DE SICA RIFLESSIVO – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

 

 


de sicaQuale motivo di dubitare che Vittorio De Sica, essendo stato un buon regista e ideatore di storie cinematografiche, avesse ben sondato la problematica della vita individuale, sociale e politica?

Nel rivederlo – a noi che non fummo tra i suoi intimi – continua a giungerci l’impressione di un signore preso di sé, sensibile e che lascia trapelare un sentimentalismo misto a sensualità: il signore dal sorrisetto sornione, piuttosto mite e, nello stesso tempo, impulsivo, sotto sotto determinato, divenuto incapace di spogliarsi dell’attore per essere, o mostrare, se stesso. Da attore, egli venne sempre più recitando in modo teatrale o, meglio, interpretando personaggi privi di naturalezza. Di una persona simile è difficile intendere come abbia approfondito, con coscienza e intelletto spassionato, i temi storici, le organizzazioni della vita civile, scomodandosi per andare al di là delle intuizioni di autore geniale, ma circoscritte nell’ambito delle vedute correnti e coatte.

Prima della guerra, De Sica è soprattutto interprete di commedie brillanti (Gli uomini che mascalzoni, Darò un milione, Il signor Max, I grandi magazzini, eccetera, eccetera, con qualche parentesi, come nei panni del cavaliere Des Grieux in Manon Lescaut, impersonata da Alida Valli). A differenza di quasi tutti gli altri suoi colleghi, incluso Alberto Sordi, non mi risulta ci sia un fotogramma che lo ritragga col braccio alzato nel saluto romano. Durante l’occupazione tedesca, a Roma lavora un po’ in Vaticano (La porta del Cielo). Poi, il suo impegno nel neorealismo. Poi, lo scarno dramma elegiaco di Umberto D; e Stazione Termini, espressione intensa dei protagonisti d’un amore adultero e impossibile; L’oro di Napoli, a celebrare la convivenza coi bubboni morali, esterni e personali: per opera d’un innamorato del saper vivere partenopeo; Il tetto, ripresa dello sguardo attento al proletariato, ai grevi adattamenti sostenuti dai manovali inurbati, senza casa.

Frattanto: molte sue interpretazioni negli spettacoli dello schermo, prevalentemente leggeri e divertenti, alcuni anche inferiori alla sua dignità artistica. In quei ruoli sembra essergli congeniale la famosa arte di arrangiarsi. Egli concorre allo sciagurato compiacimento per l’estro italiano di abbinare l’essere umani all’essere furbi, sino a una sorta di cinismo umanitario; quasi che potesse riscattare l’immoralità, quell’umorosa benevolenza a beneficio di tutti, compreso il soggetto che l’esprime, o specialmente a suo favore. Le deprecate forbici del censore, ancora efficienti con le scene scabrose, vennero colte di sorpresa e restarono a lame aperte, perché avrebbero dovuto tagliare troppo, e non avevano appoggio né animo per il loro intervento. – Coloro che nutrono l’idiosincrasia per la censura faranno bene a tener presente la squallida sporcizia dell’atmosfera che ci circonda, da quando il controllo del pudore e dell’immoralità è andato a quel paese. E tanto peggio per chi ormai vi sia assuefatto.

Le parti drammatiche che il Nostro recitò mantennero il carattere dell’uomo che si era abituati a vedere. Ne Il generale Della Rovere (1959), per carpire l’identità del capo partigiano confuso tra i prigionieri politici, e ricevere dal tedesco occupante la ricompensa della delazione, un avventuriero si finge generale badogliano incarcerato con i resistenti. L’abbandono dell’interesse venale, originato dalla schiavitù del gioco d’azzardo cha affligge questo informatore, il suo volgersi all’ammirazione per il sacrificio dei votati a una causa ritenuta giusta, la sua finale immolazione accolta per non tradirli, non possono mutargli il volto. Dovendo ritenere credibile il tramutarsi in martire del gaudente spregiudicato e spregevole, lo faremo in omaggio a una sua solidarietà pervasa da un bisogno di espiare, che rasenta la disperazione del suicidio; ma non persuade un suo convincimento lungimirante, per una grande consapevolezza.

Invece, riprendendo, dalla carrellata fin qui condotta, tre avvenimenti che è impossibile considerare semplici incidenti di percorso, dovremmo ricrederci. Siamo nel 1957, da qualche anno De Sica ha lasciato dietro di sé l’ultima sua creatura assai depurata della realtà: L’oro di Napoli, e lavora intensamente da comprimario, forse per poter continuare a frequentare il casinò. Le scritture non gli mancano, e annettere le scelte, di cui sto per dire, al bisogno di soldi sarebbe una supposizione gratuita.

Turi Vasile è incaricato di dirigere I colpevoli. A De Sica viene proposto un ruolo affatto minore, ed egli acconsente. Il film, che non è da cassetta, e a cui la critica metterà la sordina – oggi degnato d’una menzione distratta, nei vari dizionari di cinematografia – occupa un posto di primo piano nel filone della settima arte, e altresì nel pensiero che rileva lo stato di salute d’una nazione.

In una famiglia della degna borghesia il rampollo studente perpetra, insieme a un coetaneo, una rapina a mano armata ai danni d’un benzinaio; per avere denaro da spendere, ma, in fondo, vendicandosi della propria scontentezza, e per la carestia di ideali. A scuola, i professori sembrano attaccarsi alla severità, nel dare una diligente esecuzione al loro compito di docenti e di educatori. A casa, il padre non ha da dire che parole di correzione, con insegnamenti di una dirittura che giunge fredda al destinatario. La vicinanza materna è preoccupata, apprensiva, e non può bastare. Anche il dialogo tra i genitori è stentato, il loro rapporto finisce sulle secche dei soliti contrasti, presi in ridere alla luce grave del matrimonio, stemperati dai cari ricordi degli inizi costruttivi. Tuttavia il malessere cova.

Rientrato nottetempo leggermente ferito, il ragazzo è costretto a confessare; prima alla mamma, che tenta, senza riuscirvi, di sottrarlo all’interrogatorio del pater familias. A lui, giudice togato, sul punto di festeggiare la promozione a coronamento della carriera, l’indipendente amichetta dei due apprendisti malviventi risponde che essi hanno agito quasi senza saperne il motivo. No, non l’hanno fatto per lei, né per nessun’altra. Davanti all’amareggiato stupore paterno, ella replica che i grandi non hanno offerto nulla in cui credere.

Il benzinaio guarirà, il caso potrebbe restare insoluto. La madre implora, invoca l’amore di genitori, per il quale suo marito ha bisogno di stimare, a differenza di lei che ha dato è darà comunque il suo caldo affetto. Dopo qualche ripensamento, il magistrato decide di presentare le dimissioni e mette suo figlio nelle mani della giustizia. De Sica è colui che partecipa da amico di famiglia, e dà la sua assistenza come procuratore legale; riceverà anche l’incarico di difendere il giovane sbandato.

Il lavoro, tratto da un dramma di Renato Lelli, fu un campanello d’allarme per il futuro. Occorreva capire che, distrutto il regime autoritario, si erano contemporaneamente gettati via gli ideali sostanziosi, e che, senza di essi, non c’erano più giuste regole che tenessero.

Poco tempo dopo, il brav’uomo che non sa staccarsi dalla famiglia formata con la prima moglie Giuditta Rissone, mentre con la seconda compagna, Maria Mercader, da cui ha avuto due figli sin dagli anni Quaranta, riuscirà a contrarre matrimonio soltanto più tardi in Francia, questo signore che ama darsi un tono signorile, accetta di figurare da console, ma segreto comandante della Marina italiana, ad Algeciras, in una rievocazione di eroiche imprese degli incursori contro le navi inglesi nella baia sulla quale si affaccia Gibilterra. Il soggetto del film (La donna che venne dal mare), è semplice e inequivocabile. Lo dirige De Robertis, che ha seguito imperterrito il suo proposito di conservatore delle gesta nobili e generose di sommergibilisti, marinai, aviatori e cavalieri, in Russia lanciati alla carica delle postazioni difese dalle mitragliatrici. Persino la spia italiana di pochi scrupoli (un’inedita Sandra Milo) che, sotto mentite spoglie, presta aiuto ai militari subacquei, ne uscirà redenta passando attraverso l’amore per il giovane ufficiale scomparso nelle acque della baia, sconvolte dalle bombe delle motovedette britanniche.

Terzo atto: La Ciociara (1960). La guerra vi resta chiusa in un orizzonte negativo. Però si è sentito il bisogno di strappare la cortina che copre i feroci disordini delle truppe alleate. Madre e figlia stuprate dai soldati marocchini non potranno più riaversi dal male passato sopra di loro. Quale significato poteva avere riprendere le barbarie commesse – per niente episodiche, allorché venivano autorizzate dai liberatori ai combattenti di prima linea, scatenati all’assalto dei villaggi dove le retroguardie del nemico potevano attenderli al varco? A che pro, dover rivangare la colpa del regime, che aveva aperto le ostilità, per addossargli in qualche misura, oltre alle stragi di civili causate dai bombardamenti, le uccisioni e le violazioni perpetrate dagli Alleati durante la loro avanzata? Perché risvegliare echi di sciagure, su cui da tempo erano stese coltri su coltri di prudente silenzio?

Naturalmente l’attenzione di addetti ai lavori e osservatori di sponde opposte si rivolse al capolavoro del grande Vittorio, a Sofia Loren pluripremiata nella parte della madre dolente, alle scabrosità di alcune scene forti; nella contentezza generale. E fu zittito chiunque  avanzasse domande candide e indiscrete.

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