di Gianfranco Amato
fonte: Nuova Bussola
Qualunque cosa si pensi di Silvio Berlusconi, alcune tappe del calvario processuale che lo ha portato all’ultima sentenza definitiva della Corte di Cassazione – quella che gli farà perdere il laticlavio senatoriale – meritano di essere ricostruite cronologicamente.
2003/2004: sono questi gli anni in cui Silvio Berlusconi avrebbe commesso il reato di frode fiscale per i diritti Mediaset.
18 maggio 2012: La Corte di Cassazione, seconda sezione penale, conferma, rendendola irrevocabile, la sentenza di proscioglimento di Silvio Berlusconi da parte del Gup di Milano, relativa ai diritti Mediaset, che ha ritenuto Berlusconi innocente e gli elementi raccolti contro di lui insufficienti anche per il rinvio a giudizio.
6 marzo 2013: La Corte di Cassazione, terza sezione penale, conferma, rendendola irrevocabile, la sentenza di proscioglimento di Silvio Berlusconi da parte del Gip di Roma, relativa ai diritti Mediaset, che ha ritenuto Silvio Berlusconi innocente e gli elementi raccolti contro di lui insufficienti anche per il rinvio a giudizio.
30 luglio 2013: La sezione feriale penale della Corte di Cassazione, quindi non il giudice naturale precostituito per legge, condanna con sentenza irrevocabile Silvio Berlusconi per frode fiscale nella vicenda dei diritti Mediaset.
Impariamo così – come ha rilevato il senatore Carlo Giovanardi – che entra in vigore un nuovo principio nel nostro ordinamento: «un cittadino può essere processato per lo stesso fatto tante volte finché non trova un giudice che lo condanni», principio che sostituisce l’evidentemente abrogato art. 649 del C.P.P: «l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale diventati irrevocabili non può essere nuovamente sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado e le circostanze». Provate a spiegarlo ad un giurista anglosassone di common law, per il quale il principio del «double jeopardy» è considerato sacro. Una volta accertato che non state scherzando, vi guarderebbe inorridito.
In realtà le maglie larghe del nostro attuale dissestato sistema giudiziario già da tempo consentono, grazie ad un reiterato uso del distorto principio bis in idem, di giudicare più volte un fatto fino a quando non si ottenga una pronuncia politicamente conveniente o politicamente corretta. Ne è un esempio clamoroso il caso che ha portato alla morte della povera Eluana Englaro. Pochi sanno, infatti, che il primo tentativo di un’azione legale da parte del sig. Englaro per ottenere la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione della propria figlia, fu dichiarato inammissibile dal Tribunale di Lecco con decreto 2 marzo 1999 perché «ritenuto incompatibile con l’art. 2 della Costituzione, letto ed inteso come norma implicante una tutela assoluta e inderogabile del diritto alla vita». Tale provvedimento fu poi confermato in sede di reclamo dalla Sezione Persone Minori e Famiglia della Corte d’Appello di Milano con decreto del 31 dicembre 1999, reputando la Corte – a differenza del Tribunale – che sussistesse «una situazione d’incertezza normativa tale da non consentire l’adozione di una precisa decisione in merito all’istanza d’interruzione del trattamento di alimentazione/idratazione forzata». In un secondo tentativo, instaurato con ricorso depositato il 26 febbraio 2002, un’ulteriore identica domanda del sig. Englaro fu ancora respinta dallo stesso Tribunale di Lecco con decreto depositato il 20 luglio 2002 in cui si ribadiva «il principio di necessaria e inderogabile prevalenza della vita umana anche innanzi a qualunque condizione patologica e a qualunque contraria espressione di volontà del malato».
Ancora una volta tale decisione fu confermata dalla Corte d’Appello di Milano, in sede di reclamo,
con decreto del 17 ottobre 2003, in cui si reputava comunque «inopportuna un’interpretazione integrativa volta ad attuare il principio di autodeterminazione della persona umana in caso di paziente in stato vegetativo persistente». Quest’ultimo provvedimento fu successivamente impugnato dal sig. Englaro con ricorso straordinario per cassazione, ricorso dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte con ordinanza n. 8291 del 20 aprile 2005.
Nel terzo tentativo, avviato con ricorso depositato in data 30 settembre 2005 ancora avanti il Tribunale di Lecco, il sig. Englaro chiese la previa nomina di un curatore speciale, che fu in effetti individuato nella persona dell’avv. Franca Alessio, la quale prestò adesione all’istanza dello stesso padre di Eluana. Tale ricorso fu non dimeno dichiarato inammissibile dall’adito Tribunale di Lecco con decreto depositato il 2 febbraio 2006, questa volta reputandosi che il padre di Eluana «non fosse legittimato, neppure con l’assenso della curatrice speciale, a esprimere scelte al posto o nell’interesse dell’incapace in materia di diritti e “atti personalissimi”».
Il decreto fu però riformato dalla Corte d’Appello di Milano, in sede di reclamo, con provvedimento in data 15 novembre/16 dicembre 2006. In tal caso, infatti, la Corte, contrariamente al Tribunale, reputò ammissibile il ricorso in ragione del generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante legale dell’incapace. Tuttavia, esaminando e giudicando nel merito l’istanza del sig. Englaro, la Corte la giudicò «insuscettibile di accoglimento, sul rilievo secondo cui l’attività istruttoria espletata non consentisse di attribuire alle idee espresse da Eluana all’epoca in cui era ancora pienamente cosciente un’efficacia tale da renderle idonee anche nell’attualità a valere come volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita».
Solo con il quarto ed ultimo tentativo il sig. Englaro è riuscito a trovare a Milano una corte “illuminata” pronta a dargli ragione. E’ un diverso collegio della stessa Corte d’Appello meneghina, infatti, che con il decreto 9 luglio 2008 ha disposto l’«accompagnamento accuditorio» di Eluana Englaro verso la morte.
Nei tre precedenti tentativi, comunque, si sono più volte pronunciati il Tribunale di Lecco, la Corte d’Appello di Milano e persino la Suprema Corte di Cassazione dando sempre torto al padre di Eluana. E pensare che c’è ancora qualche ingenuo disposto a credere che in Italia oggi viga il principio della certezza del diritto!
2 commenti su “Dov’è finito lo Stato di diritto? – di Gianfranco Amato”
Quanto sta avvenendo nelle aule giudiziarie in italia é pura follia: “Summa Injuria” Normanno Malaguti
è da un po’ che sostengo che viviamo in uno stato di polizia, stiamo attenti a quel che diciamo perché una parola travisata e ci ritroviamo in galera senza sapere il perché., meno male che nessuno può impedirci di pensare!