Dante sette secoli dopo. Trasgressivo, troppo trasgressivo…

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crocifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion, che nell’abisso
del tuo consiglio fai, per alcun bene
in tutto dell’accorger nostro scisso?
(Purg. VI,118-23)

Una società straniera alla sua visione poetica e profetica, lontana da ogni senso del divino e dell’ultraterreno, sorda a ogni richiamo alla tradizione, alla morale e al sacro, avulsa dalla fierezza identitaria e dal principio di sovranità, cosa può celebrare di Dante, se non giocare su un equivoco e una marchetta? Una repubblica delle lettere dominata dal conformismo più becero, devota all’uniformità ideologica, culturalmente mafiosa, divisa in quote, fobie, categorie protette, come può rendere omaggio a chi fu in vita e nelle lettere nemico di tutto questo e ne pagò aspramente lo scotto?” ( Marcello Veneziani).

Domenica mattina 12 settembre 2021, c’è grande animazione in piazza del Popolo, il cuore del centro storico di Ravenna. Ci fermiamo davanti al giornalaio del chiosco e chiediamo un’indicazione per il sepolcro di Dante che dista poche centinaia di metri. Ci risponde che non ne sa nulla e ci consiglia di rivolgerci al bar antistante, forse sono più informati. Giunti finalmente davanti al sacello, veniamo fermati da due guardiane mascherate, addette al servizio d’ordine; ci avvertono che, per motivi di sicurezza sanitaria, non si può accedere al tempietto (siamo nel mondo ospedalizzato del nuovo millennio) e bisogna rimanere ad alcuni metri di distanza. Fortunatamente non c’è coda e possiamo scattare qualche fotografia dall’esterno.

La folla infatti si sta riversando nella vicina piazza San Francesco in fremente attesa degli “eventi “ previsti per la giornata. Non mancherà la rituale offerta dell’olio: dal 1908 alimenta la lampada votiva che arde ininterrottamente nel Mausoleo come segno del “rimorso” dei fiorentini… Poi, tra concerti, convegni,”e “incursioni performative” dei dantisti da parata, sfileranno le solite “autorità” e i rappresentanti del mondo dello spettacolo che, ripresi da qualche televisione commerciale, si cimenteranno in letture pubbliche di versi della Divina Commedia.

Peccato che questi versi (si recitassero quelli del Mahabarata, nessuno se ne accorgerebbe) non si leggano e si studino dove dovrebbero essere letti e studiati, vale a dire a scuola: lì, il “sommo poeta”, ormai solo formalmente presente nei programmi, non serve al marketing…

Per le 11.15 nella Basilica di San Francesco, dove nel 1321 si tennero i funerali del poeta, è fissata una Messa (post-conciliare) in suffragio di Dante. Celebrata da chi se non dal cardinale Ravasi, vista la mondanità dell’occasione? Per sottrarci al profluvio di retorica ipocrita, ci rifugiamo nel Museo dedicato al poeta. Abbiamo prenotato il biglietto il giorno prima temendo il tutto esaurito o di rimanere in coda, ma siamo praticamente gli unici visitatori, la gente è tutta in piazza. Ci aggiriamo tranquillamente nell’attiguo chiostro della Basilica, accanto alla quale, subito dopo la sua morte, erano state poste, in un sarcofago di marmo, le ossa senza pace del poeta, nel corso dei secoli periodicamente trafugate e nascoste dai frati, per salvarle prima dai tentativi dei fiorentini di riportarle a Firenze, poi dai giacobini al seguito di Napoleone e infine dai bombardamenti terroristici anglo-americani del 1944-45.

Sono silenziose le sale dei sepolcri,
è ombrosa e fresca la loro soglia.
Affinchè il nero sguardo della beata Galla,
svegliatasi, non abbia da bruciare la pietra
(Aleksandr Blok, Ravenna)

Da lì iniziamo il nostro pellegrinaggio nei luoghi sacri frequentati dal poeta, celati nei loro spessi e impenetrabili muri rosso-scuri che recano i segni della millenaria azione erosiva dell’aria marina. “La città in cui passeggiava Dante, già vecchissima e misteriosa, era uno scrigno di arte luminosa e di silenzio, una interminabile stratificazione di enigmi” (Claudio Marabini). Entrando nello “scrigno incantato” di Galla Placidia, in San Vitale e in Sant’Apollinare Nuovo, ci lasciamo avvolgere dalla mistica e sognante atmosfera dei mosaici che ha alimentato l’ispirazione del poeta nel “trasumanar” dell’ultima cantica. A Ravenna , per chi conservi un barlume di vita spirituale, è difficile non avvertire l’attrazione del divino. “Se il vostro destino eterno vi interessa, andate a Ravenna. Esso sta scritto sui muri” (André Frossard, Il Vangelo secondo Ravenna).

Martedì mattina, 14 settembre, a un’ora ante-lucana siamo soltanto in due (mia moglie e io) sulla spiaggia deserta del Lido di Classe, in compagnia di qualche gabbiano. Sul mare un peschereccio che sta rientrando si avvicina a poco a poco al punto di approdo. Qui, per pochi chilometri, tra la foce del Savio e quella del torrente Bevano non c’è altro che spiaggia e pineta, l’ ultimo lembo di quell’edenico e fitto bosco che, prima di essere raso al suolo negli anni del cosiddetto boom economico, si estendeva fino a Comacchio e a Sant’Apollinare, e che ispirò Dante (per qualcuno la sua ombra vi si aggira ancora in certe ore del crepuscolo…) nella descrizione della “divina foresta spessa e viva” del Paradiso terrestre, in cima al Purgatorio dove si conclude la sua storia personale di peccato e di pentimento incominciata nella “selva oscura”. “Chi ha avuto la fortuna di vedere la famosa pineta di Classe, presso Ravenna, l’ha riconosciuta in questa paradisiaca foresta” ( Charles Moeller, Saggezza greca e paradosso cristiano).

Un’aura dolce, senza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non più colpo che soave vento;
…………………………………………..
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,
quand’ Eolo scilocco fuor discioglie.
(Purg. XXVIII, 7-22)

È la pineta che aveva incantato anche il Boccaccio, dove (nella celebre novella del Decamerone, narrata da Filomena nella quinta giornata) si ritira Nastagio degli Onesti, per non vedere più colei che non ricambia il suo amore. Qui avviene la strana apparizione che lo distoglie dal suicidio e indurrà poi l’amata a cedere ai suoi sentimenti.

Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
……………………………………………..
a li occhi miei ricominciò diletto
tosto che usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ‘l petto.
(Purg. I,13-18)

Tra le mani abbiamo una vecchia, e un po’ sgualcita, edizione tascabile Hoepli della Divina Commedia, uscita nel 1943; ha accompagnato mio padre negli ultimi due anni di guerra.

L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
(Purg. I,115-117)

Assaporiamo anche noi la solitudine e il silenzio di un paesaggio aurorale simile a quello evocato nel I canto del Purgatorio. È quasi la stessa ora in cui Dante settecento anni fa, a Ravenna, concludeva la sua tempestosa (ma pur sempre “favola breve”) vita terrena.

Mon pays m’a fait mal” ( Robert Brasillach). Dante, il poeta più cattolico che abbia mai avuto la Chiesa, non fu mai un clericale. Con l’ambasceria a Roma dell’ottobre 1301, nella quale aveva difeso l’autonomia di Firenze contro il tentativo del pontefice di affermare la propria signoria in Toscana, si chiude definitivamente la sua carriera politica. Accusato senza fondamento dai Neri, mentre è ancora a Roma, di reati che non ha commesso (baratteria, peculato), è condannato a due anni di confino, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a una grossa multa. Non essendosi presentato a giustificarsi entro i termini stabiliti, una seconda sentenza lo condanna ad essere arso vivo in contumacia. “Florentinus natione non moribus”, a Firenze non tornerà più, neppure da morto.

Tu lascerai ogni cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco dello essilio pria saetta
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e com’è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale
(Par. XVII,55-60)

La via crucis dell’esilio, profetizzatagli nel Paradiso dall’avo Cacciaguida, segna dolorosamente fino alla morte la vita di un uomo incapace di piegarsi al più piccolo compromesso. Del suo vagabondare (“legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertate”, Conv. I,3) e dei suoi spostamenti di città in città, di corte in corte, di pieve in pieve, di castello in castello, attraverso i passi appenninici nell’Italia centro settentrionale, fra Toscana, Romagna e Veneto, abbiamo notizie incertissime.

L’itinerario del suo esilio assomiglia al tracciato di un fiume carsico, con improvvise apparizioni e tortuosi nascondimenti… Viaggiava con un mulo o con un ronzino oppure con la muta dei cavalli che facevano il servizio postale. Qualche fagotto di roba legato mediante cinghie di cuoio, le sue carte gelosamente custodite, un coltello per difesa personale infilato nella cintura stretta attorno alla tunica, la penna d’oro accanto al coltello” (Cesare Marchi, Dante).

È a Siena, Forlì, Verona (dove “la grande S dell’Adige, il verde diadema dei colli, gli ricordavano il volto della patria perduta”); poi ad Arezzo, Treviso, Padova, Lucca, in Lunigiana dai Malaspina, nei castelli del Casentino presso i conti Guidi, a Pisa, Genova (?), forse a Parigi (alla Sorbona), Bologna, ancora Verona ( ospite di Cangrande della Scala), e infine a Ravenna (1318?), accolto da Guido Novello Da Polenta, ospite munifico e nipote di Francesca da Rimini. Qui il poeta può finalmente ricongiungersi con i figli Jacopo, Pietro e Antonia (suor Beatrice, che visse in un monastero della città), ma non con la moglie Gemma, rimasta, quasi sicuramente, sempre a Firenze.

Non est haec via redeundi ad patriam”. Le speranze di ritornare “al bell’ovile”, che si riaccendono con la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII, sono presto amaramente deluse in seguito all’esito fallimentare della spedizione e alla improvvisa morte del sovrano nel 1313. L’ultima possibilità sfuma due anni dopo, nel 1315, quando il poeta , ormai sulla cinquantina, rifiuta sdegnato di beneficiare di una amnistia concessa ( a lui e ad altri “banditi”) a condizioni umilianti. Durante la processione penitenziale in occasione della festa di San Giovanni (patrono della città) i rei amnistiati devono accettare di essere condotti al Battistero in atteggiamento dimesso e compunto, con un cero in mano e in testa un copricapo di carta con nome e cognome, per poi, come segno di ammissione di colpa e pentimento, varcare simbolicamente la soglia del carcere e pagare una multa.

La risposta di Dante è una delle più nobili testimonianze della moralità del poeta. “Codesta dunque è la revoca graziosa, con la quale Dante Alighieri è richiamato in patria, dopo le sofferenze di un esilio quasi trilustre? Codesto gli ha meritato un’innocenza a tutti palese? Codesto il sudore e l’indefessa fatica negli studi?… Forse che non potrò dovunque vedere le sfere del sole e delle stelle, e non potrò sotto qualunque cielo contemplare le dolcissime verità, prima che senza gloria, anzi con ignominia, io mi renda al popolo e alla città di Firenze?” (Dall’Epistola all’amico fiorentino). Una nuova sentenza lo condanna, questa volta, alla decapitazione.

Veggiamo in Dante un uomo d’animo forte, d’animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna” (Giacomo Leopardi). È la prima lezione di vita dell’Alighieri. Nella sua esistenza, nell’azione politica svolta come Priore, prima ancora che nella sua poesia, si manifesta un senso del dovere e della giustizia, una costante virilità, una coscienza morale e una passione per la verità, che lo rendono radicalmente estraneo al tipo politico e umano di oggi, alla moderna “razza dell’uomo sfuggente…insofferente per ogni disciplina interna… incapace di ogni serio impegno, di seguire una linea precisa, di dimostrare un carattere” (Julius Evola, L’arco e la clava). Soprattutto fanno del più grande poeta italiano, come scriveva Giuseppe Prezzolini, “il più grande anti-italiano”.

Il dovere di un uomo solo è di essere ancora più solo” ( Emil Cioran, Lacrime e santi). Disgustato dai fuoriusciti Bianchi, “la compagnia malvagia e scempia” (Par. XVII,62) con la quale ha condiviso i primi tentativi di ritornare a Firenze con la forza, Dante ben presto decide di “far parte per sé stesso” (né guelfo né ghibellino).

Per un uomo medievale la solitudine è mancanza di “senso”, non di compagnia. A sostenerlo è la consapevolezza della missione che si sente chiamato a compiere, mettendo a profitto il genio poetico ricevuto in dono. “Tutte le bellezze d’Italia in quel continuo peregrinare s’ impressero nei suoi occhi, per colorare di tinte sempre diverse le scene della sua poesia… In quel peregrinare egli vide le ingiustizie di tutte le terre d’Italia, sentì i lamenti e le imprecazioni di tutti gli infelici. Capì che la sua sofferenza non era se non un caso dell’universale sofferenza e accese in sé il desiderio di asciugare con le proprie le lacrime di tutti i figli di Eva. Con l’anima arsa da una sete inestinguibile di universale giustizia, si sollevò fino alle altezze degli antichi profeti” (Umberto Cosmo).

Se si prescinde da questa “folgorazione mistica” – così la chiama Giorgio Padoan – nulla si comprende di Dante. “L’esule ripensava il cammino della sua vita alla luce della sua Fede, e vi scorgeva misteriosi segni di una superiore Provvidenza. L’amore giovanile che l’aveva invitato a farsi degno del cielo, quel riapparirgli in visione di Beatrice per richiamarlo quando già egli si era allontanato da lei, l’amarezza dell’esilio che l’aveva reso mendico ma lo aveva innalzato al di sopra dei partiti e della cerchia del comune, l’ingiusta pena sofferta che lo aveva reso più alto nel dolore, la luce di ingegno che sentiva dentro di sé dovevano concorrere a creargli questa convinta fede in una propria missione” ( Carmelo Cappuccio).

Dante è uno di quegli scrittori di cui tutti parlano e che assai pochi leggono… Provate ad interrogare i vostri amici: chi di loro ha letto una volta la Divina Commedia, ‘il poema sacro a cui pose man cielo e terra’? Dei miei amici nessuno. Certamente quasi tutti conoscono ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita’ o anche ‘Lasciate ogni speranza voi ch’entrate’… Si conosce anche Francesca da Rimini, e il famoso: ‘quel giorno più non vi leggemmo avante’. L’episodio del Conte Ugolino infine è nella memoria di tutti. Ma più in là nulla. È il ‘no man’s land’”. (Charles Moeller).

La riflessione di Moeller, che scriveva alla fine degli anni ’40, oggi, in Italia, sembra improntata a… cauto ottimismo. Se infatti con la riforma Gentile del 1923 lo studio di Dante e della Divina Commedia era stato esteso sistematicamente a tutte le scuole superiori, ai giorni nostri anche nei Licei Classici (ai quali di “classico” è rimasto il nome e nei quali la libertà di insegnamento è stata di fatto soppressa in ossequio alle logiche di mercato) i docenti che continuano a proporre la lettura e l’esegesi di qualche canto paiono usciti dall’ultima scena di Farenheit 451. “I dati sullo studio della Commedia nelle scuole superiori e nelle università – annotava Giovanni Fighera dieci anni or sono – denunciano già un grave abbandono del capolavoro dantesco. Quando nel 2005 e nel 2007 sono state assegnate per la prima prova dell’Esame di Stato nelle scuole secondarie superiori terzine tratte dalla Commedia… una percentuale davvero irrisoria dei maturandi (attorno al 4-5 per cento), si è cimentata col monumentale capolavoro”.

Percentuale che, nel Bazar di Zanzibar delle nostre scuole-azienda, dove (senza colpa dei ragazzi) anche per un allievo bravo “Mazzini ha fatto la Resistenza” e “il monastero di Montecassino è stato bombardato dai tedeschi” (sic!)… pare addirittura lusinghiera. La concezione anagogica del vivere, la stessa che anima la tensione verso l’alto delle cattedrali gotiche e che sostanzia l’impalcatura del pensiero di Dante, è quanto di più antagonista si possa concepire rispetto a quella catagogica e demo(no)cratica attuale in cui “ogni rapporto normale è invertito” (J. Evola). Una volta “crollato il comunismo sotto le macerie del muro (1989) e rimasto simbolicamente vuoto il balcone di San Pietro con le le dimissioni, nel 2013, di papa Benedetto XVI (il primo pontefice sconfitto dal processo di modernizzazione turbocapitalista), resta l’insensatezza di un mondo abbandonato da Dio, trasfigurata in accettazione nichilistica per ultimi uomini sazi e felici, gaudenti e appagati dal presente consegnato alla miseria più completa” ( Diego Fusaro, Il nuovo ordine erotico).

Al contrario, la grandiosa concezione della storia nella quale il Bene e il Male non sono un’opinione e tutte le attività umane trovano il loro centro nella fede cattolica; la visione di un Impero universale icona dell’unità celeste, e di un’ Europa che ha le sue radici nella civiltà classica e in quella cristiana; l’idea che il potere politico derivi direttamente da Dio e che soltanto questo lo rende legittimo; il rifiuto delle false religioni (“gli dei falsi e bugiardi”, Inf. I, 72); l’amore per la bellezza come ideale che conduce alla Verità ( dalle creature al Creatore), la prospettiva apocalittica nell’attesa di una rigenerazione morale del mondo, la riprovazione per il vizio degradante della sodomia e di ogni perversione contro natura, rappresentano un impianto dottrinario e un complesso di valori altamente eversivi per l’”Homo academicus saecularis sinister” (A. Esolen), il quale si affretta a “storicizzare” il poeta relegandolo nell’inoffensivo ruolo di figura conclusiva del Medioevo, oggetto di narcisistiche e sterili logomachie filologiche, o, peggio, adattandolo, per renderlo presentabile ( e meno…”divisivo”), ai canoni della mentalità contemporanea.

Per Giovanni Papini, Dante “patì in vita sotto i fiorentini e in morte sotto i dantisti”. Tuttavia l’illustre concittadino del Sommo Poeta era ben lungi dal prefigurare la ghigliottina (di cui anche lui è vittima…) della “cancel culture”, preconizzata da autori come Huxley ed Orwell e asservita al progetto di distruzione non solo del pensiero occidentale, ma del pensiero “tout court”. Sintomatico il caso (uno dei tanti) stigmatizzato da Marco Cesario: “Anche il Sommo Poeta doveva pagare il suo pesante e grottesco tributo all’epurazione di massa della cultura a favore del politicamente corretto, operazione che sta provocando la più grande cancellazione e riscrittura della storia che non era riuscita nemmeno alle dittature del XX secolo… L’editore olandese Blossom books ha deciso di rimuovere il personaggio di Maometto dal canto XXVIII dell’Inferno… L’editore giustifica la sua scelta con il desiderio di non offendere, soprattutto i giovani: ‘Con la nostra serie di traduzioni, vogliamo presentare i classici della letteratura in modo accessibile e divertente per i nuovi lettori, soprattutto quelli più giovani’”.

È tristemente noto peraltro che molti centri di azione modernista, come ad esempio – citiamo ancora Giovanni Fighera – Gerush 92, “organizzazione di ricercatori e professionisti che svolge progetti di educazione allo sviluppo e ai diritti umani ( sic!) accreditata presso l’ONU”, propongono apertamente di eliminare la Divina Commedia nei programmi scolastici, perchè antisemita, islamofoba,addirittura contro i sodomiti”.

Ab infestationibus demonum libera nos Domine”. Per comprendere tanto odio verso la luce non dobbiamo far altro che scendere nella Tolomea (siamo nel Canto XXXIII dell’Inferno, dominato quasi per intero dalla tragica figura del conte Ugolino). Qui i traditori degli ospiti, nel lago gelato del Cocito, giacciono supini fasciati da una crosta di ghiaccio. Non possono trovare sfogo nel pianto perchè le lacrime gelano immediatamente, coprendo gli occhi come “visiere di cristallo”. Un dannato attira l’attenzione di Dante supplicandolo di liberarlo dai “duri veli”. È Frate Alberigo dei Manfredi di Faenza, che ha fatto assassinare a tradimento (al segnale convenuto: vengano le frutta”) due suoi congiunti, dopo averli invitati a pranzo. Dante, incontrandolo, si meraviglia credendolo ancora in vita e il dannato gli rivela una realtà terrificante: un’anima che abbia compiuto un delitto così abietto può precipitare all’inferno prima della morte fisica. Nel suo corpo ancora in vita subentra un demone che continua ad agire con apparenza umana.

Oh!’ diss’io lui ‘or se’ tu ancor morto?”
Ed elli a me:’ Come ‘l mio corpo stea
nel mondo su, nulla scienza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’ Atropòs mossa le dea
(Inf. XXXIII, 121-26)

Anche nel genovese Branca d’ Oria è avvenuta la stessa “sostituzione”. Alle parole di stupore di Dante:

Io credo”, diss’io lui “che tu mi inganni;
che Branca Doria non morì unquanque,
e mangia e beve e dorme e veste panni”
(Inf. XXXIII,139-41)

Frate Alberigo risponde:

…questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo…”.
(Inf. XXXIII,145-6)

Esseri “transpecifici” metà uomini e metà demoni. Forse li incontriamo ogni giorno, e davvero l’Inferno è vuoto… Su questo episodio, troppo poco noto, la critica si sofferma per mettere in luce la “trasgressione teologica” del poeta rispetto all’ortodossia cattolica, tuttavia è difficile per il lettore che lo conosce non rabbrividire. Si resta smarriti di fronte all’impudicizia viziosa, tipica dell’ esibizionista patologico, con cui oggi non solo si fa il male ma si fa di esso pubblicamente una bandiera o… una legge dello stato.

Il pensiero corre a Nicolaj Stavrogin, il personaggio più infernale dei Demoni di Dostoevskij che – ricorda Moeller – avendo peccato contro lo spirito ( uccidendo in sé l’immagine di Dio), ha ucciso la sua anima prima della morte fisica: “Gustavo l’ebrezza che nasce da una coscienza torturata dalla sua bassezza…; ed è un piacere che supera ogni immaginazione”.

“Perfice gressus meos in semitis tuis” (Sal. XVI,5, 6-7). La solitudine e le amarezze patite da exul immeritus, che lo hanno reso nomade attraverso l’Italia e forse l’Europa (“mendicando sua vita a frusto a frusto”, Par. VI, 141), le delusioni e le sconfitte politiche, non inducono Dante a staccarsi dalle vicende terrene, bensì a considerarle “sub specie aeternitatis”, con la passione di chi sa dare loro un senso perché è nella certezza della Verità. “Una esigenza imperiosa spinge l’uomo medievale alla ricerca della verità” (Romano Guardini) e il Medioevo è l’unica epoca in cui l’uomo non ha fantasticato sul suo destino.

La “visione” di Dante non è fantasia, ma qualcosa di reale (la parola “vidi”, nella Commedia, ricorre oltre 200 volte ed è la più frequente insieme a “occhi”) e il processo di purificazione personale che Dio gli ha concesso “deve tradursi in un processo di restaurazione del bene e del vero a vantaggio di tutti” (Gianluigi Tornotti). È il poeta stesso a dichiararlo a proposito della Commedia: “Si può dire in breve che il fine di tutta l’opera… consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità” (Epistola a Cangrande della Scala, dedicatario del Paradiso).

In questa prospettiva, la nobiltà della politica e la serietà del suo compito (proviamo a immaginare in quali gironi Dante metterebbe i politici attuali) consiste nel contribuire a plasmare la “civitas hominis” sul modello della “civitas Dei”, per realizzare (già in questa vita) la felicità naturale, preparazione a quella perfetta, soprannaturale indicata dalla Chiesa, una Chiesa non certo dedita a “puttaneggiar coi regi” (Inf. XIX, 108) come la nostra che, asservita ai potenti e dimentica di San Paolo (Rom. XII,2: “nolite conformari huic saeculo”), “si muove sul palcoscenico sociale e civile del mondo come una ballerina di facili costumi cui sono graditi solo gli applausi della folla” (Manfredo Anzini).

Il Peccato (ma oggi Dante troverebbe più facilmente acqua santa all’inferno che questa parola nella neo-chiesa para-cattolica…) rappresenta invece per il poeta la rottura del rapporto tra l’uomo e il suo destino, ossia quello di essere felice, e di esserlo sempre. Il Buon Pastore – di cui tante volte contemplò lo splendido mosaico all’ingresso del Mausoleo di Galla Placidia – va in cerca della pecora più smarrita, e basta la forza di un solo istante di consenso e di pentimento per riscattare una vita intera. Così accade per il ghibellino Manfredi, che muore nella battaglia di Benevento, scomunicato dalla Chiesa, ma che si pente all’ultimo istante, proferendo le parole di Luca (XVIII, 13): “Deus, propitius esto mihi peccatori”.

Poscia ch’io ebbi rotta tutta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volentier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
(Purg. III,118-23)

Anche Buonconte da Montefeltro, capo dei Ghibellini di Arezzo, aveva vissuto dimentico del suo vero destino. Ferito a morte alla gola nella battaglia di Campaldino, si era trascinato in una drammatica fuga fino alla confluenza del torrente Archiano con l’Arno:

arriva’ io forato nella gola,
fuggendo a piede e ‘nsanguinando il piano.
Quivi perdei la vista, e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
(Purg. V, 98-102)

Il suo ultimo respiro è un’invocazione alla Madonna, e il demone cattivo si vede sottrarre dall’angelo buono l’anima di Buonconte: “Tu te ne porti di costui l’etterno/ per una lagrimetta che ‘l mi toglie” (Purg. V, 106-7). “Ma il vostro parlare sia ‘ sì sì no no’. Ciò che è in più viene dal Maligno” ( Matteo, V,37).

Nel dicembre 1315, a Padova, con una solenne cerimonia durata tre giorni, viene incoronato poeta dai suoi concittadini, e applaudito “redivivo Virgilio”, Albertino Mussato (pre-umanista oggi sconosciuto). Dante, invece, il mese prima, è stato condannato alla decapitazione, qualora cada nelle mani del Comune di Firenze. “Nessun uomo più di Dante ebbe consapevolezza della propria grandezza, nessuno più di lui sperò nel riconoscimento dei propri alti meriti artistici: e nessuno ne ottenne meno… L’ arditezza di concezione del suo poema, l’afflato profetico che l’animava, le aspre invettive… le condanne di questa e di quella personalità gli suscitavano contro forti critiche , perplessità, reazioni di amici e parenti dei colpiti” (G. Padoan). Tacere per prudenza o convenienza non fa parte del suo appassionato temperamento: “rimossa ogni menzogna,/ tutta tua vision fa manifesta;/ e lascia pur grattar dov’è la rogna!”, (Par. XVII, 127-29).

Tutto ciò che è momentaneo, tutto ciò che è perituro
tu l’hai sepolto nei secoli,
e come un bimbo, dormi, o Ravenna,
in braccio alla solenne eternità
(A. Blok, Ravenna)

Solo a Ravenna “profonda provincia, assai più profonda di Venezia” (Aleksandr Blok, Lettera alla madre del 13 maggio 1909), difesa dai boschi e dalle “mura liquide” degli acquitrini , “città non di morte ma di memorie silenziose” (Augusto Vicinelli), tra le vestigia degli ultimi imperatori di Roma, dei Goti di Teodorico e dell’esarcato di Bisanzio, nello scenario incantevole della pineta e del mare, “la malìa del passato scioglie il poeta dalle angustie del presente” (C. Marchi).

Il ritorno, nell’agosto 1321, dall’ambasceria a Venezia per conto di Guido Novello Da Polenta, è l’ultimo viaggio terreno del poeta. Durante il tragitto ( in barca fino a Chioggia e poi via terra, lungo la pericolosa via Romea e attraverso le paludi di Comacchio, dopo aver pernottato all’abbazia benedettina di Pomposa ) contrae la malaria. Poche settimane dopo è in fin di vita. I figli lo assistono e lo confortano nei giorni che precedono il transito, e Beatrice “la gloriosa donna”, “venuta da cielo in terra a miracol mostrare”, gli verrà incontro, ad accoglierlo nell’eterno, la notte fra il 13 e il 14 settembre. Per un estremo segno del destino, il Paradiso – e con esso il “poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra” – è appena stato concluso. Dante ne vedrà la pubblicazione in Cielo.

Quando mia figlia era bambina, le chiedevano spesso perché continuasse a leggere Il Signore degli Anelli… Le ho detto di rispondere: ‘Perchè voglio sapere come va il mondo’” (Anthony Esolen, Sex and unreal city, la demolizione del pensiero occidentale). Nessuna esperienza umana è ignota alla sensibilità di Dante. Il travaglio dell’esilio lo ha reso, come Ulisse, esperto “de li vizi umani e del valore” (Inf. XXVI, 99).

Nel “Truman show” e nella “Città Irreale” della Modernità con i suoi bisogni immaginari, “dove non si va più a scuola per conoscere ciò che è reale”, Dante, nell’opaco e sfuggente mondo che non ci appartiene, continua a parlare ad ognuno di noi delle uniche cose che ci riguardano e per le quali vale la pena vivere. Trasgressivo, troppo trasgressivo…

4 commenti su “Dante sette secoli dopo. Trasgressivo, troppo trasgressivo…”

  1. Identità e sovranità. Principi che alcuni partiti odiano e altri cercano di seguire. Ma ciò non vi basta! Non sono perfetti come volete voi e li rifiutate. Accontentatevi di questi perché all’orrore e al servilismo dei progressisti non c’è fine!

  2. Splendido scritto e splendido rimando al sommo Dante ormai condannato all’oblio da un mondo che é “Tolomea” dove “… spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’ Atropòs mossa le dea”. Veneziani si conferma il più alto pensatore e scrittore dell’Italia attuale.
    Corrado Corradi

  3. Giosuè Berbenni

    La grandezza di un poeta è anche quella di far fare recitare in ginocchio a sette secoli dalla sua morte: Miserere nostri Domine, misere! Caro Andrea: sei riuscito a scoperchiare le nostre piaghe grazie a chi è passato nel crogiolo della purificazione. Complimenti vivissimi.
    Giosuè Berbenni

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