di Filippo Giorganni (seconda e ultima parte)
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2. Il “peccato originale” della Destra in Italia: la “questione politologica”
Spostando la questione sul piano italiano, si può constatare come, pur nella loro profonda diversità, il P.P.I., il P.N.F., la D.C., parzialmente il M.S.I., abbiano risposto, e poi oggi il berlusconismo e la Lega Nord rispondano, a un vuoto lasciato nella politica italiana dai particolari rivolgimenti storici del nostro paese. Infatti, come si è visto, nel tempo si è assistito ovunque alla stratificazione di più false “destre”, che tali non sono, sulla Destra vera e propria[1], a causa di fattori molteplici – non solo quelli già visti ma anche altri: l’ignoranza dei reagenti (più propriamente reazionari) alla Rivoluzione che li porta ad abbracciare proposte concettuali confusionarie (come le già viste “ibridazioni”); la contingenza storica che devia a volte anche le situazioni migliori verso il fallimento della Destra (è il caso dell’omicidio politico, ordinato dalla massoneria, dello statista della Destra ecuadoregna Gabriel García Moreno [1821-1875]); il progressivo erodersi della rilevanza sociale del sentire cattolico, e quindi del sentire di Destra, nel tessuto della società sempre più secolarizzato dalla Rivoluzione sinistra –. Tuttavia questo fenomeno di stratificazione e, di conseguenza, la confusione intorno al concetto di Destra hanno incontrato un’accentuazione in Italia in ragione di quello che può essere definito il “peccato originale” della politica italiana: l’unità risorgimentale. L’unità d’Italia, infatti, portata avanti non con i cattolici – che non vi erano assolutamente ostili[2] –, ma contro di essi, in nome di un’ottica smaccatamente rivoluzionaria[3], ha prodotto una cesura tra «paese reale» e «paese legale» o istituzional-mediatico, per cui il paese realmente esistente non si è visto, e non si vede ancor oggi, rappresentato adeguatamente sui media, in politica e nell’apparato amministrativo dello Stato. Questa divisione tra i due “paesi” è ben presente in ogni esperienza politica moderna, a causa dell’infiltrazione massiccia e totalizzante del progressismo nei mass-media, nei gangli del potere istituzionale, nell’ambiente scolastico, etc. e a causa delle sbornie ideologiche e della miopia pragmatista – in realtà “praticona” e suicida perché «Il politico pratico muore sotto le conseguenze delle teorie che disprezza»[4] – delle (false) “destre”. Ma questa frattura, fuori d’Italia, si presenta con modalità diverse: all’estero la convivenza tra la Destra e le varie tappe rivoluzionarie, quindi le sempre nuove sinistre, è stata più progressiva e, per tale ragione, forse più logorante, ma comunque più facilmente individuabile. In Italia invece la convivenza semplicemente non è potuta avvenire. La maggior vitalità del cattolicesimo italiano[5] – più vivo probabilmente proprio in opposizione alle produzioni rivoluzionarie italiane post-risorgimentali – può forse essere merito anche (ma non solo) della frattura risorgimentale, ma si devono anche ad essa le maggiori difficoltà di identificazione politica del soggetto “destro”. Infatti, il risorgimento non ha semplicemente importato e imposto la Rivoluzione in tutta l’Italia e lottato poi di conseguenza con una Destra autentica (pur vittima di fusionismi) come successo altrove – ad esempio in Francia, dopo l’onda lunga bonapartista della Rivoluzione francese –, bensì ha semplicemente rimosso del tutto la Destra dal quadro politico, creando così una vera e propria “questione politologica”, accanto alla «questione romana» o «cattolica» (tensione con la Chiesa), alla «questione meridionale» (arretratezza del Sud) e a quella «istituzionale» (compressione delle autonomie locali)[6]. A seguito dell’unità risorgimentale, infatti, la Destra autentica, espressione del cattolicesimo massicciamente vivo a livello popolare (paese reale), è stata esclusa dalla politica (paese legale), mentre anch’essa, insieme ai cattolici tutti, si autoescludeva dalla vita politica, in ragione del Non expedit del Beato Pio IX [Giovanni Mastai Ferretti, 1792-1878], misura necessaria e inevitabile in quel frangente storico, ma devastante[7] nei risultati di lungo periodo, alla luce del senno del poi. La politica post-risorgimentale, impedendo del tutto l’espressione politica della Destra autentica, assiste così alla vera e propria creazione artificiale di una “destra”, presente nelle istituzioni, incarnatasi nella c.d. «Destra storica». E però questa “destra” ben poco ha della Destra vera e propria, essendo semplicemente una sinistra “travestita”: essa infatti è composta unicamente da liberali più “conservatori”, quegli stessi liberali che in quella medesima epoca in tutto il mondo continuavano a formare la sinistra – non essendo ancora intervenuto in modo troppo decisivo il sorpasso di nuove sinistre – e che, anche in Italia, componevano le file della «Sinistra storica». Detto altrimenti, la frattura risorgimentale italiana aveva prodotto il paradosso di una sinistra, quella liberale (che aveva fatto la Rivoluzione francese ed europea), che si dovette spezzettare in due tronconi, presentandosi anche come “destra”, pur non essendolo, per coprire il vuoto lasciato dall’assenza parlamentare del suo avversario politico, la vera Destra, presente (e predominante) sì nel paese, ma sottorappresentata (rectius, non rappresentata) in Parlamento, a causa della sua esclusione/autoesclusione dalla politica. La sinistra liberale si presentava dunque come sinistra, ma si riciclava anche come “destra” e, lungi dal rappresentare l’Italia e rappresentando solo una minoranza del paese, copriva tutto l’arco Parlamentare, formando così il paradosso di una forza, la sinistra, che si era creata il suo nemico a propria immagine e somiglianza. Persino un Presidente del Consiglio e alto esponente della «Destra storica» come Marco Minghetti [1818-1886] lamentava questo paradosso nel 1880: «Non è assurdo che noi, che dovunque, […] in Francia o in Inghilterra, formeremmo il centro-sinistra o addirittura la sinistra, siamo qui l’estrema destra, come se fossimo dei reazionari?»[8].
2.1 “Rattoppi” della “questione politologica”
Il vuoto presente sul fianco “destro”, creatosi nella politica italiana e maldestramente e artificialmente coperto da una forza politica che non ha mai rappresentato la Destra – presenza culturale, quest’ultima, rimasta perciò nel paese solo come «fiume carsico»[9] –, non avrebbe tardato a mostrare i suoi frutti avvelenati: in cerca di una rappresentanza adeguata, la Destra culturale popolare ha dovuto così cercare continuamente quel rappresentante che non ha mai avuto. Nascono così tutta una serie di forze che, con varia origine, in vario modo e a vario titolo, hanno cercato politicamente di intercettare i voti di questa (gran) parte d’Italia non rappresentata:
a) il Partito Popolare Italiano di Sturzo, partito ancora una volta liberale, ma che tentava di proporsi anche alla Destra – poiché al suo interno vi erano soggetti come, ad esempio, Paolo Cappa [1888-1956], che si presentavano più in linea con il Magistero sociale della Chiesa –, e che si è trovato sempre in un angoscioso dubbio equilibrista sulla propria collocazione politica, anticipando in ciò la Democrazia Cristiana. Scriveva Jacques Ploncard d’Assac [1910-2005]: «Prima di tutto, non partecipando alla vita politica italiana, i cattolici si riunirono in associazioni. Ecco, così, nel 1866, la formazione della Società della Gioventù Cattolica; nel 1874, il primo congresso dei Cattolici italiani che darà vita all’“Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici in Italia”. L’influenza che i Cattolici italiani si rifiutavano di esercitare nella nazione sul piano politico, col voto, con la partecipazione ai partiti, cercheranno di esercitarla sul piano sociale, coi sindacati. I Cattolici sociali si dividono allora in due tendenze: l’una che si spinge sino al socialismo col rifiuto dello Stato liberale; l’altra che inclina verso la collaborazione con lo Stato liberale. […] Una delle conseguenze più disastrose del divieto posto da Pio IX ai cattolici italiani di partecipare normalmente alla vita politica, fu di costituirli in una specie di blocco separato che si credette obbligato a prendere posizioni comuni sulle questioni politiche, col pretesto di conservare l’unità dei cattolici i quali trovavano, in questa unità, il modo di costituire un gruppo di pressione sulla monarchia liberale dei Savoia. […] E accadde quel che doveva accadere: i cattolici italiani si divisero sui problemi economici e politici. Il Vaticano non tardò a conoscere i peggiori fastidi coi movimenti democratico-cristiani. Nel 1908, il reverendo Murri fondava una Lega Democratica Nazionale. L’anno dopo, il Papa la sconfessava, Murri rispondeva con attacchi violenti contro l’atteggiamento reazionario della Curia Romana. Nel 1909, fu scomunicato. La democrazia cristiana cominciava male. Bisognava aspettare il 1919 per vedere Benedetto XV togliere il non expedit e autorizzare la costituzione di un partito cattolico. Uno degli antichi militanti di Murri, don Sturzo, ne sarà il capo. Chiama il suo partito Partito Popolare Italiano, spiegando di non aver ripreso il termine di “democrazia cristiana” perché esso “ricorda un passato troppo discusso”. Da notarsi che il PPI abbandona la rivendicazione essenziale dei cristiani sociali del XIX secolo. Rifiuta il principio corporativo. “Il migliore agente elettorale del PPI”, scrive Chassériaud, “era, beninteso, il clero”. Molti preti di campagna, soprattutto nel Nord, erano divenuti sinceri democratici cristiani; e anche le cerchie ecclesiastiche importanti sostenevano il partito, almeno ai suoi inizi […]. “Nonostante questo appoggio, il PPI non ha mai ottenuto più del 20 per cento dei voti non raccogliendo tutti quelli di chi seguiva le direttive della Chiesa. […]” Così si dimostra, una seconda volta, che il partito cattolico non raggiungerà mai la totalità dei cattolici e, dividendoli, indebolirà la forza di cui potrebbero disporre nelle questioni che riguardano la missione della Chiesa. Il Partito Popolare Italiano doveva conoscere presto le lacerazioni interne […]. “Un disaccordo fondamentale”, riconosce Chassériaud, “era latente […] da una parte, i clerico moderati, che corrispondevano ai cattolici conservatori e transigenti di prima della guerra; dall’altra, i democratici cristiani, eredi spirituali dell’ala sociale dell’Opera dei Congressi e della Democrazia Cristiana di Romolo Murri […] Esisteva una frazione di sinistra, sindacalista (con Achille Grandi) e anche una estrema sinistra guidata da Guido Mignoli, mentre fra i conservatori alcuni potevano essere ritenuti esecutori fedeli delle consegne dell’alto clero (Crispolti) e altri semplicemente reazionari. Fra queste diverse correnti, don Sturzo, segretario politico del partito, manteneva un equilibrio che non resisteva senza un indebolimento del dinamismo politico.” Sul piano politico italiano, quale sarebbe stata la conseguenza della fondazione del PPI? Nell’elezione del 1919, ottenne soltanto il 20,4 per cento. “I suoi cento deputati erano a un tempo troppo numerosi e troppo poco numerosi, costringendo il partito a essere o l’ala destra o l’ala sinistra di ogni maggioranza. Con la sua esistenza stessa e le sue dimensioni, il PPI riduceva ancora la possibilità di operare del regime parlamentare italiano, o di ciò che ne teneva luogo. L’alleanza coi socialisti essendo impossibile, era costretto ad accordare il suo appoggio alla destra, e del resto contro voglia. Così cominciavano le difficoltà sue e del regime.” Notiamo subito che il giorno in cui la democrazia cristiana sarà diventata il partito più importante d’Italia, resterà sempre vivo il problema del suo orientamento e, non avendo più da scegliere fra l’ala sinistra o l’ala destra di una maggioranza, sarà nondimeno costretta, a sua volta, a scegliere un’ala per completare la sua maggioranza. Il che verrà espresso nei termini di apertura a sinistra o a destra. La democrazia cristiana si costituisce, dunque, come un elemento perturbatore di una chiara classificazione politica»[10];
b) il fascismo, movimento inizialmente di stampo socialista nazionale, quindi marcatamente rivoluzionario, inequivocabilmente di sinistra, che, alleandosi con (e inglobando in sé) i liberali e soggetti più “conservatori”, ha potuto cavalcare anche il consenso popolare di tutti coloro che guardavano con viva preoccupazione all’insorgere mondiale del comunismo. Esso, attraverso il neofascismo missino, ha infaustamente monopolizzato l’etichetta di “destra” in tutto il dopoguerra: esso, in realtà, non è altro che una stratificazione di forze diversissime – la Destra e due sinistre[11]: quella liberale, onnipresente istituzionalmente dal risorgimento in poi, e quella socialista, movimentista, sempre esiliata dalle decisioni che contavano, ma anche sempre presente culturalmente e istituzionalmente e vivificata da rigurgiti periodici[12] – in cui l’opera nazionalistica risorgimentale è proseguita[13] e in cui l’autentica Destra non ha mai avuto alcun peso istituzionale, ma solo una mera presenza scenografica visibile a livello di consenso popolare[14]. Il fascismo si riduce così ad essere un grosso calderone pieno di ingredienti tra i più disparati, come già l’ex R.S.I. Alberto Giovannini [1912-1984] sottolineava: «Nel fascismo, per venti anni, conservatori e rivoluzionari hanno convissuto convinti, gli uni e gli altri, di servire il Paese servendo contemporaneamente le proprie idee, le proprie aspirazioni, i propri interessi»[15]. Esso, come una sorta di «polpettone storico», conteneva posizioni filocomuniste[16], posizioni liberali – non è da dimenticare che fino al 1943 Luigi Einaudi [1874-1961] continuò ad insegnare e che molte riforme del regime devono tutto ai liberali[17]: per esempio, il codice civile fascista, ancora vigente, è improntato a un’ottica economicistica, o patrimonialista, tutta liberale –, confusamente “conservatrici”, etc. Indubbiamente questo “minestrone politico” ha posto un argine momentaneo alla deriva comunista in Italia, ma ha pure lasciato il polo “destro” tra le macerie, gettando sul termine “destra”, oltre che una confusione concettuale atavica e cronica, anche un aura di autoritarismo e di impronunciabilità, identificando forzatamente “destra” e fascismo – in ciò molto hanno contribuito le altre forze politiche nel dopoguerra –[18] e relegando la Destra nel ghetto e nell’oblio del pregiudizio negativo;
c) la Democrazia Cristiana, partito che ha riproposto nuovamente l’ambiguità della formula del P.P.I. e che, pur raffigurandosi come formalmente “cattolica” (con il suo scudo crociato) e “anticomunista”, ha vissuto in sé un sempre maggiore slittamento a sinistra, insito nella sua posizione equilibrista: essa si presentava a livello popolare come la risposta alle esigenze del cattolicesimo contrario alla Rivoluzione (specie nella sua versione comunista), sottorappresentato sino ad allora, ma d’altro canto, essa rifiutava categoricamente di presentarsi come una forza rappresentativa della Destra, preferendo l’ambiguità di una insensata posizione intermedia tra Destra e sinistra, cioè di centro – forza che si caratterizza per essere un cedimento titubante e prudente (a piccoli passi) ai principi progressisti[19] e la cui inconsistenza logica è evidente, in quanto forma di sinistra “moderata”[20] –, definendosi già nel 1946 «un centro che guarda a sinistra», secondo le parole Giulio Andreotti [1919], spesso riprese da De Gasperi [Alcide, 1881-1954][21].
La sua presenza sullo scenario politico ha permesso indubbiamente la sconfitta del Fronte Popolare delle sinistre nel 1948 – la cui vittoria altrimenti avrebbe significato divenire repubblica satellite del totalitarismo comunista sovietico –, avvenuta però proprio grazie all’opera di sensibilizzazione elettorale portata avanti da quello stesso popolo cattolico sottorappresentato[22], ma l’esistenza della D.C. ha anche portato all’assurdità del tradimento esattamente di quel medesimo elettorato, inseguendo invece l’idea di un incontro con le medesime sinistre[23] che quel suo elettorato «carsico» osteggiava decisamente, essendo la sconfitta delle sinistre la motivazione che spingeva quegli elettori a votare Democrazia Cristiana. Dal punto di vista dell’elettore anticomunista della D.C., lascia sconcertati la candida e celebre “ammissione di colpevolezza” del democristiano Flaminio Piccoli [1915-2000] che vantava la D.C. come il partito che aveva realizzato le “conquiste” rivoluzionarie, cioè la secolarizzazione che invece avrebbe dovuto combattere: «quel grande processo di trasformazione che in molte nazioni d’Europa è stato realizzato sotto la prevalente egemonia socialdemocratica o laburista, è stato ottenuto in Italia sotto la prevalente guida di un partito democratico cristiano. Non dimentichiamolo mai! È un grosso fatto storico, se si pensa che il processo di modernizzazione altrove collaudato dallo spirito capitalistico originario dell’etica protestante, o da quello illuministico della Rivoluzione francese, o da quello socialista-marxista-leninista, della Rivoluzione d’ottobre, in Italia questo cambiamento affonda nella tradizione cristiana propria dei cattolici democratici»[24]. Addirittura ingiuriose poi le parole di De Mita [Ciriaco, 1928] che, quasi trattando da trogloditi retrogradi i propri vecchi elettori, ebbe a dire: «Quando gli storici si occuperanno di fatti e non solo di propaganda spiegheranno che il grande merito della Dc e’ stato quello di avere educato un elettorato che era naturalmente su posizioni conservatrici se non reazionarie a concorrere alla crescita della democrazia. La Dc prendeva i voti a destra e li trasferiva sul piano politico a sinistra»[25]. Alla fine la Democrazia Cristiana si trovò condizionata in modo determinante da un’ottica di puro e semplice mantenimento dell’egemonia politica[26] da parte di soggetti che non esprimevano più i principi cattolici, bensì si preoccupavano solo di una pura gestione di potere, come dimostrano le parole dell’on. Aldo Moro [1916-1978]: «La ritrovata natura popolare del partito induce a chiudere nel riserbo della coscienza alcune valutazioni rigorose, alcune posizioni di principio, che erano proprie della nostra esperienza in una fase diversa della vita sociale, ma che fanno ostacolo ora alla facilità di contatto con le masse ed alla cooperazione politica. Vi sono cose che la moderna coscienza attribuisce alla sfera privata e rifiuta siano regolate dalla legislazione ed oggetto dell’intervento dello Stato. Prevarranno dunque la duttilità e la tolleranza»[27]. Del resto, si possono rispolverare anche i giudizi di un membro di spicco dei comunisti (i quali avevano tutto l’interesse all’esistenza di cattolici che gli tendessero la mano e l’interesse a non farli spaventare) del Novecento italiano: la loro mente più lucida, Antonio Gramsci [1891-1937], scrisse infatti dei primi democristiani (a cui si ispirò la D.C.), dicendo in modo inequivocabile che: «Modernismo significava, politicamente, democrazia cristiana»[28] – e a ciò aggiungeva pure che «il cattolicesimo democratico fa ciò che il comunismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida»[29] –. L’epitaffio sull’esperienza della D.C. e dei centri in genere, specie di ispirazione cristiana, si può elaborare dunque con le seguenti parole, ben confermate dalle frasi degli alti esponenti democristiani che abbiamo visto: «la Democrazia Cristiana ovunque è più o meno la stessa. La sua base è sana ma politicamente sprovveduta. I suoi vertici sono ambigui, a prima vista. Costituita abitualmente da elementi che vanno da un centrismo conservatore – passando per tutte le gamme intermedie – fino a un sinistrismo estremistico, in essa l’influenza dominante non è mai quella degli uomini di destra o dei centristi, ma quella dei politici di sinistra. Questi ultimi finiscono per trascinare sempre più verso sinistra – con riluttanza maggiore o minore degli altri elementi – i vertici democristiani, e con i vertici anche la base. In questo modo, benché tali vertici si blasonino ancora da anticomunisti, tuttavia la maggior parte dei loro membri non omette nulla per rendere sempre più conforme alle tendenze e perfino alle dottrine comuniste tutto quanto intraprendono. Predicatori della concordia a ogni prezzo, ne deducono la convenienza di una intesa cordiale e perfino di una schietta collaborazione con il marxismo. Ma di fronte agli anticomunisti autentici la Democrazia Cristiana dimentica tutto il suo pacifismo e si trasforma in avversaria irosa, costante e irriducibile. E alla luce di tutto questo, per l’osservatore acuto l’ambiguità dei vertici lascia il posto al quadro di una DC che non è altro che un dispositivo ideologico e politico specificamente fatto per trascinare verso l’estrema sinistra uomini di destra e, soprattutto, centristi ingenui»[30]. E, in effetti, in tutto ciò, l’incidenza culturale e istituzionale della Destra è stata più che magra all’interno del periodo e del fenomeno democristiani: al di là di singole figure meno conformiste – come don Gianni Baget Bozzo [1925-2009], o di singoli rigorosi filosofi molto vicini all’ottica contro-rivoluzionaria, come Augusto Del Noce [1910-1989], o comunque lontani dal progressismo, come Sergio Cotta [1920-2007] –, il peso della cultura cattolica non influenzata dalla Rivoluzione, presente nella D.C., si è espressa solamente in ghetti poco incisivi, mentre il peso istituzionale è stato addirittura pressoché inesistente: basti pensare che all’Assemblea costituente si ripropose, insieme all’esilio del neofascismo, anche la desolante esclusione della Destra dalla vita legislativa del paese. Ciò si vede nella risultante Costituzione che non ha espresso quasi per nulla posizioni inequivocabilmente apprezzabili da un vero cattolico. Il testo della Carta infatti è popolato di alcune formule ambigue, utili per l’eventuale instaurazione di un regime totalitario comunista (è il caso degli articoli 41 e 42 ove si parla, con formula vaga e plurisignificante, di conformazione dell’iniziativa economica e della proprietà alla «utilità sociale» e alla «funzione sociale»), altre volte esprime invece formule apertamente rivoluzionarie, come l’articolo 1 che ha del grottesco e che, oltre ad esser ormai superato (col tramonto dell’analisi marxista del lavoro), è palesemente ideologico nel fondare la repubblica non sulla persona[31], bensì sul lavoro (elemento certamente importante per la persona, ma non più importante di altri principi o della persona considerata nel suo complesso), mentre solo più di rado la Costituzione utilizza formule migliori, sebbene non interamente soddisfacenti per un cattolico, come nel caso dell’articolo 29, discreto articolo in tema di famiglia ma che non menziona l’indissolubilità del matrimonio (a causa dell’assenza di una manciata di voti proprio democristiani nella seduta dell’Assemblea).
d) il Movimento Sociale Italiano e, in una certa misura, Alleanza Nazionale: il primo partito nasce dalle ceneri del fascismo – la simbologia della fiamma addirittura rappresenta la bara dei morti della R.S.I. di Salò che alimenta i suoi eredi – e, come il fascismo, ripropone il problema di una mancanza di univocità interna. Anzi, esso nasce proprio con l’intento di non fare chiarezza sulla natura dell’esperienza fascista. Si può ben dire che «La nascita del Msi aveva […] determinato la necessità di costruire, attorno a questo partito, una struttura nella quale si ripetesse il meccanismo del fascismo, riproponendo le medesime contraddizioni e le identiche conflittualità»[32]. Proprio per questo, il M.S.I., esattamente come il fascismo, è stato fucina di anime diversissime[33]: dai cattolici tradizionali, tendenzialmente monarchici, ai socialisti nazionali che teorizzavano l’alleanza con i sessantottini «maoisti»[34], passando per il ribellismo fine a sé stesso contro il “sistema”, proseguendo attraverso gli “spiritualisti” neognostici, e poi ancora i nichilisti puri, i liberali e giungendo ai fascisti veri e propri della falsa “destra” cosiddetta «sociale» di influenza socialista e statalista. I tre collanti (mai del tutto saldi) di tutte queste anime del Movimento Sociale erano l’anticomunismo – invero molto confuso, posto che in certe frange si arrivava a simpatizzare per il socialismo –, una retorica nostalgica di tipo “romanico” e l’unificante presenza del capo carismatico – anche se spesso contestata da minoranze interne –. Il partito, sostanzialmente irrilevante in parlamento, a causa della delegittimazione nel dibattito pubblico operata dagli altri partiti nei suoi confronti (conventio ad excludendum), tendeva ad essere un semplice “partito-testimonianza” e tendeva soprattutto verso una produzione di cultura viva, ma sottostimata dagli organi direttivi, tendenzialmente poco rilevante a livello sociale e comunque contraddittoria nella sua perenne guerra interna tra “anime”, mai veramente risolta da linee guida che abbiano poi trovato radicamento nella formazione presso le sedi di partito. «Si trattò, in altri termini, di un “blocco” di realtà politiche e storiche vissuto in termini antitetici rispetto alla politica e alla storia; un blocco nel quale l’indistinto diventa l’unica forza del neofascismo e la vera ragione della sua sopravvivenza. Le contraddizioni, le varie anime del fascismo, i filoni culturali che si erano contrapposti per ventisei anni, da San Sepolcro a Salò, venivano assunti acriticamente e retoricamente in blocco, come se il fascismo fosse un fenomeno unitario da accettare o da respingere. La fortunata formula di De Marsanich con la quale esordì la fase unitaria e compromissoria del Msi – “non restaurare e non rinnegare” – si inseriva nell’ottica di un movimento che, per salvaguardare la propria unità interna, doveva evitare il rischio di individuare ciò che era ancora valido e ciò che invece era da respingere dell’esperienza fascista»[35]. Insomma, il Movimento Sociale, lungi da essere la vera alternativa alle sinistre, era volutamente votato alla mancanza di chiarezza culturale interna, alla mancanza di identità. Con il passaggio ad Alleanza Nazionale, il quadro non solo si chiarisce, ma si fa ancora più frammentario e caotico: il documento sottoscritto a Fiuggi sembra far spogliare[36] finalmente dell’etichetta infamante e ambigua del fascismo quella che viene considerata la “destra” italiana, puntando finalmente a un ritorno a qualcosa di ben più vicino alla Destra vera e propria, tanto da sembrare profilarsi quel «conservatorismo tradizionalista» – per quanto possa essere ambigua la formula – auspicato da molti[37]. Tuttavia questo documento semplicemente viene accantonato e mai applicato, per inseguire l’ambiguità degli “strappi”, presenti nelle dichiarazioni del capo[38]: il partito, seguendo i binari rigidamente imposti dall’alto dal suo leader Gianfranco Fini [1952], si va a proporre così mediaticamente come un “oggetto misterioso”, un partito della “svolta”, ma non si capisce bene di quale svolta, privo com’era di un’identità e di principi ben definibili e praticamente mai definiti fino al giorno del suo scioglimento. Il risultato è stato un partito che è morto senza produrre nulla[39], non avendo avuto alcuna linea culturale e vivendo di semplici giornalieri ed estemporanei “strappi” col passato – semplici meteore giornalistiche del momento – e di un relativo appeal mediatico in campagna elettorale. La situazione interna dunque, che con la svolta di Fiuggi si fece ancora più confusa, è sfociata addirittura nella quasi totale improduttività o, nel migliore dei casi, nell’irrilevanza culturale. Nonostante ciò, sia il Movimento Sociale che A.N. hanno permesso una minima sopravvivenza della Destra nel proprio seno e hanno trovato come bacino elettorale tutti quegli anticomunisti, e poi antiprogressisti, che non si sono (giustamente) mai fidati della D.C.[40] (o delle sue vestigia, sorte dopo la «discesa in campo» di Berlusconi) o che alternavano il loro voto, di volta in volta, dividendolo tra la fiamma tricolore e lo scudo crociato, pur non avendo la minima idea sull’alternativa da proporre all’avversario;
e) Forza Italia e il berlusconismo in genere, oggi ripresentatosi nel Popolo della Libertà: dopo l’implosione del sistema partitico della Prima Repubblica che colpì tutti i partiti tranne l’irrilevante M.S.I. e il Partito Comunista d’Italia, a causa dei colpi della magistratura di «Tangentopoli», il quadro sembra profilare una vittoria schiacciante della cosiddetta «gioiosa macchina da guerra»[41] dei Democratici di Sinistra, cioè gli ex P.C.I., appoggiati dalla maggioranza dei giornali (compreso il più diffuso Corriere della Sera), dai sindacati e persino dalla sigla sindacale imprenditoriale Confindustria. Ciò che avrebbe portato al paradosso della vittoria in Italia di una forza ancora sostanzialmente comunista, poco dopo l’internazionale fallimento dei partiti comunisti, a seguito della caduta del Muro di Berlino, ha provocato l’intervento in politica di Silvio Berlusconi che, unificando ciò che restava del vecchio P.S.I., della vecchia D.C. e di altre forze minori e alleandosi con il movimento emergente della Lega Nord e con il M.S.I., forte a sud – facilitandone così l’evoluzione di Fiuggi e ridonandogli una legittimità politica mai avuta –, diede vita al suo movimento[42]. Questa «discesa in campo» provoca la sconfitta della «gioiosa macchina da guerra» e apre una nuova stagione politica, introducendo un bipolarismo “imperfetto” (per quanto necessario) che ruota tutto attorno alla figura di Berlusconi: quel che ne risulta “a destra” è la creazione di uno schieramento variegato e spesso superficiale. Al di là della retorica che vorrebbe richiamarsi a un fusionismo di forze diverse, guidate da un progetto di tipo liberale-liberista, il berlusconismo si caratterizza prevalentemente per quello che è inevitabile[43] in una democrazia moderna (e oggi post-moderna), pervasa dall’influenza dei mass-media: un battagliare tutto televisivo o comunque mediatico, fatto di pragmatismo, di promesse su problemi sociali ed economici concreti e di una forte fascinazione di tipo pubblicitario del volto politico del capo, dei suoi collaboratori e delle iniziative di governo – non a caso, c’è chi ha parlato di «partito di plastica»[44] con riferimento ai partiti del Cavaliere –. Ciò non impedisce al partito e alle coalizioni nate intorno a Berlusconi anche un certo afflato su questioni di principio, tendenzialmente risoltesi su posizioni più o meno rispettose del diritto naturale e quindi vicine a quelle della Destra – è il caso, in parte, della legge 40 o, più evidentemente, della vicenda Eluana Englaro [1970-2009] –, ma la questione culturale rimane per lo più sullo sfondo. A causa dei pochi (ma fermi) vincoli posti dal leader e a causa quindi della profonda libertà di manovra lasciata dal leader stesso sulla maggior parte delle questioni di principio, tale da fare del berlusconismo una sorta di «monarchia anarchica»[45], il partito-contenitore (o la coalizione) che ne deriva lascia una vera babele di posizioni al proprio interno, permettendo così una certa possibilità di espressione e una certa rilevanza istituzionale e legislativa della Destra sui singoli temi, potendo essa convogliare il vasto consenso di varie anime su posizioni più a lei congeniali, ma non garantendole certo un’egemonia, cosicché la Destra (o comunque il sentire popolare più vicino ad essa) trova nel fenomeno berlusconiano un riferimento politico attivo relativamente più affidabile e più identificabile come “destro”, ma non certo ottimale, a volte deficitario, e sempre molto blando o, più spesso, quasi nullo nell’elaborazione e nella formazione culturali di partito che, quando presenti, tendono per lo più a creare confusioni concettuali, sotto l’etichetta variopinta del “liberalismo”. Il bilancio, ad ogni modo, sebbene suscettibile di grossi miglioramenti, non è negativo, ma si tratta di capire cosa e come sopravvivrà la formula berlusconiana[46], dopo l’eclissi (prima o poi, inevitabile) del fondatore. Non che ciò sia impossibile[47], perché la formula non nasce con Berlusconi (e perché il vuoto che copre gli preesiste), ma è da vedersi quanto essa, senza il vecchio leader, saprà mantenere compatte le componenti attuali del centrodestra e quanto essa possa mantenere la capacità di giungere al governo, specie considerando la concorrenza di volti che iniziano a utilizzare la medesima formula a sinistra[48];
f) la Lega Nord che merita menzione a sé non solo perché partito forte nel nostro presente, ma anche perché partito che meriterebbe analisi politologiche adeguate e che troppo spesso è invece rappresentato mediaticamente in modo caricaturale: la Lega è fenomeno complesso che è molto facile bollare come “nuovo razzismo”, o “intolleranza” e simili altri epiteti. In realtà, esso nasce come un fenomeno di rivendicazione economica e istituzionale localistica, mirante alla decentralizzazione[49] del potere contro lo statalismo: è una semplice reazione settoriale che però è in via di evoluzione. A fronte degli sprechi statali, frutto dello statalismo perpetrato dall’Italia unita, la Lega Nord ha rivendicato giustamente l’autonomia locale in campo economico e istituzionale, all’insegna del federalismo – più uno slogan che un contenuto, in verità – e all’insegna di una politica molto pragmatica, caratterizzata da una “buona amministrazione” (salvo le sempre esistenti eccezioni) e da una vicinanza al cittadino. È proprio la vicinanza al cittadino che, con l’avanzare dell’immigrazione e dei problemi concreti del cittadino ad essa legati, ha probabilmente permesso la scalata nell’organigramma del partito di alcuni (certo non tutti) soggetti mentalmente vicini a un’ottica di Destra e che ha anche costretto il resto del partito a ripiegare su una svolta identitaria in chiave utilitaristico-elettorale: il desiderio di identità degli italiani del nord, di fronte al progredire della “contaminazione” tra culture, fa muovere la Lega verso una parziale riscoperta – strumentale in alcuni casi, sincera in altri – delle radici culturali e dei principi delle proprie terre, quindi di quella cultura profonda e sommersa nel paese che è l’oggetto della Destra. Solo se si comprende il vuoto del “peccato originale” della politica italiana, si può comprendere allora il fenomeno Lega, verso cui molti cattolici guardano con favore, nonostante esso abbia spesso cavalcato, a fini elettorali, gli istinti più animali e verbalmente violenti del proprio territorio. Alla luce di ciò, la Lega non può essere compresa se non si capisce la storia politica italiana di cui abbiamo detto, ed è miope o disonesto darne una lettura macchiettistica che consideri strutturali e radicati i suoi toni eccessivi, che non tenga conto della semplice strumentalità elettorale della violenza verbale dei suoi esponenti – oggi radicalmente attenuata – e dei richiami folkloristici al paganesimo del dio Po e al passato (rivoluzionario) della Repubblica Cisalpina, nonché che non tenga conto della sua evoluzione evidente e ancora in atto. Ed è proprio tale evoluzione a permettere a questa reazione, progredita per cause contingenti fortunose, di proiettare sul proprio futuro un bivio interessante: 1) continuare a cavalcare un populismo che, alla lunga, la porti a morire senza costruire un radicamento culturale e (dopo un’affermazione elettorale più o meno prolungata) mantenendosi solamente come struttura di potere fine a se stesso, tale e quale la Democrazia Cristiana, oppure 2) presentarsi – al nord o in tutto il paese, a seconda della scelta che possa ritenere di fare in futuro, visto il suo progressivo affermarsi verso il centro d’Italia – come una delle culle migliori per la Destra, facendo evolvere la propria reazione in radicamento e difesa di principio, in Contro-Rivoluzione, a seguito di una elaborazione culturale e di un fecondo rapporto con quelle agenzie pre-politiche che sappiano trasmetterle le categorie culturali tipiche della Destra. Tuttavia, tranne la singola personalità (lontana nel tempo e non ascrivibile alla cultura di Destra) di Gianfranco Miglio [1918-2001], finora il rapporto della Lega con la politologia e la filosofia politica di un certo livello è stagnante, ma non è da escludersi che possa essere proficua col passare del tempo e con un’adeguata sensibilizzazione in merito operata sulle figure più ricettive e di spicco del partito.
3. Conclusioni: alla ricerca di una Destra che (non) c’è
Questa rapida carrellata, ci mostra come in effetti la Destra, anche all’estero (a causa dei fusionismi), ma soprattutto in Italia, abbia avuto la tendenza a votare (e farsi rappresentare da) una serie di forze non di Destra, più o meno ambigue o incomplete: «La Destra, come forza nazionale e che osa dire il suo nome […] è scomparsa […] E, tuttavia, la corrente di Destra rimane forte e potente: ma dà i suoi voti ad altri invece che ai suoi»[50]. Non significa che la Destra non ci sia, semmai si potrebbe dire che essa esiste e non esiste, a seconda del punto di osservazione. In effetti, nonostante la Destra non sia esistita e non esista partiticamente, istituzionalmente e, oggi, financo socialmente, a causa della secolarizzazione – ma è sempre presente uno “spirito sotterraneo”, ben visibile nelle periodiche reazioni identitarie popolari in fronte all’incontro/scontro con le altre culture, come mostrano i brillanti risultati della identitaria Lega Nord –, la Destra è esistita però a livello popolare e lo ha dimostrato più volte nelle insorgenze[51] contro il progressismo – come nel 18 aprile 1948 o come il movimento della «maggioranza silenziosa» del 1971 a Milano[52] –, ma soprattutto la Destra continua ad esistere nel senso comune delle persone, almeno per quella parte che di esso ancora sopravvive, dopo secoli di secolarizzazione progressista. Sacche di resistenza più fortunate e autoimmuni al cancro rivoluzionario nichilista contemporaneo, ma anche barlumi di semplici risvegli settoriali più socialmente diffusi, in reazione alle situazioni disastrate odierne, sono sempre presenti nel tessuto sociale del nostro paese, come nel caso delle reazioni (invero spesso non ragionate ma scomposte viscerali e violente) verso la pedofilia, oppure come nel caso del referendum sulla legge 40 riguardante la procreazione assistita – è quello che è stato definito «l’eterno ritorno del diritto naturale», inteso non come ripresentazione storica ciclica di esso, ma come sua permanente e potenziale presenza reattiva negli strati profondi della società[53] che, nonostante la sua negazione di principio, come una fiammella ancora viva sotto le ceneri, continua ad esistere, ma abbisogna di stimoli per divampare in incendio –. Ciò permette di gettare la piena luce su quelle operazioni intellettuali, fatte a tavolino, che pretendono di creare “destre” che si vogliono “moderne” o “europee” – e che invece, considerando come non abbia senso parlare di una “destra moderna” o “europea”, sono solo forme di sinistra lievemente più “moderata” –, e che trovano d’accordo solo l’intellighenzia della sinistra – che ovviamente vi plaude in modo da non avere più avversari veri in campo, creandoseli a sua immagine e somiglianza, come accadde già con la «Destra storica» –. Tali operazioni non tengono conto della realtà del contenuto che la Destra deve esprimere per potersi definire Destra, ma anche e soprattutto non tengono conto della realtà sociale, dell’esistenza di questo “spirito sotterraneo” che le condanna, nell’ordine: a) alla semplice strumentalizzazione da parte delle sinistre, b) allo scarso risultato elettorale, c) all’aggravamento del nichilismo contemporaneo, causato dalla cultura rivoluzionaria. È quindi fuori di logica e dettato da superficialità o disonestà intonare canti di lode – non a caso provenienti da sinistra – a operazioni di questo tipo, considerandole “destre” «normali» e contrapponendole[54] alla presunta «anomalia» berlusconiana della politica italiana – sempre sbandierata dai suoi avversari[55] – perché, in realtà, l’anomalia non è del polo “destro”. L’anomalia vera, invece, si è avuta a monte nel fatidico 1861 ad opera del progressismo ed è solo questa l’origine anomala di tutte le esperienze successive, che non vanno demonizzate e vanno capite per quello che sono: l’unica modalità di espressione possibile, necessaria e, almeno in un certo senso, “normale” della Destra, nella misura in cui sopravvivano le condizioni createsi da quella anomalia e in attesa chiaramente di migliori soluzioni che non coincidono però con “destre” «moderne» e auspicate dalla sinistra. D’altro canto tuttavia, a lungo andare, si rivelano inefficaci anche le forze di semplice reazione, prodotte a copertura del vuoto originato dall’anomalia risorgimentale e dalla stratificazione delle “destre”: i partiti-contenitore di stampo fusionista sono, infatti, necessari in chiave tattica in una società sempre meno recettiva verso i principi della Destra, perché, nel formare alleanze di soggetti diversi[56] (comprensivi di forze di sinistra più “moderata”), quindi nel formare alleanze di un numero maggiore di persone, tali contenitori sono l’unico modo per porre un ostacolo provvisorio (la classica “pezza”) sul cammino delle sinistre più “avanzate”; ma, al medesimo tempo, la storia ci dimostra[57] che tali partiti diluiscono il contenuto della Destra e la sua rilevanza sociale, permettendo ai concetti rivoluzionari di sopravvivere – con tutte le loro conseguenze sociali – anche al proprio interno e presso il proprio corpo elettorale, in un gioco di inavvertito svilimento e slittamento di contenuti che lascia così vincere, poco a poco, il progressismo nel lungo periodo, poiché pure la forza che ad esso si dovrebbe opporre tende a favorire principi più o meno parzialmente progressisti, portando così a una loro sedimentazione più lenta ma non meno efficace (o addirittura più efficace, perché il tempo permette uno slittamento “indolore”, inavvertito[58]). Tutto ciò, se non condanna i partiti-contenitore, che permangono necessari, comunque è rivelatore della tragicità insita nella loro indispensabilità. È necessario un fusionismo per poter cavalcare la reazione sociale al nichilismo progressista, e per risvegliarlo e farne una vera alternativa culturale contro-rivoluzionaria, ma ciò non basta e, se a questo ci si ferma, la società si rigetta a capofitto, dopo lunghi o brevi riposi, nell’abisso del brodo culturale rivoluzionario. È necessario dunque all’interno dei partiti-contenitore tutto lo sforzo di elaborazione intellettuale, di propaganda e formazione di ambienti che gli esponenti della Destra riescano a compiere.
In questo senso, l’anno del Signore 2011, nonostante il “risorgimentalismo” egemone e nonostante il caos della politica partitica attuale, sottoposta a un rimescolamento impressionante delle carte, può essere anche l’anno della chiarezza sulla Destra, se si riuscirà a comprendere finalmente il “peccato originale” della politica italiana. Difatti, una seria revisione storica non dell’unità d’Italia in quanto tale, ma del risorgimento, cioè solo una revisione del come questa unità sia stata concretamente perseguita – revisione basata sui fatti storici e non sulle rivendicazioni sindacali nazionalistiche di stampo localistico, prive di senso del reale –, può portare a una più seria riconsiderazione dei principi fondanti della comunità politica stanziata sul territorio italiano. Infatti, quest’ultima da sempre ha cercato il suo punto di riferimento di principio, il suo proprio collante sociale, dapprima nei valori rivoluzionari risorgimentali, poi in quelli rivoluzionari fascisti, e infine in quelli rivoluzionari del «patriottismo costituzionale», cioè in una serie di principi artificiali che si sono voluti imporre mediaticamente, scolasticamente e istituzionalmente dall’alto a un’Italia sottorappresentata che aveva già una sua identità culturale ben definita, pur nelle peculiarità locali; ma è alquanto facile dire che le varie imposizioni artificiali siano state inutili, come vediamo ogni giorno, perché non sono ovviamente state avvertite dagli italiani come la propria identità effettiva e profonda, con il risultato di aver eroso, poco a poco, di imposizione in imposizione, quell’identità, senza averne potuta dare nessun’altra –. Dalla presa d’atto dell’inefficacia (nonché scarsa intelligenza) delle imposizioni culturali e dalla riconsiderazione dei principi fondanti dell’Italia unita, si potranno finalmente comprendere anche fenomeni ed eventi della storia italiana (in primis, il dramma del fascismo e le tragedie delle due guerre), ancora incompresi realmente, che si sono prodotti solo a copertura del vuoto lasciato dall’assenza della Destra. Se non si studiano (o non si vogliono vedere) il “peccato originale” italiano e il vuoto politico conseguente, non si potranno capire le ragioni dell’accadere di quegli eventi: un serio studio potrà finalmente portare chiarezza, se lo si vorrà. Infine, da questa comprensione potrà finalmente ricavarsi, con buona pace delle false “destre”, quali siano l’origine, il fine, la natura, la cultura di una vera Destra, nonché le sue valide argomentazioni e soluzioni e, ancora, le vere modalità con cui essa dovrebbe esprimersi nella politica attiva. La Destra che non c’è esiste: basta cercarla. Ciò, per quanto doloroso e complicato possa essere per i percorsi biografici e culturali di ognuno, è nel solo interesse del paese per la risoluzione dei suoi problemi sociali e, se non vogliamo vedere dei peggioramenti del paese stesso, si impone come una necessità.
(fine)
[1] G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, in P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Edizioni Cristianità, 1977, pagg. 19-22.
[2] M. INVERNIZZI, I cattolici contro l’unità d’Italia? L’Opera dei Congressi (1874-1904), Piemme, 2002.
[3] A. PELLICCIARI, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme, 2000 e IDEM, Risorgimento da riscrivere, Ares, 1998.
[4] N. GÓMEZ DÁVILA, In margine a un testo implicito, Adelphi, 2001, pag. 130.
[5] BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona del 19 ottobre 2006, in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2006/october/documents/hf_ben-xvi_spe_20061019_convegno-verona_it.html.
[6] M. INVERNIZZI, Unità e Risorgimento. 150 anni, tre ferite, in il Timone n. 99/2011, pag. 36.
[7] J. PLONCARD D’ASSAC, Apologia della reazione, Il Borghese, 1970, pag. 170.
[8] E. GALLI DELLA LOGGIA, Intervista sulla destra, Laterza, 1994, pag. 34.
[9] R. CHIARINI, Destra italiana dall’Unità d’Italia ad Alleanza Nazionale, Marsilio, 1995, pagg. 76-77.
[10] J. PLONCARD D’ASSAC, op. cit., pagg. 170-173.
[11] G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, op. cit., pagg. 19-28.
[12] P. BUCHIGNANI, La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Mondadori, 2006, pagg. 240 e ss.
[13] Sul punto il filosofo del regime, Giovanni Gentile, era ben chiaro. Cfr. A. DEL NOCE, Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, Biblioteca Universale Rizzoli, 2007, pagg. 208-219.
[14] G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, op. cit., pag. 22.
[15] G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, il Mulino, 2008, pag. 325.
[16] Numerosi esempi si ricavano da P. BUCHIGNANI, op. cit., pagg. 255-269, 287-303 e 328-338.
[17] G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, op. cit., pag. 26.
[18] M. INVERNIZZI, Il Popolo della Libertà: un nuovo partito al di fuori e contro le ideologie, in Cristianità n. 353/2009, pag. 24.
[19] M. GAUCHET, op. cit., pag. 14 e R. DE MATTEI, Il centro che ci portò a sinistra. Le responsabilità della classe dirigente cattolica analizzate dopo la lettera ai vescovi italiani di Giovanni Paolo II del 6 gennaio 1994, Edizioni Fiducia, 1994, pag. 77.
[20] Su tale inconsistenza logica cfr. S. CALASSO, op. cit., pag. 22; G. ZENONE, A sinistra di Dio. Origine e destino del laicismo, Fede&Cultura, 2006, pagg. 17-23; R. DE MATTEI, op. cit., pagg. 75-77.
[21] L’espressione comparve dapprima in un articolo di Andreotti del 1946 sul quotidiano Il Popolo. La formula fu poi ripresa dallo stesso De Gasperi in un’intervista a Il Messaggero del 17 aprile 1948 e in altre occasioni.
[22] Per una panoramica generale su questo punto cfr. M. INVERNIZZI (a cura di), 18 aprile 1948. L’«anomalia italiana», Ares, 2007.
[23] Per un inquadramento del periodo del passaggio dal «centrismo» alle aperture a sinistra cfr. M. INVERNIZZI E P. MARTINUCCI (a cura di), Dal «centrismo» al Sessantotto, Ares, 2007.
[24] S. CALASSO, op. cit., pag. 22 e G. CANTONI, «Rifondazione democristiana», rinnovamento dell’egemonia dei «cattolici democratici» e rinascita del movimento cattolico, in Cristianità n. 215-216/1993, pagg. 10-11.
[25] F. SAULINO, No alla conta o il Ppi sparirà, in Corriere della Sera del 23/08/1999, pag. 9.
[26] G. CANTONI, «Rifondazione democristiana», rinnovamento dell’egemonia, op. cit., pagg. 8-9.
[27] Ibidem, pag. 10.
[28] A. GRAMSCI, Quaderni dal carcere, Einaudi, 1975, vol. II, pag. 1305.
[29] IDEM, I popolari, in L’Ordine Nuovo n. 24/1919, pag. 1.
[30] P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Prefazione, in F. VIDIGAL XAVIER DA SILVEIRA, Frei, il Kerenski cileno, Edizioni Cristianità, 1973, pagg. 10-11.
[31] La nostra deve essere una Repubblica fondata sulla libertà e sulla dignità della persona, in liberal n. 44/2007-2008, pag. 5.
[32] G. PARLATO, op. cit., pag. 331.
[33] E. PESERICO, Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, SugarCo, 2008, pagg. 138-140.
[34] Ibidem, pag. 140.
[35] G. PARLATO, op. cit., pag. 331.
[36] E. PESERICO, op. cit., pag. 140.
[37] G. CANTONI, Per un conservatorismo tradizionalista, in Cristianità n. 273-274/1998, pagg. 21-24.
[38] Come nel caso delle dichiarazioni di Fini sul referendum sulla procreazione assistita. Cfr. E. PESERICO, op. cit., pagg. 140-141.
[39] M. VENEZIANI, Fini resterà, la destra è già partita, in il Giornale del 19/04/2010, pag. 5.
[40] M. INVERNIZZI, Il Popolo della Libertà, op. cit., pag. 24.
[41] F. VERDERAMI, Parte la «gioiosa macchina da guerra», in Corriere della Sera del 02/02/1994, pag. 2.
[42] M. INVERNIZZI, Il Popolo della Libertà, op. cit., pagg. 22-23.
[43] Come ha dimostrato, già negli anni ’60, l’ascesa elettorale del progressista Kennedy, così come riportata dal suo collaboratore Sorensen. Cfr. J. PLONCARD D’ASSAC, op. cit., pagg. 75-82.
[44] Con riferimento al P.d.L. cfr. E. GALLI DELLA LOGGIA, L’invenzione di un partito, in Corriere della Sera del 23/08/2007, pag. 1.
[45] Per usare le parole del suo stesso “monarca”, Berlusconi. Cfr. U. MAGRI, Berlusconi: io, un monarca ma sull’etica siamo anarchici, in La Stampa del 28/02/2008, pag. 10.
[46] A. MELLONE, L’egemonia biodegradabile del Cav. non ha ancora passato la prova tv, in Il Foglio del 04/12/2010, pag. 2.
[47] G. FERRARA, Si può vivere senza Silvio ma sconsiglio di provarci, in il Giornale del 30/01/2011, pag. 1.
[48] È il caso, ad esempio, di Nichi Vendola, che, essendo figura molto televisiva e carismatica, si può definire in ciò degno figlio del berlusconismo, che pure ripudia a parole.
[49] M. INVERNIZZI, Aspetti del fenomeno leghista, in Cristianità n. 270/1997, pag. 5 [l’articolo tuttavia è piuttosto negativo sul fenomeno in quanto, essendo un testo datato, non può, per forza di cose, tenere conto dell’evoluzione della Lega odierna].
[50] J. PLONCARD D’ASSAC, op. cit., pagg. 84-85.
[51] L’«Insorgenza» è una vera categoria politologica permanente che va sempre considerata in una seria analisi politica o sociologica. Cfr. G. CANTONI, L’insorgenza come categoria storico-politica, op. cit., pagg. 25-28.
[52] M. INVERNIZZI, Il Popolo della Libertà, op. cit., pagg. 25-28.
[53] G. CANTONI, L’insorgenza come categoria storico-politica, op. cit., pag. 28.
[54] I. DOMINIJANNI, La normalità dopo l’anomalia, in il manifesto del 07/09/2010, pag. 1.
[55] Per un esempio tra tanti cfr. Veltroni: il premier anomalia del sistema, in Il Sole 24 ORE del 07/10/2008, pag. 19.
[56] P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, SugarCo, 2009, pag. 115 e J. OUSSET, Pur qu’ll règne, La Cité Catholique, 1959, pag. 378.
[57] Alcuni esempi di lento slittamento progressista e sedimentazione culturale, come quello dell’impropriamente detto Ancien Régime, pesantemente infiltrato dal pensiero rivoluzionario e per questo crollato inavvertitamente, si ricavano dalla lettura di T. MOLNAR, La Controrivoluzione, Volpe, 1970.
[58] P. CORRÊA DE OLIVEIRA, op. cit., pagg. 62-64 e 67-68.