Stragi, Tangentopoli, così il paese è stato riportato sotto il controllo di interessi esterni
L’Italia è un Paese in ostaggio
di Piero Laporta da ItaliaOggi – Gruppo Class
Le cosiddette «questioni», ricorrenti nel dibattito politico (meridione, unità del paese», magistratura, ecc.) fanno velo a un’altra di gran lunga più importante, «l’indipendenza nazionale», madre della «sovranità», senza le quali sono impossibili la prosperità e la convivenza dei cittadini, alle prese con una perenne guerra civile, più o meno calda in proporzione agli interessi esterni in gioco.
Le stragi (Salvatore Giuliano, Gaspare Pisciotta, piazza Fontana, Ciaculli, Brigate rosse e nere, Aldo Moro, Ustica, Giovanni Paolo II, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Sigonella, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Nassirya, per enumerare solo le più note) furono altrettante scudisciate per riportare la mandria politica sempre sotto il controllo dei vincitori della Seconda guerra mondiale.
Caduta l’Unione sovietica, rimasero Usa, Gran Bretagna e Francia. Anche la Germania ebbe un ruolo ben prima del 1989. Questa condizione spiega perché la classe politica italiana è costantemente inadeguata. La subordinazione della classe dirigente politica a interessi esterni è proporzionale alla ricattabilità e all’omologabilità del singolo politico e della formazione politica cui riferisce. Tangentopoli fu il processo col quale la «Triplice», piuttosto che contrattare la spartizione coi vecchi amici esigenti, preferì imporla ai nemici vinti e ricattabili.
La ricattabilità della politica italiana ebbe, non per caso, una puntuale e spietata puntualizzazione proprio da uno dei magistrati di Tangentopoli. Il ricatto come terapia politica si nutrì del combinato disposto di due cinismi giustapposti. Uno fu quello delle curie quando curavano il dio quattrino più che quello Trino. Il secondo è allo scoperto dopo l’uscita della Chiesa cattolica dall’agone temporale che lasciò la scuola togliattiana, con i suoi epigoni e le sue vittime, progressivamente padrona della scena. Da Aldo Moro in avanti è morto, più o meno metaforicamente, chiunque non si sia piegato al ricatto. Quando alcuni gerarchi del Pci assillarono Togliatti perché stava per ricevere la tessera uno che «è stato fascistissimo” e ammiccarono «somiglia tal quale a re Umberto», il Migliore fu algido e lungimirante: «Tanto meglio».
La subordinazione della classe politica dirigente è origine e causa del vertiginoso debito pubblico, contrapposto all’esemplare massa di risparmi delle famiglie italiane: ulteriore conferma della differenza fra popolo e dirigenza, come dimostrerà fra breve Mario Draghi dal vertice della Bce.
Così, dopo Aldo Moro, i governi italiani si genuflessero alle politiche agricole della Ue, favorendo l’abbandono delle campagne e trasferendo verso Francia, Germania e Gran Bretagna le quote produttive, non solo di latte. Le sovvenzioni europee a fondo perduto a chi non coltivava furono bustarelle istituzionali per la corruzione politica, sindacale e clientelare; cioè colonizzazione. Lo sbraco a spese del contribuente della Fiat di Cesare Romiti di fronte ai marchi americani, con la complicità della triplice sindacale, fu nel medesimo alveo delle politiche agricole. Con quella classe politica oggi paghiamo l’Euro quattro volte quanto costò a Germania e Francia. Sergio Marchionne, con l’operazione Chrysler, dà mostra d’intendere dove legare l’asino, ma non è detto che il padrone sia sazio.
Silvio Berlusconi, all’ingresso parve estraneo a tali logiche, sia pure tortuosamente. Oggi Berlusconi è omologato, alla stregua di Massimo D’Alema quando baciò la pantofola di Bill Clinton a Washington poche ore prima che bombardassimo Belgrado, come oggi Tripoli.
Rimane in Italia un solo movimento politico non ricattabile e fortemente legato al popolo. Il paradosso finale è quindi la bandiera dell’indipendenza nazionale che oggi potrebbe essere agitata dalla Lega, se lo decidesse Milano, capitale dell’Italia unita, chi l’avrebbe detto? Sì, ma attenti allo scudiscio.