DOSTOEWSKIJ TEOLOGO DELLA MORTE DI DIO – di Piero Vassallo

di Piero Vassallo

 

 

Secondo Dostoewskij le creature aderiscono a Cristo perché mosse da una simpatia indifferente al problema della verità: “La mia professione di fede è molto semplice, eccola: credere che non cè nulla di più bello, di più profondo, di più coraggioso, di più simpatico di più perfetto del Cristo e che mai nulla ci può essere. Più ancora: se qualcuno mi avesse dimostrato che il Cristo è al di fuori della verità e se fosse matematicamente certo che la verità è al di fuori del Cristo, avrei preferito restare col Cristo piuttosto che con la verità(1).

L’enunciazione del paradosso, che pone Cristo al di fuori della verità, è una fra le più sconcertanti pagine della letteratura moderna:

Il Cristo immaginario rappresenta, infatti, la perfezione dell’amore separato dalla verità. Tra le righe del testo si afferma risolutamente che l’amore perfetto può essere falso.

Il Cristo della letteratura è un’icona sublime, ma talmente lontana dalla verità, da far diventare impensabile una partecipazione al suo essere.

karamazoffLa contorta professione di fede, dimostra che il pensiero di Dostoewskij contempla la reciproca opposizione degli attributi divini: la bontà trascende la verità, e la verità è ostile alla bontà. La bontà è totalmente altro da verità.

L’affermazione di un tale principio introduce nei meandri di una teologia dialettica, che indirizza al superamento della verità e del suo fondamento ontologico.

Nel linguaggio psicoanalitico, la teologia di Dostoewskij si potrebbe definire antipaterna: Cristo non è il figlio di Dio ma un Redentore inviato fra gli uomini da una vuota e abissale bontà, in aperto conflitto con il Padre, creatore e signore del mondo.

Le rappresentazioni Dostoewskijane di Cristo, peraltro, sono allegorie della sfida alla verità e allusioni all’indicibile regno di pace, che è stabilito oltre l’Essere e le sue leggi.

Nella rappresentazione dell’irriducibilità di Cristo all’essere si può quasi vedere un’anticipazione del grottesco errore di Léon Bloy, che definisce lo Spirito Santo quale principio antitetico alla giustizia del Dio di Abramo: “Egli è a tal punto il Nemico, a tal punto coincide con quel Lucifero che fu detto Principe delle Tenebre, che separarlifossanche nellestasi beatificaè quasi impossibile” (2).

Certo è che, nei “Demoni”, Cristo appare nella forma di un miracolo emergente dalla profonda e silenziosa quiete dell’abisso, che s’immagina oltre il regno dell’Essere.

La discesa di Cristo fra gli enti creati, pertanto, si risolve nella crocifissione sull’albero della legge, ossia nella perdita della nobiltà che appartiene agli abitanti del luogo senza vita.

L’elogio di Cristo diventa l’elogio dell’essere impossibile sacrificato sulla croce dell’essere reale: “Non cè stato prima dopo di Lui uno simile a Lui, e non ci sarà mai, nemmeno per miracolo. In ciò appunto sta il miracolo, che non cè stato e non ci sarà mai uno simile. E se è cos’, se le leggi della natura non hanno risparmiato neppure questo, non hanno avuto pietà neppure del proprio miracolo, ma lo hanno costretto a vivere in mezzo alla menzogna e a morire per la menzogna, vuol dire che tutto il pianeta è menzogna e si regge sulla menzogna e su una stolta irrisione(3).

Nell’orizzonte della teologia negativa, Kirillov, il martire della libertà nichilista, conclude la propria esistenza con il suicidio: l’autodistruzione – l’uscita dall’essere – è la via all’unione con la libertà che ha sede oltre la vita: “Per anni ho cercato lattributo della ia divinità e lho trovato: lattributo della mia divinità è il libero arbitrio. E tutto ciò con cui io posso dimostrare il punt6o supremo della mia rivolta e la mia nuova paurosa libertà. Poiché essa è assai paurosa. Io mi ucciderò per affermare la rivolta e la mia nuova paurosa libertà(4).

Kirillov si uccide per attuare la mossa decisiva della ribellione contro il creatore dell’universo, che opprime e frustra la bontà dell’ineffabile e impotente redentore.

La ragione della rivolta nichilista contro la vita è dichiarata nel capitolo dei “Fratelli Karamazov”, in cui la figura eminentemente paterna del grande inquisitore cattolico rivela che l’unica felicità possibile nel regno del creatore è una pace incosciente e servile, dunque che la libertà promessa da Cristo è un mito, che non tiene conto della reale condizione dell’uomo.

Al Cristo nichilista l’inquisitore cattolico muove, infatti, l’accusa di aver proposto un ideale troppo alto per gli uomini: “Tu hai scelto quello che cè di più insolito, di più problematico, hai scelto tutto quello che era superiore alle forze degli uomini e perciò hai agito come se tu non li amassi affatto. … Ma è possibile che Tu non abbia pensato che alla fine luomo avrebbe discusso e rifiutato la tua immagine e la tua verità, se lo si opprimeva con un peso così spaventoso come la libertà di scelta? Alla fine grideranno che la verità non è in te, perché era impossibile lasciarli in mezzo a tormenti e inquietudini maggiori di quelle in cui Tu li hai lasciati(5).

Il Cristo avventizio di Dostoewskij ha fatto entrare nel mondo la luce della libertà assoluta, la luce del Nulla; in essa si rivela l’essenza dell’inganno cattolico: sottomettere l’umanità al potere alienante del Creatore.

Nella totale distorsione della dottrina cristiana è visibile chiaramente l’influsso della biografia di Dostoewskij: il ricordo corrusco del padre, la tragica esperienza della prigione zarista e, sopra tutto, la frequentazione dei maestri di cristianesimo alternativo, conosciuti durante l’esilio in Siberia.

Il cuore della teologia nichilista, dunque, consiste nella tesi che Cristo non è il Verbo creatore ma l’epifania dell’altro dio, abisso silenzioso e irreale.

Al Cristo romanzato si oppone lo spirito della terra, che pervade la Chiesa cattolica e la dispone all’esercizio di un potere sconsacrato.

Spaventosa caricatura dell’autorità cattolica, l’inquisitore afferma, infatti, che la opaca realtà trionfa sulla luminosa irrealtà cristiana: “Tu obiettasti che luomo non vive di solo pane. Ma lo sai, Tu, che proprio in nome di questo pane terreno lo spirito della terra insorgerà e lotterà contro di Te e alla fine Ti vincerà? … Tu promettesti loro il pane celeste, ma può questo pane, agli occhi della debole razza umana,eternamente depravata, paragonarsi a quello terreno? E se pochi eletti ti seguiranno in nome del pane celeste che ne sarà dei milioni e dei miliardi che non avranno la forza di seguirti, di disprezzare il pane terreno per quello celeste? O forse a Te sono care solamente le poche migliaia di eletti? No, a noi sono cari anche i deboli, anche i reietti! Ad essi noi diremo che obbediamo a Te e regniamo in Tuo nome. E in questo inganno sarà il nostro dolore, giacché siamo costretti a mentire per tua colpa(6).

Affinché gli uomini abbiano la misera felicità che conviene alla loro natura, l’inquisitore assumerà il peso del peccato e dirà agli uomini che la colpa sarà perdonata, se commessa col suo consenso: “È permesso il peccato perché io li amo e il castigo di questi peccati lo assumo su di meessi moriranno dolcemente, si spegneranno dolcemente nel tuo nome e oltre la tomba troveranno solo la morte. Ma io manterrò il segreto e per la loro felicità li cullerò nellidea di una ricompensa eterna(7).

L’intenzione blasfema di Dostoewskij sale allo scoperto nel giudizio di Cristo a favore dell’Inquisitore: “Ecco che Egli in silenzio si avvicina al Grande Inquisitore e lo bacia sulle vecchie labbra esangui. E questa è tutta la sua risposta(8).

Il giudizio che assolve l’inquisitore trasforma la teologia in filosofia del sospetto, che contempla l’Essere come inganno e gli uomini come “creature incompiute, fatte per esperimento e per burla”.

Ora la contemplazione del male invincibile obbliga ad abbracciare la soluzione nichilista, cioè a rassegnarsi al “terribile spirito della morte e della distruzionea questo scopo bisogna accettare la menzogna e linganno e guidare gli uomini fino alla morte e alla distruzione, ingannandoli per tutta la strada affinché non capiscano dove sono condotti e si credano felici almeno durante il cammino(9).

Motore del delirio teologico adesso è il mito dell’eterno ritorno. Nella parte conclusiva dei “Fratelli Karamazov” si affaccia l’idea ossessiva, che domina l’ultima scena del mondo moderno: “La terra si è ripetuta milioni e milioni di volte: è morta, si è congelata, si è spezzata, frantumata, decomposta nei suoi elementi costitutivi, è diventata, di nuovo, lacqua che era sopra il firmamento e poi di nuovo cometa, di nuovo sole e di nuovo dal sole è uscita la terra, e forse questo ciclo si è ripetuto milioni di volte, sempre uguale, in ogni minimo particolare. Una noia da morire(10).

La vita è ripetizione e noia senza fine. La verità è una cattiva novella, che descrive un incubo, l’assurdo vagare. Solo il trionfo dell’Antivita potrebbe interrompere la sequela irragionevole, ma la follia è indispensabile alla vita, senza di lei “nel mondo comincerebbe a regnare la ragione, ma la ragione naturalmente sarebbe la fine: tutto si spegnerebbe e non accadrebbe più nulla(11).

La storia procederà in eterno, verso la ripetizione e gli uomini avranno un sollievo soltanto dall’adesione alla cattiva novella. All’orizzonte dell’ateismo moderno sorge il sole della finzione buonista: “Ogni uomo saprà di essere mortale per intero, senza possibilità di resurrezione, e accetterà la morte con tranquilla fierezza, come un dio. Nella sua fierezza luomo capirà che non deve lamentarsi se la vita è un attimo e amerà il proprio fratello senza bisogno di ricompensa. Lamore riempirà solamente quellattimo di vita, ma la consapevolezza della sua fugacità basterà da sola a ravvivare la fiamma(12).

L’amore senza verità trascina l’umanità verso quella cultura della dolce morte, che Augusto Del Noce definì magistralmente totalitarismo della dissoluzione. In questa luce si comprende perché, nelle storie di Dostoewskij, la malattia è circondata da un sacro alone e perché agisce come una forza sacra, che si impossessa degli uomini ora precipitandoli nelle tenebre ora coprendoli di luce abbagliante: la malattia, infatti, rivela la debolezza dell’Essere e la potenza del Nulla.

Dostoewskij predica la religione nuova, che ha sfondato le porte dell’illuminismo: la contemplazione della malattia, del malessere e del disordine quali versanti di una montagna incantata, da scalare in vista della realizzazione nichilista.

La fede nella malattia, forza illuminante e terribile, cui Thomas Mann darà il nome di “via geniale verso lumanità e lamore”, è il perfetto rovescio dell’Eucarestia (13).

Bestemmiata la santità del Padre e negata la sapienza del Figlio non rimane che la buona malattia. La felicità si converte nel piacere morboso della dissoluzione: Dostoewskij dichiara che un attimo di ebrietà epilettica vale l’intera esistenza e Mann che descrive Faustus – Nietzsche nell’atto d’implorare l’iniziazione luetica (14).

NOTE


1) Fijodor Dostoewskij “I Demoni”, p. II, c. 2

2) Cfr.: “Dagli ebrei la salvezza”, Adelphi, Milano 1994, pag. 123. .

3) “I Demoni”, p. III, c. 6.

4) Ibidem.

5) “I fratelli karamazov”, p. II. C. 5.

6) Ibidem.

7) Ibidem.

8) Ibidem.

9) Ibidem.

10) “I fratelli Karamazov”, p. IV, c. 12.

11) Ibidem.

12) Ibidem.

13) Al riguardo cfr.: Thomas Mann, “Dostoewskij, con misura”.

14) Thomas Mann, “Lo spirito della medicina”.

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