di Giulio Alfano
Nell’ambito della politica internazionale non va dimenticato che il pluralismo non è pluralità delle posizioni ed opzioni, ma va considerato come pluralità di diversi ordinata naturalmente per il raggiungimento di un fine e, nel caso della politica,del bene comune. Spesso infatti si parla di “pluralità” riferendosi ad una molteplicità di uomini, organizzazioni ed anche ordinamenti compresenti ma tra di loro indifferenti: è quel che si definisce “microcosmi” caotici, che è poi il presupposto del clima richiesto dalle ideologie o dai partiti, come la situazioni internazionale oggi dimostra,perché il più delle volte si tratta di organizzazioni “cesariste” legate soltanto alla cultura della leadership con un pluralismo sovente conflittuale.
Tuttavia si tratta spesso di un pluralismo “relativistico”, che ritiene possibile un ordine politico solo in virtù di talune teorie che non si devono affatto confondere con la filosofia politica, ma con un disegno che prescinde dalla realtà delle cose, che anzi dipenderebbero non dall’ordine naturale ma da un’informe situazione di fatto dalla quale si esce con una decisione della volontà, ossia il “tornaconto”! Si tratta di un neocontrattualismo che pretende di creare la società politica assegnando all’esistenza un primato sull’essenza, sulla sua natura e sostenendo che essa ha un ruolo costitutivo nei confronti di essa. Le teorie di Hobbes e di Rousseau rappresentano un esempio del tentativo di dare ordini arbitrari alla società, perché col contratto sociale nasce anche il cosiddetto “bene pubblico”, che altro non è che il bene privato del corpo politico, mentre quello pubblico è il bene dello stato che è, comunque, altro rispetto al bene dell’uomo singolo o, al massimo il bene di cui il cittadino e non la persona è partecipe in quanto membro del corpo sociale. E’ perciò sempre difficile parlare di “bene comune” nell’ambito delle ideologie emerse nel ‘900, perché esistono differenze tra pubblico e privato e la concezione razionalistica della proprietà privata è abbastanza illuminante in questo senso; il bene pubblico può diventare “totalitario” perché rischia di poter prendere in considerazione solo sé stesso “in atto”, in quanto si caratterizza per l’unicità e conta solo l’ordinamento legislativo positivo, la “legalità”, che è il solo criterio cui fare riferimento con una ricaduta di potere, di capacità di rendere effettiva la propria volontà, riducendo anche il diritto internazionale a trattati che sembrano sempre più imposizioni. Nello stato moderno il bene pubblico è la conservazione dell’artificiale corpo politico, che coincide con l’esistenza dello stato che, per il fatto di esistere, garantisce lo scopo per il quale si è dato contrattualisticamente vita allo stato medesimo? Certamente la risposta è negativa ma per renderla effettivamente alternativa occorre chiarire che la sua nascita, se segna il sacrificio del privato, ne consegue che l’eguaglianza sia necessariamente molteplicità delle identità e delle culture che configurano il pluralismo non solo in senso numerico. L’eguaglianza che lo stato moderno tende invece ad assicurare è di tipo numerico, è una mera identità
Formale contraddetta a volte dagli enunciati di volontà che sono poi le leggi quando prendono in considerazione le differenziazioni della ricchezza personale. Il valore della cultura personalista concorre invece a superare l’eguaglianza livellatrice dello stato moderno, che annulla ogni realtà che ponga in discussione la sua unicità, e il bene pubblico non richiede necessariamente l’eliminazione delle pluralità delle realtà come la famiglia e in genere i corpi intermedi dello stato, mentre sono il centro dell’azione legislativa democratico-parlamentare, giacchè la vita dell’uomo non è in dipendenza del riconoscimento dell’ordinamento giuridico. La persona non è il centro di imputazioni giuridiche, ma una realtà formale e astratta costruita dall’ordinamento giuridico positivo con un forte valore ontologico. Vanno riconosciute le identità di ciascuno e l’epoca contemporanea, con il tramonto delle ideologie, ha posto l’uomo in quanto persona al centro dell’attenzione politica e lo stato esiste per consentire la piena realizzazione dei cittadini. Senza alcuna discriminazione. L’amicizia è la più nobile espressione della politica e, quindi, della personalità dell’uomo fondata sulla trascendenza dell’intelligenza, ma anche della volontà, che consente ad una sostanza intellettuale di superare i limiti della soggettività egotica. Il carattere personale dell’uomo è il fondamento della possibilità di quei rapporti sociali che gli uomini stabiliscono per provvedere alle necessità della vita, al diritto, all’incremento della vita spirituale, intellettuale e morale. Si tratta di rapporti che non possono che intercorrere tra persone che, avendo la possibilità di prefiggersi o accettare lo scopo inteso nella costituzione di una società, di cooperare liberamente al conseguimento di questo fine o bene comune, in ossequio libero alle leggi o statuti che reggono la vita della società stessa. L’uomo può associarsi con altri uomini per tanti e particolari motivazioni e finalità diverse, creando società più o meno estese i cui membri sono vincolati tra loro da rapporti più o meno profondi o impegnativi, a seconda delle leggi e condizioni pattuite ed accettate dagli stessi membri, ma fra tutte le possibilità di associazione, una supera le altre in ampiezza e perfezione: la società civile che sceglie lo stato per realizzare la sua organizzazione politica. Il tema dei diritti umani è quindi di particolare attualità non solo nei regimi che li negano palesemente, ma anche nelle cosiddette “democrazie liberali” ove i ritmi di vita imposti dalla civiltà industriale conducono verso una concezione materialistica delle relazioni tra stato e persona. Risulta chiaro come l’utilizzazione del concetto di “partecipazione” venga sovente usato con spontanea improprietà, ma anche malcelata ambiguità e dietro questo concetto si cela una sempre esigenza di cittadinanza con applicazioni rinnovate della democrazia che si manifesta in termini sempre più complessi. Si è di fronte ad una situazione ad un doppio dualismo, da un lato le istituzioni elettorali che consentono la rappresentanza e quelle della democrazia indiretta; mentre dall’altro, tra procedure e comportamenti delle decisioni creando una certa tensione tra la democrazia elettorale e la contro democrazia dove di organizza la sfera dell’attività civica . Le istituzioni della democrazia elettorale fanno sistema con quelle della democrazia indiretta, articolandosi in modo da conciliare il fatto maggioritario e l’ideale dell’unanimità ed unendo due coppie di esigenze contraddittorie, attraverso le quali si declina questa tensione che è a fondamento dell’idea stessa di democrazia, che è un regime pluralista che deve accettare il contrasto di interessi e di opinioni, organizzando e regolamentando la competizione istituzionale del conflitto attraverso le elezioni.
Ma non può esistere una democrazia senza che si assumano anche decisioni drastiche per risolvere controversie, e “fare politica” in democrazia vuol dire “prendere partito”, scegliere il proprio campo d’azione anche se non ci può essere democrazia senza la formazione di un mondo comune che riconosca valori condivisi, permettendo ai conflitti di non degenerare fino alle estreme conseguenze civili. E’ necessario allora distinguere le “istituzioni del conflitto” da quelle “del consenso”, il mondo della soggettività da quello oggettivo della democrazia indiretta, superando la tentazione a non riconoscere la legittimità dei conflitti ed a ipostatizzare l’idea di umanità. Non c’è democrazia se non c’è decisione, se non ci sono istituzioni che ammoniscano sull’imprescindibilità dell’interesse generale ed occorre allora riconoscere che la democrazia si fonda sul riconoscimento di una “finzione” avvertita però come necessaria sull’assimilazione della maggioranza all’unanimità. Il governo della maggioranza politica va inteso come una “convenzione” empirica con un carattere subordinato a certi limiti superiori di giustificazione, fondandosi su una legittimità “imperfetta”, che va rafforzata attraverso altri modi di legittimazione democratica. Il dualismo della democrazia come modalità di governo e teoria politica è percepita dalla filosofia politica come marginale e sprovvista di una propria consistenza, giustificata apparentemente dalla centralità del potere legislativo in un regime democratico come accadde in Francia durante la rivoluzione, quando il potere legittimo con cui si identifica la legge, si opponeva al potere in qualche modo al potere sospetto che si occupava della gestione del particolare, come direbbe Francesco Guicciardini, essenza stessa dell’esecutivo. La relativa autonomia della sfera d’azione del governo è maturata molto dopo, allorchè risultavano assai forti gli ostacoli intellettuali al suo riconoscimento e, in ogni caso, si è guardato al potere esecutivo come punto di vista del contenuto e della decisione. Nel mondo globalizzato di questo esordio di ventunesimo secolo, viceversa, emerge la dimensione del potere esecutivo degli stati relativa al comportamento di chi esercita funzioni di governo, provocando una certa tensione tra la democrazia “delle decisioni” e quella “dei comportamenti”, che rinvia al necessario controllo del potere da parte dei cittadini. Occorre proiettare le società verso universi più democratici, protesi verso una società di persone uguali in un regime di sovranità personale comunitaria, rispondendo alla duplice domanda attualmente emergente circa un accresciuta individualizzazione ed uno sviluppo speculare del senso di interesse generale, attraverso la riduzione degli interessi particolari nel funzionamento delle istituzioni.