“Questi (libri) sono stati scritti perché
crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio
e perché, credendo. abbiate la vita nel Suo nome” (Gv 20, 31)
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“Magister vester unus est Christus”.
Iscrizione sovrastante la grande immagine del Cristo Maestro.
Pontificia Università Lateranense, Aula Magna.
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di Carla D’Agostino Ungaretti
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In questi ultimi mesi ho ripreso in mano per la terza volta i meravigliosi libri che Benedetto XVI ha dedicato a Gesù di Nazareth e per la terza volta li ho divorati ringraziando mentalmente questo grandissimo Papa (purtroppo emerito) per averli scritti e – sempre con la mente e col cuore, non potendo farlo di persona – gli ho rinnovato i profondi sentimenti di affetto, di devozione filiale e di rimpianto che ho sempre provato nei suoi confronti. Penso che tutti coloro che cercano Dio dovrebbero leggere questo libri e meditarli: alla fine della lettura sentiranno (come è accaduto a me) che qualcosa nella loro vita e nella loro anima sta cambiando. Infatti, dopo tante amarezze sinodali, mi sono sentita meglio, segno che stare in compagnia di Cristo, pregando, leggendo, parlando o scrivendo di Lui, fa sempre bene, sia all’anima che al corpo.
Ho avuto infatti l’ennesima conferma che qualunque “cercatore di Dio” (ed io sono instancabilmente una di loro) non può che rimanere affascinato dalla persona di Gesù di Nazareth, figura talmente coinvolgente nella storia umana che neppure le grandi personalità lontane dalla civiltà occidentale come Maometto o, in oriente, il poeta indiano Rabindranath Tagore, insignito nel 1941 del premio Nobel per la letteratura, e il Mahatma Gandhi si sono potute sottrarre a un confronto con lui. Anche se costoro non sono arrivati alla conversione (forse, purtroppo, a causa del cattivo esempio e della pessima testimonianza ricevuti da certi cristiani) nondimeno anch’essi hanno capito quanto arricchisca la vita umana esplorare la vita di quell’Uomo, che è stato capace di dare alla storia un indirizzo nuovo, capire ciò che egli disse e fece, e ciò che su di lui hanno detto e testimoniato i contemporanei e i posteri che hanno avuto la fortuna di incontrarlo, nella certezza sempre crescente di trovarsi di fronte a un mistero. Infatti, quel fascino, quella personalità unica, irripetibile e non confrontabile con nessun’altra sono uniti ad una umiltà, a una discrezione, a un amore per l’uomo talmente autentico e rispettoso che ci fa capire come il “Deus absconditus” di cui parlavano le Scritture si riveli alle sue creature non nel trionfalismo di un Messia vittorioso, ma nel rispetto di esse, nella “proposta” e nella offerta di un amore incondizionato, anziché nell’imposizione di una regalità. Perciò, voglio provare a riflettere un po’ sugli appellativi e sui titoli che non solo gli attribuirono i suoi contemporanei, ma anche su quelli che Egli attribuì a se stesso.
“Non è egli forse il figlio del carpentiere?” (Mt 13,55) “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1, 46), a queste domande ciniche e incredule di alcuni contemporanei di Gesù, fa da contraltare l’appellativo Rabbi, che rivela una nuova percezione di lui accompagnata da una nuova consapevolezza: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!” (Gv 7, 46), “Le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi” (Mt 7, 28 – 29). Infatti Gesù si pone dalla parte del Legislatore, di Dio; non è interprete, ma Signore facendo intuire al popolo, anche se ancora nebulosamente, che Egli è un tutt’uno con la Parola di Dio, non un maestro che ripete la legge, ma un legislatore vero e proprio (“Avete inteso che fu detto … ma io vi dico … Non sono venuto per abolire la legge, ma per dare compimento“, Mt 5, 17). Dopo duemila anni questo ancora è, e sarà sempre, l’aspetto più sconvolgente di Gesù: la sua consapevolezza (di cui Egli persuade sempre il “cercatore” sincero) di essere uno che conosce e sperimenta in modo tutto particolare e unico la paternità di Dio (“Abbà, Papà”) e rivela una familiarità e una confidenza con Lui che il popolo di Israele, nell’Antico Testamento, non era neanche riuscito a immaginare, dato che non si era neppure ritenuto degno di pronunciare il nome di Dio.
Pensiamo, per esempio, al momento della resurrezione di Lazzaro (Gv 11). Gesù sta per chiedere al Padre un segno inaudito: nientemeno che riportare in vita un morto, un uomo che già da quattro giorni giaceva nel sepolcro e per il quale, secondo le leggi di natura, era già iniziata la decomposizione. La preghiera che Gesù rivolge al Padre è ad un tempo commovente e umanissima, è la supplica e il ringraziamento che qualunque bravo e buon figlio può rivolgere al proprio padre sapendo che, quando si chiedono cose buone e giuste, si è sempre accontentati: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato. E, detto questo, gridò a gran voce: Lazzaro vieni fuori! Il morto uscì …””. Non è sconvolgente tutto ciò?
Ma l’opera di Gesù è sempre ammantata di discrezione e, come diremmo oggi, di understatement: egli non vuole che gli si attribuisca una fama di taumaturgo terreno, di personaggio straordinario capace di prodigi. Egli intende piuttosto dare dei segni perché il “cercatore di Dio”, disponibile a vedere e ad ascoltare, riconosca in lui il Salvatore in un senso infinitamente più grande: quello preannunciato dai Profeti dell’Antico Testamento, espressione suprema e definitiva della Rivelazione, il vero Agnello di Dio, umile e innocente, votato al sacrificio per il riscatto di tutti.
Nell’Antico Testamento la docilità dell’agnello, che dipende in tutto e per tutto dal Pastore, è immagine del rapporto dell’uomo con Dio; nel Nuovo, la professione di fede di Giovanni Battista, che riconosce in Gesù l’Agnello di Dio che avrebbe tolto i peccati dal mondo (Gv 1, 36), si ricollega alla scelta dell’agnello stesso come animale sacrificale preferito da Israele e le parole di Gesù istitutive dell’Eucaristia, durante l’Ultima Cena, lasciano trasparire che egli stesso si dona come Agnello pasquale.
Il titolo che Gesù adopera più frequentemente quando parla di sé è: Figlio dell’Uomo. A una prima interpretazione superficiale si può, giustamente, scorgere in essa un grande senso di solidarietà con l’uomo in generale ma, in realtà, si tratta di un’espressione usata solo da lui nel Nuovo Testamento, con l’unica eccezione di Stefano morente che contempla “i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”. Ripetendo nel momento del martirio (At 7 – 56) ciò che Gesù aveva annunciato davanti al Sinedrio (“Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo”, Mt 26, 64), Stefano testimonia di aver verificato personalmente la veridicità delle parole di Gesù. Ma si tratta comunque di un’espressione misteriosa, che ha dato non pochi problemi di interpretazione agli esegeti antichi e moderni. Al tempo di Gesù essa non era conosciuta come titolo. Nella visione apocalittica del profeta Daniele (7, 13 ss), quando il potere del male ha raggiunto la massima potenza, ecco arrivare “sulle nubi del cielo, uno, simile a un figlio di uomo”; a lui furono dati “potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”. Questa visione si presta a essere interpretata in chiave messianica, ma in proposito non esiste alcun testo precedente all’attività di Gesù. E’ certo, comunque, che l’immagine del Figlio dell’uomo rappresenta il futuro regno della salvezza che Gesù ha ricollegato a se stesso e alla sua attività.
Ma il Figlio dell’uomo è anche il Figlio di Dio. Questo titolo, mutuato dalla teologia politica dell’antico Oriente, fu recepito da Israele e attribuito a se stesso a significare una particolare appartenenza del popolo a Dio, come suo primogenito, e una speciale dignità di Israele rispetto a tutti gli altri popoli; poi fu attribuito anche ai Re, al momento della loro intronizzazione, come espressione della dignità regale e del potere politico. Anche l’Impero Romano conobbe questo titolo: la filiazione divina dell’Imperatore e la conseguente adorazione della sua figura divenne vincolante, da Augusto in poi, su tutti i territori controllati da Roma. Ma nell’ottica cristiana il significato del titolo è ben diverso: a partire dalla professione di fede del centurione ai piedi della croce (“Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!“, Mc, 15 – 39) e più precisamente dalla Resurrezione, si concretizza nel popolo cristiano la certezza che solo il Cristo risorto è il vero Figlio di Dio, cui appartengono i popoli della terra e a cui solo spetta l’adorazione dovuta a Dio.
L’espressione Figlio di Dio va però tenuta distinta dall’espressione “il Figlio” che nei Vangeli compare essenzialmente sulla bocca di Gesù: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”, dice Gesù secondo Matteo (10, 27) rivelando una straordinaria analogia con la parte conclusiva del prologo di Giovanni (1, 18): “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. Il pensiero filosofico ha sempre insegnato che qualunque processo conoscitivo implica un’assimilazione tra il soggetto conoscente e il soggetto conosciuto, variabile a seconda del loro livello ontologico; perciò, poiché la perfetta conoscenza di Dio comporta necessariamente l’unità ontologica con Lui, il significato dell’espressione “il Figlio” diventa chiaro: in Gesù si realizza una perfetta comunione conoscitiva con il Padre, che è insieme comunione ontologica e unità dell’Essere, relazione, ascolto, slancio, obbedienza perennemente rivolti a Lui, in quella spirale di amore eterno e assoluto che lega reciprocamente il Padre al Figlio per il tramite dello Spirito Santo.
Ma l’appellativo forse più sconvolgente che Gesù attribuisce a se stesso, rischiando la lapidazione, è quello che emerge dalla discussione con i Giudei, in merito alla loro discendenza da Abramo nel quarto Vangelo: “Prima che Abramo fosse, IO SONO” (Gv 8, 58). Non è quella la prima volta che Gesù dichiara chi è: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8, 12); “Io sono il pane della vita” (Gv 6, 48); “Io sono la resurrezione e la vita”(Gv 11, 25), “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo” (Gv 15,1) e così via. Sono affermazioni simboliche universali, familiari sia al mondo giudaico che a quello greco, che probabilmente l’evangelista Giovanni ha usato per poter comunicare contemporaneamente alle due culture che solo in Gesù l’uomo può trovare ciò di cui ha veramente bisogno: la luce, il pane, la vita, ad esclusione di qualunque altra ricerca e pretesa di salvezza. Ma la semplice espressione IO SONO ha, in se stessa, ben altro significato teologico: essa è la risposta data da Dio a Mosè, attraverso il roveto ardente, alla domanda: “(Gli israeliti) mi diranno: come si chiama? E io che cosa risponderò loro?” (Es 3, 14). Con l’enigmatico tetragramma sacro YHWH, che gli Ebrei non possono pronunciare e perciò sostituiscono con l’appellativo Adonai (Signore), Dio si denomina semplicemente IO SONO COLUI CHE SONO, Colui che semplicemente “E’ ”, la Forma più perfetta e suprema dell’Essere, Colui che è sempre presente per gli uomini, in ogni tempo e in ogni luogo. Quando Gesù dice di se stesso IO SONO, riprende quella risposta e la attribuisce a sé, ribadendo la sua unicità perché “Lui e il Padre sono una cosa sola” e a buon diritto può dire: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. “(I farisei) gli dissero allora: Dov’è tuo padre? “Rispose Gesù: Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio” (Gv 8, 19).
Ma la piena percezione di questo mistero la si avrà solo con la Croce: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che IO SONO e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo” (Gv 8, 28). Attraverso l’esperienza della Croce il suo essere Figlio, una cosa sola col Padre, diventa riconoscibile agli occhi del centurione e di tutti i “cercatori di Dio”, perché la Croce è la vera altezza e il vero amore fino alla fine, è il paradosso inaudito – duemila anni fa come oggi – proclamato da S. Paolo con le incisive parole: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei (che aspettavano un Messia trionfalmente vittorioso), stoltezza per i pagani (perché non conforme alla presuntuosa sapienza umana): ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 22 ss). Affermazione e professione di fede talmente forti ed incisive che Paolo non esita a usare il termine greco “morìa” – che la Bibbia di Gerusalemme traduce educatamente con “stoltezza” mentre il significato originale in greco è molto più forte e rasenta quasi la volgarità – per indicare come i Greci infarciti com’erano, a quei tempi, di filosofia platonica, reputassero l’idea che un Dio potesse morire crocifisso il frutto – non di ignoranza eroica, degna di essere razionalmente confutata – ma solo della stupidità colpevole dell’uomo. Ecco l’incredibile paradosso cristiano, come sottolinea con forza Paolo, difficilmente accettabile al suo tempo dagli Ateniesi dell’Areopago (At 17) come inaccettabile oggi, se non si è illuminati dalla Grazia!
Per concludere, voglio ricordare il titolo cristologico forse più importante per la nostra fede: Signore. L’Adonai ebraico fu tradotto in greco dai Settanta con Kyrios, e in latino, da S. Girolamo nella sua Vulgata, con Dominus. Nel Nuovo Testamento esso è il titolo che proclama il Cristo Risorto, il Signore che siede alla destra di Dio. Gesù Signore è comunemente considerata la confessione più antica e sintetica della fede cristiana, formatasi e utilizzata nelle celebrazioni liturgiche come nella predicazione missionaria. Il titolo Signore è anche il titolo trinitario proclamato da Paolo nel congedo della seconda lettera ai Corinzi (13, 13) e recepito dalla liturgia nell’incipit della S. Messa: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” e riconoscere Gesù come Signore significa appartenergli in tutto. Ma la Signoria di Gesù non è indipendente dall’unica Signoria di Dio, della quale Egli è specchio perfetto: secondo il Nuovo Testamento Gesù è sempre Signore e Servo perché la sua Signoria non si esprime nel dominio, ma sempre e soltanto nell’amore per l’uomo.
Con queste mie povere parole da cattolica “bambina” non ho inteso dire nulla di nuovo o di speciale rispetto a quanto la Chiesa professa e insegna da duemila anni; spero solo che il Signore si serva di esse per stabilizzare e rinforzare qualche fede un po’ traballante di chi cerca Dio “andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi” (At 17, 27) e per aprire uno spiraglio più largo che faciliti l’ingresso della Grazia nel cuore e nella mente di chi crede di non credere.
6 commenti su “Dopo tante amarezze sinodali, sento il bisogno spirituale di parlare di Cristo – di Carla D’Agostino Ungaretti”
” Con queste mie povere parole da cattolica “bambina” ……”
Ma cosa dice cara cara Carla! Mi ha fatto commuovere, mi sono venute le lacrime agli occhi!
Io amo da tanto Gesù come persona, come uomo! E questa mia “scoperta” avvenne tramite S.Teresa
d’Avila, che mi fece unire il Gesù Dio al Gesù Uomo.
E il suo articolo, così colto, intenso, reale, mi ha fatto approfondire questa Unione VIVA, VERA e
così consolante!!!
Lo stamperò e lo rileggerò e lo rileggerò!!
Rileggerò anche i libri del mio amatissimo Benedetto XVI.
La ringrazio con tutto il cuore per le sue bellissime espressioni!
.Gent.ma Carla, il suo articolo è magnifico , grazie, perche’ ci dona un’apertura al divino, al sacro ,all’ immutabile Verità .che è Gesù Cristo Signore, nostro Savatore, al suo amore per l’ uo-mo con la sua incarnazione,..dice S. Paolo : “…..ha umiliato Se stesso rendondosi simile a noi, facendosi ubbidiente al Padre, sino alla morte, alla morte di croce…” .
Si, solo per la sua morte orribile e obbrobriosa della crocifissione, per la sua dolorosa Passione noi siamo stati salvati, redenti . Abbiamo tanto bisogno di ricordarcelo, soprattutto ora, in questo tempo di tenebra ed errori, dove si sta cercando di oscurare e far svanire lentamente la Verità della sua Parola. Pensando a quanto gli siamo costati, cerchiamo di essergli fedeli anche noi,..fino alla morte piuttosto che abiurare la vera Fede. Silvia M.
Ho apprezzato molto l’ articolo, che ho colto come momento di preghiera, quasi di supplica in una societa’ che ha escluso Dio dalla propria esistenza. E’ interessante il riferimento al Gesu’ di Nazareth di Benedetto,su cui varrebbe la pena aprire una riflessione, magari pubblicando alcuni brani scelti, perche, se l’ opera e’ volutamente scritta in maniera piana e divulgativa, rileggendo il testo piu’ volte, tra le righe, si scorge una visione della Chiesa di oggi affatto scontata, come quando restaurando un’ affresco talvolta appare, sotto la superficie pittorica, il lavoro di un altro maestro. Per la citazione sul “figlio dell’ uomo” suggerisco la lettura di tutta l’ opera del professor Paolo Sacchi, per la ricchezza di riferimenti storici e la capacita’ interpretativa dei molti elementi che ne derivano.
Grazie, Signora Carla!
Vedere ribadito, in modo così profondo e chiaro, tutto quello che è stato la mi luce e la mia gioia profonda, mi ha dato veramente tanta consolazione! Vedere che nonostante tutto quello sta succedendo nella Chiesa di oggi, Gesù è e rimane sempre la Luce e la Gioia vera che illumina e allieta la vita, è solo consolante e mi ricorda che Lui è sempre con noi, e vincerà su tutto!
Grazie.
Gent.ma sig.ra Carla
ho letto con compiacimento il Suo articolo che peraltro condivido in ogni suo punto. Solo non capisco perchè l’ispirazione di rileggere i libri di Benedetto XVI su Gesù Le sia venuta dopo le amarezze Sinodali. Ho letto quei libri che mi hanno fatto molto bene. In ordine al Sinodo credo che la Chiesa attraverso questo strumento, per inciso voluto dal beato Papa Paolo VI, sia stato occasione alla Chiesa di approfondire la Sua dottrina immutabile e occasione di aggiornamento della Sua azione pastorale. Ho avuto la fortuna di essere in S. Pietro domenica 19 ottobre per assistere alla beatificazione del Papa Paolo VI. Come tutti i presenti ho colto la profonda sintonia che esiste tra il Papa emerito e il Papa regnante. Leggendo i media di questi giorni credo di aver colto che solo i laicisti (si noti bene non i laici) dei nostri tempi stiano facendoci credere che non ci sia sintonia tra i due Papi. E quindi il Sinodo è anche quello di Benedetto XVI. Con stima
Gentile Sig. Comini, la mia terza lettura dei libri di Benedetto XVI è avvenuta durante l’estate e quindi è rindipendente dalle mie “amarezze sinodali”. Queste sono sopravvenute dopo, e sono state causate dalla netta sensazione (avvertita da molti) che la maggior parte dei Padri sinodali fosse tentato dal dare più retta al “mondo” che a Cristo in materia di Matrimonio sacramentale. Il CORRIERE DELLA SERA dello scorso 8 ottobre, pag. 16, ha riportato una frase del Preposito generale dei Gesuiti, Padre Adolfo Nicolàs, che mi ha lasciato allibita: “Bisogna ascoltare il mondo altrimenti il mondo non ci ascolterà”. Ma non è stato Gesù a dire a Pietro: “Indietro Satana! Tu ragioni secondo il mondo e non secondo Dio”? E Le parole di Cristo, di S. Paolo e dei Padri della Chiesa in ordine all’indissolubilità del Matrimonio sacramentale sono lapalissiane e inequivocabili, con anche se il mondo oggi non ci crede più. Grazie per avermi letto.