DUE GRANDI ENCICLICHE PER LA SOLUZIONE AL DRAMMA DELLA MANCANZA DI LAVORO – di Luciano Garibaldi

di Luciano Garibaldi

 

 

 

Oggi il lavoro è il problema numero uno dell’Italia. Il nostro Paese condivide con il resto dell’Europa la crisi economica, ma primeggia, purtroppo, per gli altissimi livelli di disoccupazione che stanno gettando nello sconforto, quando non nella disperazione, milioni di giovani e anche di meno giovani. Come affrontare il problema? Non certo consentendo agli imprenditori di mandare a casa i dipendenti per poter poi arruolare valanghe di extracomunitari sottocosto che, in cambio di pochi euro, accorrono in Italia dal Nord Africa, dall’Est europeo, dall’Asia centrale, dal Sud America alla disperata ricerca di un tozzo di pane.

lbsUn’altra strada, per affrontare – e forse superare – la crisi, esiste. E’ tracciata in un libro di agile lettura, «Lavoro è partecipazione. Manifesto per una nuova strategia di azione sindacale» (Settimo Sigillo, Roma) scritto da un giornalista e saggista di lungo corso come Mario Bozzi-Sentieri, e da un sindacalista come Ettore Rivabella, segretario dell’UGL (la ex Cisnal, ovvero il sindacato cosiddetto «di destra») della Liguria. Entrambi genovesi, l’argomento è perfettamente consono alla loro formazione e alla loro cultura. Non per nulla la Liguria è da sempre la patria dei massimi eventi non  soltanto sindacali, ma anche culturali (e basta ricordare due nomi: Carlo Alberto Biggini e Carlo Costamagna) riguardanti le politiche del lavoro.

Il libro s’intitola «Lavoro è partecipazione» e viene presentato come un «Manifesto per una nuova strategia di azione sindacale». Vediamo dunque, in sintesi, qual’è la proposta degli Autori. Si tratta di abbandonare il «classismo», residuato della «lotta di classe», a favore di un progetto partecipativo che è poi una rilettura, in chiave attuale, dell’antica «compartecipazione agli utili», cara ai progetti di socializzazione in auge durante la Repubblica Sociale Italiana e mai attuati a seguito della inevitabile e fatale sconfitta. In altre parole: il fronte sindacale deve dialogare, alla pari, con il mondo imprenditoriale. Cosa che è ben lontana dalla nostra presente realtà, drammaticamente rappresentata da tumultuose vicende come quelle delle acciaierie di Taranto e Genova o della Fiat di Pomigliano.

Dura e difficilmente confutabile la requisitoria di Bozzi-Sentieri e di Rivabella nei confronti degli attuali parametri che governano il mondo della produzione e del lavoro. «E’ giusto pagare così tanto i manager?», si chiedono ad un certo punto gli Autori. «Manager» il cui compito non è mai quello di migliorare la produzione, ma è sempre quello di «snellire» il personale. «Spezzettano le aziende», scrivono gli Autori, «per ricavarne profitti da regalare ad azionisti sempre più esigenti e sempre più spesso identificabili negli istituti bancari, abbandonando al destino incerto quei lavoratori che per anni hanno contribuito ai successi delle loro società».

Ma quanto guadagnano questi «manager tagliateste»? Ecco alcuni esempi da far rabbrividire: Jamie Dimon, amministratore delegato (oggi si usa dire CEO, che personalmente non voglio neppure sapere che cosa significa) di JPMorgan, nel corso del 2011 ha portato a casa 20,7 milioni di dollari; James P. Gorman, di Morgan Stanley, 14,8 milioni di dollari. E in Italia, nel suo «piccolo», Corrado Passera, amm. del. di Intesa San Paolo, 5 milioni di dollari. I dati li ha pubblicati il «Financial Times». Dal canto suo, il «Wall Street Journal» ha reso noto che nel 2011, durante una delle fasi più acute della crisi, il numero di persone «ricchissime» è aumentato, nel mondo, del 12,2%. Il patrimonio netto totale di questo «gruppetto di privilegiati» è di 4.000 (quattromila!) miliardi di dollari, ovvero superiore al patrimonio combinato di 4 miliardi di persone al mondo.

Ci sono parole? No, non ci sono parole. Ma c’è una soluzione: spazzare via i CEO (questi CEO) e aprire la strada ai lavoratori «azionisti». Un modello che viene da lontano, anche se la classe imprenditoriale lo ha sempre respinto. Viene, per esempio, da Giuseppe Mazzini, ma anche dalla dottrina sociale della Chiesa. E basta andarsi a rileggere La «Rerum Novarum» di Leone XIII e la «Quadragesimo Anno» di Pio XI – come hanno fatto gli Autori – per capire che la soluzione alla crisi economica che ci attanaglia c’è. E si chiama: partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle aziende. Germania e Francia l’hanno introdotta nella loro legislazione. E ci sarà una ragione se stanno meglio di noi. L’Italia no, malgrado tale soluzione sia contemplata nell’articolo 46 della Costituzione. E perché no? Per la mancanza di volontà – come denuncia il segretario generale dell’UGL Giovanni Centrella nella prefazione al libro – da parte della classe politica, incapace di capire che l’inclusione dei lavoratori nelle dinamiche che ne determinano l’attività è l’unica strada che può condurre al massimo incremento della produzione e ad una più giusta ripartizione del reddito.

 

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