DELLA PENA DI MORTE: NELLA PATRIA DI CESARE BECCARIA – di Luigi Gagliardi

di  Luigi Gagliardi

 

 

Dalla  Cina agli Stati Uniti, per limitarci a citare le grandi potenze, è ancora in vigore la pena di morte. Questa realtà è un motivo di attenta riflessione per tutti gli uomini che hanno ancora a cuore l’integrità e la dignità della persona.

Un ben noto clinico medico dell’Università di Roma, mi sembra che fosse il prof. Cesare Frugoni, parlando della morte, della morte naturale, affermava che l’uomo ha orrore pauroso della morte. Si sarebbe portati a rilevare l’inutilità dell’aggettivo pauroso, dato che con esso si avrebbe la ripetizione di un concetto e di un sentimento già presente nella parola orrore . In realtà la ripetizione è giustificata dalla volontà di caratterizzare il più possibile un evento che dal punto di vista umano sembra non avere l’eguale. In effetti un vecchio adagio popolare afferma:”Solo alla morte non c’è rimedio” e questa constatazione è il punto dal quale bisognerebbe partire quando si intende parlare della pena di morte.

pena di morteL’argomento è di stretta pertinenza etica prima che normativa e merita pertanto la nostra attenzione.

Il film di André Cayatte del 1952,  Siamo tutti assassini, metteva in risalto con cruda evidenza gli aspetti tragici della pena di morte. Fortunatamente oggi assistiamo ad  una apprezzabile iniziativa internazionale che ha inteso porre una moratoria alla sua applicazione e si deve sperare che, oltre

a  più vaste adesioni, si possa alla fine giungere anche ad una sua generale abolizione.

D’altro canto l’applicazione di quella pena cozza contro una serie di considerazioni: ci si può trovare di fronte all’errore giudiziario originato dal dubbio di prove e di testimonianze, oppure a variabilità di opinione dei giudici e delle situazioni perciò  alla sua immodificabilità corrisponde la possibile variabilità  dell’organo giudicante esposto come è a innumerevoli influssi non esclusi quelli delle possibilità difensive, anche economiche, dell’imputato. Non si dovrebbe dimenticare un altro vecchio adagio per cui in dubbio pro reo.

Su un altro versante si deve considerare che l’afflizione che il condannato subisce, anche se responsabile del più efferato delitto, può essere fortemente sproporzionata rispetto a quella che, in genere, la vittima ha subito: e questa sproporzione è tale sia dal punto di vista procedurale con le more e le lungaggini dei processi e dei rinvii, persino di quelli garantistici, sia dal punto di vista dell’esecuzione le cui modalità sono state sempre oggetto di ricerca, dall’abbandono di quelle fatte ad arte in tempi remoti per terrorizzare, all’adozione di quelle che possano rendere l’esecuzione meno penosa. Non manca inoltre la difficoltà  della ricerca e della idoneità di chi la realizzi e di come vada realizzata. Le vicende legate a questo particolare aspetto sono così raccapriccianti e del resto ben presenti nella mente di tutti, che non è il caso di insistere su questo punto.

Ci si domanda  allora a quale principio morale può corrispondere l’adozione di una simile pena. Essa  dovrebbe corrispondere al concetto della difesa sia della singola vittima che della stessa società, e base del concetto per il quale la difesa sia legittima è che questa sia inevitabile e proporzionata ma la proporzione per i motivi esposti non può essere ricercata in una corrispondenza di effetti da pena del taglione per cui all’uccisione dell’assassinato deve corrispondere l’uccisione dell’assassino.

Altre considerazioni vanno fatte e riguardano la conversione del reo, uno scopo abitualmente professato dalla scienza giuridica e dal comune sentire, ma questa finalità verrebbe meno con la sua estinzione.

Per quanto riguarda poi la funzione dissuasiva, o di deterrente come si dice, sembra proprio che le casistiche la neghino o per lo meno ne dubitino sufficientemente. Durante la Prima Guerra Mondiale, pur essendo presente nell’ordinamento ed ampiamente applicata la pena di morte, in Italia si ebbero cinquecentomila disertori per i quali questa era prevista. Per fortuna essi si potettero giovare della amnistia detta della Vittoria. Del resto la funzione dissuasiva  può essere esercitata da altre forme di punizione che, mentre sono anche esse affliggenti, non sono altrettanto esiziali.

In fine per quanto riguarda una pretesa azione vendicativa, questa va assolutamente bandita dagli scopi di un corretto ordinamento giuridico tanto più che molto spesso la si esercita lontano dai sentimenti e dai desideri di familiari e di persone offese.

La diffusa contrarietà alla pena di morte non manca di  elementi di ordine psicologico che la rendono ripugnante, ma non per questo tale contrarietà deve venir meno dato che anche questa componente dell’animo umano va rispettata, come pure va seriamente rispettato il diritto alla  protezione dei singoli e della società infatti non è giusto invocare il rispetto per gli assassini  omettendo di parlare del rispetto per le vittime. Quello che qui si intende sostenere è che lo scopo della protezione  di chi – singoli o enti – potrebbe essere esposto ad azioni criminose  si deve raggiungere con forme meno primitive e più legittime di difesa, che risiedono in  una azione preventiva dello Stato al quale stia a cuore la protezione dei cittadini operata da una pedagogia antiindividualistica, completamente e compiutamente sociale perseguendola con la formazione di un maggiore senso civico nei confronti del quale non ci si impegnerà mai abbastanza.

Sia ben chiaro, tutto ciò non deve essere preso a favore delle scuole positiviste della fine dell’800 che annettendo sempre e comunque il determinismo all’azione delittuosa questo annullerebbe lo stesso concetto di libertà che investe e  caratterizza la persona.

Le difficoltà che suscitano queste osservazioni sono tante, ma non sono superiori alle difficoltà teoriche e pratiche che, diversamente, dovrebbero accompagnare quello che più volte è stato definito un omicidio di Stato.

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