante costruito in nome dell’esigenza mercantile della realizzazione del profitto più elevato col massimo contenimento dei costi di produzione, una prassi, oltretutto, da ripetere ciclicamente in vista del rapido deterioramento e superamento del già realizzato.
In conclusione, per tutti gli uomini di buona volontà è un’esigenza vitale rivedere radicalmente il modello di città che vogliamo per il nostro il futuro e per quello dei nostri discendenti, cominciando ad agire per riallacciare il filo spezzato coi modelli realizzati dai nostri progenitori e riproponendo con forza il loro concetto di città.
4 commenti su “Dalla città come dimora di Dio all’agglomerato urbano senz’anima e nemico dell’uomo – di Dionisio di Francescantonio”
bellissimo ritratto
Grazie per questo magnifico articolo che mi ha fatto venire in mente le parole di San Pio X tratte dalla Lettera sul Sillon del 1910: …” bisogna ricordarlo energicamente in questi tempi di anarchia sociale e intellettuale, in cui ciascuno si atteggia a dottore e legislatore – , non si costruirà la città diversamente da come Dio l’ha costruita; non si edificherà la società, se la Chiesa non ne getta le basi e non ne dirige i lavori; no, la civiltà non è più da inventare, né la città nuova da costruire sulle nuvole. Essa è esistita, essa esiste; è la civiltà cristiana, è la civiltà cattolica. Si tratta unicamente d’instaurarla e di restaurarla senza sosta sui suoi fondamenti naturali e divini contro gli attacchi sempre rinascenti della malsana utopia, della rivolta e dell’empietà: “omnia instaurare in Christo”
Una noterella a proposito del Novecento. Si vadano a visitare p.e. Latina (ex Littoria) e Sabaudia. con le loro chiese. Città create di sana pianta, quando lo Stato rispettava la Religione.
Ringrazio il Maestro di Francescantonio per la sua analisi lucida e coraggiosa. E non a caso parlo di coraggio in questo periodo nel quale trionfa il cattivo gusto, il delirio devastante modello “Nerone” e la spocchia. Un momento storico nel quale un qualunque giornalista di una città di provincia si sente autorizzato ad ammonire ” ne sutor ultra crepidam ” ad un pubblico esterrefatto, disgustato in occasione della presentazione alla stampa di un progetto di devastazione di un giardino storico di fine Ottocento. Con la magica parola ” riqualificazione” è possibile tutto, in barba al Codice Urbani, alle regole che impongono il rispetto dei luoghi e dei contesti storico – architettonici, la salvaguardia dell’ambiente, di piante ed alberi centenari. La colata di orrido cemento, il posizionamento di spettrali lampioni, di “vasche” al posto delle aiuole, l’abbattimento di tutto ciò che è Storia. E i ciabattini, caro Maestro, sarebbero tutti coloro che in ogni sede con sincerità e coerenza hanno manifestato il proprio dissenso. Allora viva i ciabattini, viva tutti coloro che non rinnegano Storia, Fede e Cultura. In una parola, le proprie radici.