“Vergine bella, che, di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sì che ‘n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole;
ma non so ‘ncominciar senza tu’ aita
et di Colui ch’amando in te si pose”. Francesco Petrarca, “Canzoniere”, n. 366.
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“Vergine madre figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura”. Par. XXXIII, 1 – 6
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“O Vergine, o Signora, o Tuttasanta,
che bei nomi ti serba ogni loquela!
Più d’un popol superbo esser si vanta
in tua gentil tutela”. Alessandro Manzoni, “Il nome di Maria”.
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di Carla D’Agostino Ungaretti
Se Francesco Petrarca, volendo parlare di Maria spinto dall’amore, riconosceva di non essere capace di farlo senza l’aiuto di lei e di suo Figlio, figurarsi se potrei farlo io, un’umile cattolica “bambina”, che non ha certo il dono della poesia e, tanto meno, è una teologa! Però, so anche che “de Maria numquam satis”: questo celebre detto di S. Bernardo di Chiaravalle – che ha attraversato i secoli trovando la sua più sublime attuazione nell’opera di S. Luigi Maria Grignion de Monfort, tanto amata da S. Giovanni Paolo II – mi incoraggia facendomi capire che se qualche settimana fa ho parlato di suo Figlio Gesù, il Cristo, ora non posso fare a meno di parlare della Madre di Lui, alla quale Egli affidò il compito di essere anche Madre di tutta l’umanità. Perciò voglio riflettere un po’ sui dogmi che la riguardano e cerco di andare avanti confidando nel Loro aiuto.
Il Nuovo Testamento non narra nei dettagli la vita di Maria di Nazareth perché il centro del suo interesse è l’annuncio di Gesù Cristo, ma tutti i suoi scritti, dai Vangeli sinottici a Giovanni e a Paolo, fanno chiari e realistici riferimenti a sua madre come a una donna concreta, in carne e ossa, oltretutto dotata di grande capacità di iniziativa, oltre che di notevole spirito pratico. Basti pensare, per esempio, all’episodio evangelico delle Nozze di Cana in cui lei, ospite, prende saldamente in mano la situazione incresciosa che si stava verificando a causa dell’esaurimento del vino – e quindi della pessima figura che avrebbero fatto gli sposi davanti ai loro ospiti (si è mai vista una festa di nozze senza champagne?) – rivolgendosi a suo Figlio, certa che l’intervento di Lui avrebbe rimesso le cose a posto, come infatti avvenne.
Maria, quindi, è una donna come tutte le altre, ma insieme diversa perché destinata a un inaudito privilegio: quello di diventare, per pura Grazia, la madre del Redentore ed essere perciò venerata dalla Chiesa come Corredentrice dell’umanità, anche se quest’ultimo titolo non è stato ancora definito dogmaticamente. Infatti la teologia protestante ha commesso un grave errore negando l’importanza della Tradizione nel depositum fidei e credendo che la venerazione a Maria potesse togliere qualcosa all’adorazione dovuta al Cristo; invece, secondo le parole pronunciate da Benedetto XVI quando era ancora il Card. Ratzinger, “riconoscere alla Vergine il ruolo che il dogma, la tradizione, la liturgia, la devozione le assegnano significa stare saldamente radicati nella cristologia autentica” e la Costituzione dogmatica Lumen gentium, che ha proprio Maria al suo vertice, afferma: “La Chiesa, pensando a lei con pietà filiale e contemplandola alla luce del Verbo fatto uomo, con venerazione penetra più profondamente nell’altissimo mistero dell’Incarnazione e si va sempre più conformando con il suo Sposo” (n. 65).
Come è noto, al momento i dogmi teologici riguardanti la Madonna sono quattro: la Maternità Divina (concilio di Efeso del 431), la Verginità Perpetua (concilio Lateranense del 649), l’Immacolata Concezione (bolla di Pio IX Ineffabilis Deus dell’8 dicembre 1854) e l’Assunzione (bolla di Pio XII Munificentissimus Deus del 1° novembre 1950). Essi, ribadendo la fede autentica nel Cristo vero Dio e vero uomo e l’attesa escatologica, indicano in Maria l’antesignana del destino immortale che attende l’umanità intera e professano una volta di più la fede nel Dio creatore che può intervenire liberamente anche sulla materia, specie nel mondo di oggi che tende sempre più a rifiutare il secondo dogma, perché la verginità e la castità non sono più ritenuti valori degni di stima e considerazione.
Nella sua persona Maria lega insieme indissolubilmente l’antico e il nuovo popolo di Dio: il Giudaismo e il Cristianesimo. L’evangelista Luca (1, 26 ss) ci presenta per primo Maria come una semplice ragazza ebrea destinataria di un annuncio straordinario, per il quale però si richiede la suo assenso: Dio, essendo onnipotente, avrebbe potuto redimere l’uomo con un semplice atto della sua volontà entrando nel mondo con la forza, come credevano tanti Ebrei di quel tempo, invece ha voluto “svuotarsi” della sua natura divina – come dice S. Paolo nell’inno cristologico della lettera ai Filippesi (2, 6 ss) – per nascere come tutti gli altri uomini, dal corpo di un’umile donna sconosciuta al mondo dei potenti, ma resa partecipe di un piano di salvezza che va ben oltre qualunque certezza e sicurezza umana.
Maria, turbata dall’annuncio, ma esempio eterno di fede in Dio, offre il pieno SI’ del suo intelletto e della sua volontà (”Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum”) rispondendo quindi con tutto il suo io umano e femminile in perfetta cooperazione con la grazia di Dio che previene e soccorre ed in perfetta disponibilità all’azione dello Spirito Santo. Con la sua risposta Maria ci svela il suo segreto perché il termine ancilla ha in sé la ricchezza di tutta la spiritualità dell’Antico Testamento: il termine greco “douleia” o “doulia” – che il vocabolario greco – italiano del Rocci traduce con “schiavitù, servitù, sottomissione” – indicava il servizio di Dio, l’essere servo o serva di Dio, designando in modo preciso il significato di una vita consacrata a Lui. Maria quindi, modello di obbedienza filiale e di amore oblato, illumina le donne di ogni tempo e di ogni nazione perché Dio, nell’evento sublime dell’incarnazione del Figlio, si è affidato alla cooperazione libera e attiva di una donna. Perciò tutte le donne del mondo in ogni tempo e in ogni nazione, guardando a Maria, devono trovare in lei il segreto per vivere degnamente la loro natura e attuare la loro vera promozione, in un mondo in cui sussistono vaste aree le cui le leggi e i costumi ancora concepiscono il ruolo della donna come funzionale all’egoismo maschile.
Maria, sapendo di essere vergine, apprende che il suo concepimento avviene per opera dello Spirito Santo e che “la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni” secondo l’espressione usata da S. Paolo nella dossologia finale della lettera ai Romani (16, 25 ss), attesa fin dai tempi antichi e annunciata dai profeti, trova ora in lei la sua piena realizzazione nel silenzio della sua umiltà perché Dio, “ad liberandum suscepturus hominem, non horruistit Virginis uterum”, come canta S. Ambrogio nel suo meraviglioso Te Deum.
Maria, quindi, è stata vergine prima, durante e dopo il parto perché per tutta la durata della sua vita si è resa disponibile immediatamente e incondizionatamente all’azione di Dio, permettendole di giungere al compimento, come era già stato preannunciato dal profeta Isaia (Is 52,10). Si è resa disponibile nel momento dell’Annunciazione, non dubitando neppure per un istante dell’esperienza che stava vivendo; disponibile nell’incontro con Simeone nel Tempio, quando riceve un’ulteriore rivelazione che allarga il messianismo a proporzioni universali e tragiche, perché “una spada le trafiggerà l’anima” (Lc 2, 34); disponibile nel ritrovamento di Gesù nel Tempio tra i Dottori perché, anche se non comprende le parole del Figlio, tuttavia “le serba nel suo cuore e le medita” (Lc 2, 51); disponibile alle nozze di Cana, quando fa comprendere al giovane Gesù che se l’ora fissata dal Padre non può essere anticipata, tuttavia il miracolo ottenuto con l’intervento di sua Madre ne è l’annuncio simbolico (Gv 2); disponibile ai piedi della Croce, quando tutto agli occhi umani sembra perduto, mentre in realtà avviene una nuova rivelazione. Gesù morente svela il compito teologico del discepolo amato e di Maria: diventare rispettivamente figlio e madre secondo la rigenerazione nello Spirito (Gv 19, 25). Significativa e paradigmatica è la risposta di Giovanni: rappresentando tutta l’umanità, egli accoglie Maria nella sua casa in comunione di amore con Gesù e come dono prezioso del Cristo crocifisso. Così la Vergine Madre risulta inserita nel misterioso piano di Dio mediante lo schema promessa – concepimento. Matteo, infatti, interpreta il concepimento verginale in senso rigoroso, partendo dall’evento trasmesso nella comunità cristiana.
Nel Vangelo secondo Luca (1, 39 ss) Maria riceve, da parte di Elisabetta, il primo riconoscimento umano delle parole dell’Angelo annunciatore (“Benedetta tra le donne”, “la Madre del mio Signore”, “Colei che ha creduto”) e risponde con il Magnificat, inno considerato la più antica teologia mariana, la cui ricchezza spirituale colpì anche Martin Lutero al punto di spingerlo a scriverne un commento in cui Maria viene esaltata come la serva del Signore, partecipe della sua “kenosis”, cioè del suo “svuotamento” divino (Fil 2, 6 ss). L’inno applica alla vicenda di Maria lo schema salvifico secondo cui Dio esalta gli umili sovvertendo tutti i criteri umani di gloria e di successo mondano.
Riecheggia nel Magnificat l’esaltazione degli anawim, i poveri di Israele, i servi di Dio, coloro che temono Dio, coloro che nella loro umiltà ripongono totale fiducia in Dio e che, non godendo di alcun prestigio sul piano umano, si identificano con “il resto di Israele”, al quale toccherà il possesso del Regno di Dio. Maria anticipa qui il Discorso della Montagna (Mt 5, 3 ss): il Regno dei Cieli appartiene ai “poveri di spirito”, agli umili, ai miti, ai misericordiosi. Alludendo agli anawim, Gesù non pensava a un ideale astratto, ma a un ideale concretamente realizzato nell’umile casa della famiglia di Nazareth.
Riflettendo sul significato della visita a Elisabetta, ci accorgiamo che nel primo capitolo del suo Vangelo Luca dice che, partito l’angelo da Nazareth, Maria “si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse una città di Giuda”. Nel testo originale, dopo la parola Maria c’è un participio passato: “anàstasa”, che letteralmente significa “alzatasi” ed è stata omessa nella traduzione italiana della Bibbia di Gerusalemme. Può darsi che quel participio sia soltanto un pleonasmo tipico dello stile semitico di cui è ricca la lingua greca usata da Luca, ma a ben guardare esso ha la stessa radice del sostantivo “Anàstasis“, Resurrezione, l’evento centrale della fede cristiana, sicché potrebbe essere tradotto anche con “risorta”. Perciò, tenuto conto che Luca rilegge l’infanzia di Gesù alla luce degli avvenimenti pasquali, alcuni studiosi pensano che non sia teologicamente azzardato ritenere che quel participio voglia alludere a Maria come simbolo della Chiesa “risorta” che porta al mondo la Buona Novella, così come essa portò Gesù, non ancora nato, a Elisabetta.
Ma io sento di dovermi spingere ancora più avanti, aprendo a questo punto una parentesi. Infatti anche in altri casi gli evangelisti usano l’espressione “alzarsi, levarsi” in un contesto di Resurrezione: Maria di Betania, chiamata da sua sorella Marta che la avvertiva dell’arrivo di Gesù; “si alzò in fretta e andò da Lui” (Gv 10, 29); poco dopo le due sorelle assisteranno alla resurrezione del loro fratello Lazzaro. Altri esempi: la suocera di Pietro, guarita da Gesù, “si alzò e si mise a servirlo” (Mt 8, 15), ovvero (come dice Luca) “levatasi all’istante, la donna cominciò a servirli” (4, 39); il figlio della vedova di Nain, resuscitato da Gesù, “si levò a sedere” (Lc 7, 25); il “figlio perduto” del “Padre misericordioso“, presa coscienza del peccato commesso contro di Lui, dice a se stesso: “Mi leverò e andrò da mio padre … ” (Lc 15, 18). Tutti costoro resuscitano, cioè tornano alla vita della Grazia, perché hanno avuto la fortuna di vivere quell’incontro ravvicinato con Dio che cambia la vita. E infatti la suocera di Pietro non rimase inerte dopo la guarigione, ma “si mise a servirlo”, come hanno fatto i tanti malati guariti a Lourdes per intercessione dell’Immacolata Concezione e Madre di Dio, che hanno dichiarato di non poter più vivere come prima, ma di dover dedicare al servizio dei fratelli la vita e la salute che sono state ridonate loro.
Madre di Dio dunque, e anche molto influente sul cuore di Lui. Ma per essere veramente riconosciuta come “Theotòcos”, ovvero, secondo il più pregnante significato letterale “Colei che ha partorito Dio”, era necessario che la pura Grazia la preservasse dal peccato originale, come attesta l’espressione Immacolata Concezione. Il popolo di Dio – guidato dai Padri della Chiesa e poi dai grandi teologi medioevali, tra cui Giovanni Duns Scoto – ha sempre creduto che Maria visse sotto il sigillo di Dio, immune da qualunque macchia di peccato (il termine “concezione”, nel linguaggio biblico indica la totalità dell’esistenza) ma per arrivare alla definizione dogmatica si è dovuti arrivare al 1854, anche se l’approvazione della liturgia in onore dell’Immacolata Concezione risale al XV secolo. Non bisogna tacere che questo dogma costituisce una difficoltà dal punto di vista ecumenico, perché sembra porre Maria al di fuori del campo della Redenzione – come temono le chiese ortodosse – ma in realtà esso si impone come un momento dell’efficacia salvifica del Cristo, come manifestò la stessa Maria nelle apparizioni di Lourdes e come hanno sperimentato i molti malati guariti nell’anima e nel corpo. E’ noto che la stessa “Signora”, apparsa quattro anni dopo la proclamazione del dogma alla piccola analfabeta Bernadette Soubirous – “ultima degli ultimi di Lourdes”, come si definì ella stessa, che ignorava completamente il significato di quell’espressione, non avendola mai udita – si autodenominò l’Immacolata Concezione, confermando così la pronuncia papale.
Ma qual è il significato profondo di questo dogma che definisce Maria “immune da ogni macchia di peccato”? Anselm Grün lo spiega così: “In ciascuno di noi esiste uno spazio del silenzio in cui dimora Dio, in cui Cristo protegge il nostro vero io. Là, dove Cristo abita in noi, siamo puri e limpidi, lì la colpa non ha accesso. Il nucleo più intimo non è toccato dalla colpa … Il male si presenta all’uomo dall’esterno ma non può nuocergli in quel nucleo profondo “[1]. Evidentemente in Maria questo nucleo pervadeva tutta la sua persona, nel corpo e nello spirito.
Maria assunta in cielo: anche questo è un mistero percepito da sempre nelle diverse Chiese d’Oriente e d’Occidente, dove nel VII secolo, al tempo del Papa Sergio I, si celebrava la festa della Dormizione. Il Nuovo Testamento tace sulla fine della vita terrena di Maria, perciò il documento papale Munificentissimus Deus non fonda direttamente questa definizione sulla testimonianza biblica, ma parla di “un ultimo fondamento scritturale”, cioè di una verità che pervade i Vangeli e che mostra Maria sempre unita alla persona e all’opera del Salvatore. Da questa unione consegue naturalmente anche la sua partecipazione al trionfo glorioso del Cristo, ma senza passare attraverso la morte perché, secondo le incisive parole di S. Paolo nella lettera ai Romani (6, 21) “il peccato regna con la morte”. La morte è una conseguenza del peccato, perciò la Chiesa, nella sua millenaria riflessione guidata dallo Spirito Santo, ha compreso che essendo stata Maria concepita immune dal peccato originale (“Rallegrati, o Piena di Grazia, il Signore è con te”), non poteva essere incorsa nella morte biologica, ma in un transito misterioso verso la vita gloriosa del Cristo risorto.
Da cattolica “bambina” quale io sono, non sono in grado di dire se siano, o no, maturi i tempi per proclamare , come quinto dogma, Maria Corredentrice dell’umanità come vorrebbero alcuni teologi ma, se ci riflettiamo bene, già la dichiariamo tale quando la imploriamo di “pregare per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte”. Non lo facciamo forse perché siamo sicuri che senza il Suo aiuto non ci salveremo? Perciò penso che questa mia umile riflessione sulla Gran Madre di Dio, iniziata in epigrafe con i versi della “Canzone alla Vergine” di Francesco Petrarca, debba terminare necessariamente con i versi conclusivi dello stesso inno che esprimono l’anelito e la speranza non solo miei, ma di tutti i cristiani:
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“Vergine, in cui ò tutta mia speranza
che possi et vogli al gran bisogno aitarme
non mi lasciare in su l’extremo passo.
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Raccomandami al tuo Figliuol, verace
homo et verace Dio,
ch’accolga ‘l mio spirto ultimo in pace”.
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[1] Cfr. Anselm Grün, Affrontare e trasformare il male, Ed. Paoline 2014, pag. 58.
2 commenti su “Di Maria Vergine non si parlerà mai abbastanza – di Carla D’Agostino Ungaretti”
Cara Carla, prima di tutto smetta per piacere di definirsi cattolica “bambina” perché i suoi articoli sono
così ricchi e preziosi che sicuramente é “anziana”!!!!
E anche questo è bellissimo, e in proposito vorrei dire questo: non so se ricordo bene ma mi sembra
che al tempo di G.P.II, devotissimo di Maria, venne fuori che c’era in segreto l’ipotesi di proclamare Maria
CORREDENTRICE.
Mi sembra, se non sbaglio, che ci furono commenti su vari giornali, ma questa ipotesi purtroppo non si
realizzò per ragioni “Ecumeniche”.
Io ci spero tatro ancora perché è stata scelta LEI per far venire sulla terra Gesù!!!!!
Quando “giunse la pienezza dei tempi”!!!
Quindi la PIENEZZA FU LEI!!!
Che gioia sarebbe!!!
Credo dunque che anche la reiterata richiesta da parte della Madonna di consacrare il mondo al Suo Cuore Immacolato sia da leggersi nell’ottica della promessa di una Chiesa risorta, risorta attraverso di Lei, Regina del Cielo e della terra, di Lei che esente da ogni peccato non ha certamente subito la corruzione della carne. E contro quei non pochi (anche sacerdoti) che sostengono che Maria sia morta come qualsiasi altra creatura umana, osserviamo che non a caso nelle litanie lauretane l’invocazione “Regina in Cælum assumpta” segue immediatamente “Regina sine labe originali concepta”. Di Maria Vergine, veramente, non si parlerà mai abbastanza, Lei, la nostra ancora di salvezza a cui fiduciosi chiediamo: -Maria concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a Voi”.