“Dov’eri tu?”. Cosa mi ha insegnato arrivare sull’orlo della morte

Ringrazio l’amico che mi ha mandato queste riflessioni sulla sua malattia per la scelta di rimanere anonimo, che rende il suo racconto più intimo e spiritualmente fruttuoso. (a.g.)

a quanti, così tanti rispetto ai miei meriti,
hanno pregato per me
e a quanti, con gentilezza e rispetto,
mi hanno curato.

Ho avuto la sorte di ammalarmi di covid in una forma molto grave che mi ha portato sull’orlo della morte così da toccare con mano la verità di quelle parole: le tenebre erano sopra la faccia dell’abisso e il vento di Dio si muoveva sopra le acque (Gn 1,2), mentre sentivo il mio corpo divenire rapidamente inerme.

Il corpo per l’uomo è il più vicino ricordo di Dio, noi siamo appunto creati a sua immagine e somiglianza ed è questa, forse, la prima lezione che si apprende quando si inciampa in un genere di malattia così insidioso e terribile.

Avere la propria vita in bilico può spingere anche a lasciarsi morire, se, con la mente un po’ annebbiata, le forze scomparse, il nostro corpo non ha coltivato e trattenuto traccia di Dio dalle cui sole mani la nostra vita trova fondamento.

In questi frangenti, che si vivono come una vera e propria agonia, le immagini che attraversano la mente possono essere feroci e svianti.

Ho vissuto l’aggressione del covid come un’esperienza dell’estremo e il paradosso di questo tipo di percorso ha come esito il rifiuto o l’accoglienza di Dio. Si verifica la verità di quanto dicevano i vecchi preti: le conversioni sul letto di morte sono eventi rarissimi, difficilmente ci sono le condizioni, occorre prepararsi in precedenza perché ignorare la propria anima, non ci permette di comprendere che Dio viene a noi sempre in forma sponsale a meno che noi non lo rifiutiamo.

La disponibilità verso Dio introduce a una grande libertà e pace. E anche se non ci toglie il dolore dell’oscurità del presente, della sofferenza, ci apre appunto alla percezione che tutto e tutti siamo nelle mani di Dio e nessuno può rapirci dalla sua mano.

Nessuno!

Purtroppo noi siamo in un’epoca in cui la chiesa non trasmette più parole di vita eterna e, ripiegata sul presente, rende insignificante la coscienza del cristiano che sente come estraneo il grande insegnamento della sofferenza vome la forma di preghiera e di unione più perfetta con Dio. Neppure la sofferenza e il dolore “incosciente”, ossia anche quello che non è offerto consapevolmente a Dio, ne sono esclusi, è sufficiente che Dio non sia volontariamente escluso da questa esperienza di dolore.

La malattia porta a una condizione di nascondimento che è uno dei modi certi per incontrare Dio, che è una sottile voce di silenzio e non dimentichiamo che nella sofferenza è lo stesso Cristo che sta soffrendo; tutto questo è nascosto ma, per l’appunto, il mistero che siamo chiamati a vivere come cristiani e che fa parte della nostra identità è l’esperienza del nascondimento di Dio.

La malattia, non bisognerebbe dimenticarlo, è tempo di oscurità, ma è anche un tempo unico di grazia.

Un’esperienza ravvicinata della morte ci può aiutare a comprendere che il nostro sistema limbico non è suono sordo o l’ultima fantasia dei ricercatori, ma è un corpo fisico formato da tessuti che è imprudente spiritualizzare troppo perché forse la nostra anima occupa un posto in questo spazio e abita dentro di noi come i denti in bocca.  Non si può impunemente violentarla non riconoscendo Dio o inducendo a relativizzarlo.

Le emozioni che si sperimentano quando la morte ci tocca da vicino ci aiutano a prendere coscienza che con Dio ci vuole un’infinita pazienza, bisogna sapersi destreggiare senza tocchi troppo leggeri e contenendo quelli troppo forti per evitare di allontanarsi dalla Luce e perderLa per sempre.

La morte ci pone a contatto con la transitorietà e l’effimero e noi che portiamo il fardello del peccato lo possiamo sempre osservare nel nostro volto irrigidito nella maschera della passione che ha preso il sopravvento.

Ecco la necessità dell’ascesi, non digiuni o preghiere prolungate, ma frantumazione del cuore non come un ripiegamento su di sé, ma la sosta insonne sulla crepa profonda del cuore: qual’è la causa che ha reso le anime, che sono parti di lassù e totalmente gli appartengono, dimentiche del loro padre Iddio e ignare di se stesse e di lui (Plotino, Enneadi V)?

In quei giorni di malattia mi sono reso conto che esiste una condizione psicologica e ascetica propria della prossimità alla morte: il silenzio. Non è solo frutto della debolezza della malattia, dei farmaci o una scelta dettata dalla solennità del momento che spesso ispira dolcezza o anche un intenerimento perché è un segno dell’arrivo del distacco definitivo.

È propria di una condizione potenzialmente mortale, che può far camminare lungamente al bordo del vuoto e perciò comporta la necessità di essere preparati al silenzio.

Durante la vita dovremmo dedicare del tempo al silenzio, non come rinuncia ai suoni o fuga in un monastero, ma come un primo gradino ascetico (che a volte si paga a duro prezzo) che ci aiuta a prendere atto della nostra (in)capacità di contenere il bisogno di affermarci, di dire ‘io sono’.

Occorre allenarsi tutta la vita a scendere questo primo gradino!

L’affermazione di sé passa nella confessione che “Dio E’, non nell’insostenibilità dell’ “io sono” (come la morte ben dimostra).

Occorre tenere sempre nell’anima le parole del terzo capitolo di Genesi, cioè prendere consapevolezza che di solito il nostro rapporto con Dio è basato sulla contesa, noi lo vorremmo sempre possedere, manipolare (Gn 3,5), sia quando diciamo di accettarlo, sia quando affermiamo di rifiutarlo.

Abbandonare questo meccanismo nevrotico è veramente l’ascesi essenziale; saper ingoiare le proprie parole, attendere nel silenzio è partecipare della vita di Dio perché, come dice la Vulgata nel III libro dei Re (19,131) Dio è un fremito2 di un’aura leggera.

Di fronte alla morte possibile ci possiamo rendere conto che il nascondimento di Dio è parte della nostra identità, opporsi è molto vicino alla superbia…

Come non riandare al silenzio di Gesù durante la Passione, nessuna Sua parola di fronte alla ‘contesa’, al rifiuto, all’ingiusta sofferenza; con molta perspicacia un’antica lettura rabbinica della Bibbia, aggiungendo una lettera al testo ebraico (chi è come te fra i forti, o Signore? (Es. 15,11)), leggeva il versetto in un modo estremamente suggestivo (e, paradosso!, cristologico): chi è come te fra i muti, Signore?

Capita di sopravvivere; le reazioni, fisiche e mentali possono essere contrastanti, può insinuarsi l’angoscia ma credo di poter dire che sia possibile contenerla se teniamo vivo nella nostra anima e nella nostra mente che l’angoscia dell’uomo altro non è se non il dolore andato a male per la perdita della comunione con Dio.

Ogni malattia dovrebbe essere occasione per comprendere quanto sia importante la necessità di imparare a prepararsi alla morte.

Allora il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!” Simon Pietro, udito che era il Signore, si cinse la veste, perché era nudo, e si gettò in mare (Giov. 21,7).

Perché non vedere in quella veste cinta da Pietro un immagine possibile per indicare la necessità di prepararsi alla morte, allorché, quando sopraggiunge, si afferma con certezza: È il Signore?

Quando il corpo è attaccato, quando l’anima deve mobilitarsi per proteggere la mente dagli attacchi dovuti alla malattia, ai farmaci, alle circostanze, ci pare di toccare con mano, come l’unica verità, che la terra è fondata sul niente e si apre davanti a noi la voragine del terrore.

Quanto invece appare necessario che diventi sostanza (durante la vita) quella domanda rivolta da Dio a Giobbe: Dov’eri tu? quand’io ponevo le fondamenta della terra? (38,1)

Occorre sempre pregare che quel momento di paura estrema, se verrà, sia un temporale passeggero e ricordare la verità dell’osservazione di sant’Agostino: Questo voglio dire Signore Dio, non so da dove io sia venuto quaggiù in questa vita mortale, o dirò morte vitale? (Confessioni I, VI, 7).

In quegli ultimi momenti, nell’esperienza del dolore, il possesso deve far posto alla lode, cioè al più completo superamento di sé; cambia la prospettiva dell’io e il significato della propria autorealizzazione. E’ il momento in cui consapevolezza e inconscio si possono ricongiungere in una mutata condizione dell’io che, se pur con un cammino arduo, è approdata all’accettazione, diventa allora quieta esultanza, come una farfalla che s‘innalza nel suo primo volo.

Si giunge al termine dell’itinerario verso l’Essere, dove le parole di Dio più che pronunciate, sono sorrise3 e se avremo avuto la forza (dell’abitudine) di coltivare il ricordo di Dio dentro di noi, ne coglieremo l’aspetto sorridente e radioso.

*** *** ***

Come i due discepoli lasciando Gerusalemme per Emmaus (Lc 24, 13-53) non riuscivano a non raccontarsi l’un l’altro quanto era avvenuto perché pareva loro impossibile non trattenere la Presenza che faceva ardere il loro cuore, così queste mie considerazioni non intendono perpetrare i momenti terribili, ma confessare il sorriso della Presenza, l’invito a un’attesa vigile

NOTE

1 Modernamente indicato come 1° libro di Samuele.
I versetti 1-13 sono interessanti collocano in una giusta posizione “l’ardore” per Dio.
2 Tremito nel senso espresso in queste parole di Mario Rigoni: Ad un certo momento, prima che il sole esca dall’orizzonte, c’è un fremito. Non è l’aria che si è mossa, è un qualche cosa che fa fremere l’erba, che fa fremere le fronde se ci sono alberi intorno, l’aria stessa, ed è un brivido che percorre anche la tua pelle.E per conto mio è proprio il brivido della creazione, che il sole ci porta ogni mattina. ( RITRATTI Mario Rigoni Stern (1999) di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini),
3 Il riferimento è alla Divina Commedia (Par. I, 94-99) in cui Beatrice spiega a Dante l’ordo amoris dell’universo:
S’io fui del primo dubbio disvestito 
per
le sorrise parolette brevi, 
dentro ad un nuovo più fu’ inretito,                                

e dissi: «Già contento requievi 
di grande ammirazion; ma ora ammiro 
com’io trascenda questi corpi levi». 

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